Radicarsi nei luoghi e nelle parole

Foto di Elia Buonora

di Pierpaolo Lippolis


Una donna vive da sola in una casa, ha un rapporto conflittuale con la madre dopo la morte del padre, lavora probabilmente nell’editoria e ama un uomo sposato con una sua conoscente. Racconta dei luoghi che frequenta, del quartiere e della città in cui abita e delle persone che incontra.

Dove mi trovo di Jhumpa Lahiri (Guanda, 2018) è parco di accadimenti: lievi tensioni e piccole incursioni nell’ordinario ne fanno da ossatura. Ogni capitolo è il racconto di un posizionamento che compone, assieme a tutti gli altri, la vita della donna nell’arco di un anno. La donna così si trova “sul marciapiede” (« al mattino dopo colazione su per una lapide in marmo appoggiata contro il muro alto della strada »), “in ufficio” (« difficile, qui, concentrarmi per bene. Mi sento esposta, circondata dai colleghi »), “in trattoria” (« pranzo spesso in una trattoria a due passi da casa mia. […] Mangio da sola insieme ad altri solitari, gente sconosciuta, ma mi capita spesso di incontrare volti famigliari »), “per strada” (« ogni tanto per strada nel mio quartiere mi imbatto in un uomo con cui avrei potuto avere una storia, magari una vita. […] Il nostro rapporto resta una chiacchierata dilungata sul marciapiede, un caffè al volo, magari due passi che facciamo insieme »).

Lahiri è nata a Londra da genitori bengalesi. La sua lingua madre è l’inglese (in cui sono scritti i suoi primi quattro romanzi); il bengalese lo parla, ma non sa né leggerlo, né scriverlo. Dell’italiano si è innamorata a un certo punto della sua vita e ha sentito l’esigenza di impararlo, poi di trasferirsi addirittura a Roma per lungo periodo. Di questa relazione parlava la sua rubrica settimanale su Internazionale: una relazione non semplice, fatta di grandi momenti d’amore, ma anche di difficoltà, ostacoli e inciampi. Dalla raccolta di tutti gli articoli su Internazionale è nato il suo primo libro totalmente scritto in italiano, In altre parole, edito da Guanda nel 2016.

Il rapporto con l’italiano era intrattenuto da Jhumpa Lahiri con una dolcezza e insieme un’ostinazione tali da renderlo un modello di confronto per ogni altra relazione di tipo amoroso, verso qualcosa o qualcuno. In altre parole, infatti, ricorda lo stesso sforzo di amare qualcosa che non si concede mai del tutto del saggio sulla falconeria della McDonald, Io e Mabel. E trattiene a sé anche la riflessione sentimentale sulle lingue propria di chi si trova in un crocevia linguistico, come Ágota Kristóf ne L’analfabeta o Elias Canetti ne La lingua salvata.

Partire da qui è necessario per comprendere l’operazione compiuta in Dove mi trovo, primo vero romanzo della scrittrice in italiano. Scegliere di scrivere in una determinata lingua significa essersi addentrati prima nel suo mondo, nel suo quotidiano, perché « ogni lingua appartiene a un luogo specifico. Può migrare, può diffondersi. Ma di solito è legata a un territorio geografico, un Paese. L’italiano appartiene soprattutto all’Italia ». Nei suoi primi racconti scritti in italiano infatti « i luoghi sono imprecisati, i personaggi finora sono senza nome, senza un’identità culturale specifica ». « Il risultato », scrive, è « una scrittura affrancata per certi versi dal mondo concreto », che costruisce « un’ambientazione meno determinata ». Non a caso un termine ricorrente nella serie di articoli di In altre parole è proprio “radice”, “radicamento”. La scrittrice dice di vivere in « una zona periferica in cui non è possibile che io mi senta radicata », in cui « mi scontro con l’imperfezione. Questa linea sinuosa lascia una traccia, mi accompagna ovunque. Mi tradisce, rivela che non sono radicata in questa lingua ».

Così in Dove mi trovo Lahiri radica la sua scrittura a un luogo, ai luoghi: racconta lo “stare”, costruisce un’ambientazione possibile, si esercita alla pratica di una narrazione posizionata, non più orfana né aleatoria. In questo incessante posizionamento, anche se la donna non specifica mai di quale città si stia parlando e i luoghi sono per lo più nominati genericamente, dietro a essi vi è un preciso rimando geografico. Quando si trova “al museo”, indicando nello specifico Palazzo Massimo alle Terme (« nonostante sia attaccato alla stazione ferroviaria, e quindi alla ressa perpetua, questo museo, il mio preferito, è quasi sempre deserto. Ci vengo abbastanza spesso nel secondo pomeriggio, dopo il lavoro »), lo fa lasciando solo indizi, mai dichiarazioni esplicite. Però è grazie a esso che riusciamo a individuare il luogo del romanzo: Roma.

In questo senso, un romanzo come Dove mi trovo poteva essere scritto soltanto da una persona a margine rispetto alla lingua. Ogni parola e ogni frase sono un tentativo straniero di appropriarsi delle cose e dei luoghi attraverso le parole, in un’operazione letteraria che vuole riflettere ancora una volta sulla lingua.

Lo stesso stile utilizzato da Lahiri è indicativo: c’è come una delicata fretta di arrivare al punto, la concitazione svela un desiderio di correre presto ai ripari. La metafora del trasferimento da una lingua all’altra è esemplificata con la frase che la madre rivolge alla protagonista: « quando si cambia casa sparisce sempre qualcosa. Ogni trasloco ti tradisce, ti frega ». Eppure, come in questo caso, il ritmo cadenzato delle frasi indugia sempre un poco. Quando dovrebbe esserci un punto, spesso troviamo una virgola, la frase continua come se avesse una doppia coda. « Il giorno dopo apriamo le porte e usciamo insieme, scendiamo insieme prima di separarci », o anche: « altri non sopportano quel periodo slabbrato, la chiusura violenta. Si deprimono, se ne vanno ». Alla timida fretta si accavalla sempre la premura, la dovizia del lessico. L’italiano della Lahiri nel suo farsi è come se fosse sempre alla ricerca di un’espressione più appropriata, di qualcosa che le manca.

In questo senso ogni parola pare soppesata per bene, a tal punto da far diventare suo stilema l’elenco di sinonimi della stessa area semantica. A un certo punto di In altre parole, Lahiri si appunta « sul taccuino una lista di verbi italiani che indicano l’atto di andarsene: scomparire, svanire, sbiadire, sfumare, finire. Evaporare, svaporare, svampire. Perdersi, dileguarsi, dissolversi ». Ritroviamo lo stesso gesto quando la donna si trova “in nessun luogo” e scompagina tutto il lavoro di ambientamento nella lingua e nella narrazione in quella lingua: « perché alla fine l’ambientazione non c’entra nulla: lo spazio fisico, la luce, le pareti. […] Esiste un posto dove non siamo di passaggio? Disorientata, persa, sbalestrata, sballata, sbandata, scombussolata, smarrita, spaesata, spiantata, stranita: in questa parentela di termini mi ritrovo. Ecco la dimora, le parole che mi mettono al mondo ».

Questa ossessione di raccogliere termini semanticamente vicini fa traballare l’intero impianto di Dove mi trovo, lo mette in dubbio, salvo poi avallarlo nella scelta precisa di dichiararsi figlia di una lingua in cui non è nata, ma che le appartiene per scelta e per amore. D’altronde Valeria Luiselli, altra scrittrice che vive e si muove in una zona di confine linguistico e culturale, ha scritto nel suo Carte False: « lo scrittore, quando non si sente a casa propria nella sua lingua, trasforma le squame in scale. Sale in cima al linguaggio, lo squarcia da dentro, cammina come un equilibrista sul tetto».

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