Archivi e speranza

In copertina: Mario Mieli e i militanti del FUORI a Sanremo nel 1972, da Fuori, n. 1. 1972.

 

Da Mario Mieli all’Alfa Romeo a Lesbians and Gays Support the Miners, il futuro frocio si costruisce nel passato.

di Milo Lamanna


C’è qualcuno di voi che è disposto a dire di non aver mai avuto, in tutta la sua vita, una voglia di tipo omosessuale?” chiede Mario Mieli a una schiera di operai silenziosi e corrucciati. La domanda scatena la reazione degli uomini, che si scompongono in risatine e gomitate, rompendo le file ordinate che avevano formato di fronte a Mieli. Una delle figure più iconiche della lotta per la liberazione omosessuale che divampa in italia a partire dai primi anni Settanta, nelle parole dell’attivista trans/femminista, editorialista ed editrice Antonia Caruso, Mieli è stato “considerato/osannato in quanto esemplare protoqueer. Queer prima del queer, transfemminista prima del transfemminismo, postmoderno prima del postmoderno”. La scena – pochi minuti di conversazione tra Mieli e gli operai dell’Alfa Romeo di Arese – è parte della piccola porzione disponibile online del documentario Diversi di Periferia, girato e scritto da Enzo di Calogero e Nereo Rapetti nel 1978 , mentre il resto del filmato (della durata di circa 20 minuti) è accessibile solo tramite la consultazione degli archivi multimediali della Rai. Il documentario è parte di una trasmissione andata in onda tra gli anni ‘70 e gli anni ‘80, chiamata Tabù Tabù, che affronta tematiche di attualità “controverse”. Il tema della puntata in cui viene trasmesso Diversi di Periferia è “l’omosessualità”.

Possiamo cogliere l’importanza di questo documentario e il suo ruolo nella costruzione di una memoria collettiva di quello che sono stati i movimenti di liberazione omosessuale attraverso la prospettiva elaborata dal teorico e attivista queer José Muñoz. Nel suo Cruising Utopia, Muñoz prende in considerazione la speranza come strumento di elaborazione teorico e politico. La speranza si muove su un doppio binario temporale: «il mio approccio alla speranza come metodologia critica può essere descritto al meglio come uno sguardo all’indietro che mette in atto una visione futura» (Muñoz 2022, 5). Il materiale d’archivio ci permette di costruire una temporalità della speranza tramite la capacità di queste fonti di influenzare le nostre narrazioni del futuro, tenendo da conto la forte componente emotiva che queste – specialmente quando in forma audiovisiva – mobilitano a livello collettivo e di movimenti. I due casi che ci permettono di seguire quella che Muñoz definisce ermeneutica della speranza sono i filmati d’archivio di Diversi di Periferia e un video prodotto nel 1986 dal collettivo inglese LGSM (Lesbians and Gays Support the Miners), chiamato All Out: Dancing in Dulais.

il documentario di Rapetti e Di Calogero si apre con Mieli che cammina da solo su un marciapiede deserto. Tacchi alti e viso truccato, sfoggia una tuta bianca stretta in vita, ironica rivisitazione queer e femme dell’uniforme da operaio. La sfilata si conclude davanti ai cancelli della fabbrica, dove inizia l’intervista con gli operai, radunati in piccoli gruppi. Le domande oscillano tra la volontà di trovare un terreno comune e un’istrionica necessità di provocazione. Figura carismatica e di difficile posizionamento, Mieli si fa portavoce da un lato di una dimensione “globale” di attivismo e dall’altro di una teoria di liberazione omosessuale che non ha precedenti sul panorama internazionale. Nella sua intervista con gli operai sviluppa un discorso che unisce le condizioni di emarginazione a cui sono sottoposti i lavoratori omosessuali all’interno della fabbrica a una serie di provocazioni che alludono all’universalità del desiderio omosessuale, nodo centrale di uno dei suoi testi più importanti, Elementi di Critica Omosessuale, pubblicato nel 1977.

La conversazione tra Mieli e gli operai procede per alcuni minuti in modo pacifico, nonostante la diversità lampante tra le due parti: Mieli è più alto degli uomini e i tacchi, il trucco e il garofano che spunta dal taschino segnano un confine invalicabile che lo separa dagli sguardi accigliati, i vestiti scuri e le braccia conserte degli operai, che formano un gruppo compatto. Con la domanda provocatoria sulle “voglie di tipo omosessuale” Mieli scatena la reazione degli operai. In un impeto di rabbia, uno degli uomini accenna con disprezzo al “parco Ravizza” (storico luogo di battuage degli omosessuali milanesi) e, nell’escalation finale dichiara a gran voce: “la sessualità è, se non sbaglio, tra un uomo e una donna”.

L’immagine della “checca” che, da sola, fronteggia una schiera di uomini accigliati è simbolica della travagliata relazione tra le avanguardie operaie e i movimenti studenteschi e il movimento di liberazione omosessuale. Se nei decenni precedenti al ’68 la questione omosessuale era rimasta marginale, relegata alla ricerca dell’integrazione nella società attraverso l’ottenimento di maggiori diritti e riconoscimenti i movimenti sessantottini forniscono alla lotta omosessuale una nuova spinta propulsiva. Sull’onda dei moti di Stonewall del ’65, fioriscono in Europa vari “fronti di liberazione omosessuale”: Dal Gay Liberation Front statunitense al Front Homosexuel d’Action Révolutionnaire francese, i movimenti post-Stonewall ricalcano la dimensione rivoluzionaria dei “fronti di liberazione nazionali” dei movimenti decoloniali come il Vietnamese National Liberation Front. Questo fiorire di movimenti è stato definito una “rivoluzione gay mondiale” dall’esponente del FLH (Frente de Liberacion Homosexual Argentino) Néstor Latronico. Alla base di queste mobilitazioni sta una messa in discussione dell’idea di “integrazione”: i gruppi omosessuali radicali devono integrarsi non più nella società borghese, ma nelle delle lotte che stanno riconfigurando i modi di produzione nelle fabbriche, nelle scuole, e nella famiglia. In Italia, questa ondata si concretizza in una confluenza di piccoli gruppi di militanti concentrati principalmente tra Roma, Milano e Torino: nel 1971 nasce il FUORI, Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano.

Il giornale Fuori!, nato nel dicembre del 1971, farà da perno e da centro gravitazionale al movimento omosessuale italiano per gli anni a venire. Nell’Aprile del 1972, con una contestazione contro un congresso sulle devianze sessuali tenuto dal Centro Italiano di Sessuologia, il FUORI entra a pieno titolo sulla scena dei movimenti di liberazione, con un posizionamento radicale e agganciato alle istanze di studenti, operai e femministe. La radicalità del Fronte, però, resterà in larga parte incompresa e, nei casi peggiori, rifiutata dai rappresentanti della sinistra rivoluzionaria e dalle avanguardie . Alcuni casi eclatanti, come le contestazioni subite da esponenti del FUORI alla manifestazione per il primo maggio a Campo de’ Fiori a Roma da parte di Potere Operaio, o come gli scontri e le tensioni tra attivisti del FUORI e collettivi studenteschi e proletari durante il festival di Re Nudo al Parco Lambro di Milano nel 1975, dimostrano come, nelle parole di Mieli stesso, «la maggior parte dei sedicenti rivoluzionari […] posti di fronte a noi indietreggiano inorriditi o si ritraggono con disgusto, proprio di tale morale e ideologia facendosi paravento» (Mario Mieli in “Fuori” n. 3, settembre 1972).

Lo spaccato del documentario di Rapetti e Di Calogero riflette il distacco tra movimenti rivoluzionari e movimenti omosessuali, questi ultimi quasi abbandonati a sé stessi nella lotta contro la tendenza alla sussunzione e contro l’«evasione dalla politica di un’omosessualità elitaria» (Muñoz, 2022) . Seguendo l’“ermeneutica della speranza”di Muñoz possiamo prendere in considerazione il documentario prodotto nel 1986 da Lesbians and Gays Support the Miners (LGSM), un collettivo formatosi tra il 1984 e il 1985 per raccogliere fondi e offrire solidarietà ai sindacati di minatori in sciopero contro le misure restrittive del governo Thatcher.

Il video, intitolato All Out: Dancing in Dulais, è interamente disponibile su YouTube e ripercorre i momenti salienti della storia di questo movimento di solidarietà. . Nel susseguirsi di interviste e stralci di riprese di cortei e assemblee, vediamo l’evolversi della narrazione elaborata dai protagonisti: se all’inizio la linea di separazione tra gli attivisti di LGSM e i minatori è netta e definita, assistiamo a una progressiva integrazione tra i due gruppi protagonisti. Fino a che un membro di LGSM dichiara: «tutte le barriere e i pregiudizi sono caduti quando siamo andati nella valle» (Dulais Valley – Galles del Sud). Da qui in poi, la retorica del documentario cambia e diventa centrale l’idea di comunità. Dall’intervista a uno dei leader di LGSM, Mark Ashton, che sottolinea come la lotta politica debba essere coinvolta nel sostegno di “tutte le comunità”, all’idea che non si può simpatizzare con un gruppo oppresso finché non si è stati effettivamente parte di uno di essi, emerge un senso di affinità e alleanza che si manifestano anche visivamente: in All Out non vediamo mai un’esasperazione della differenza come avviene in Diversi di Periferia.

Il primo elemento che ci guida nel confronto tra i due filmati d’archivio è sicuramente la questione dell’accessibilità: All Out: Dancing in Dulais è interamente disponibile su Youtube, mentre per quanto riguarda Diversi di Periferia sono disponibili online solo pochi frammenti, con montaggi e colonne sonore che differiscono dall’originale. Il fatto che per vedere Diversi di Periferia per intero ci si debba addentrare nei meandri logistici e burocratici dell’archivio costituisce un nodo importante in quel gioco a doppio filo di passato e futuro di cui parla Muñoz: la possibilità di elaborare un’ermeneutica della speranza a partire da quei filmati appare già parzialmente preclusa dalla inaccessibilità del documentario.

In secondo luogo, i due documentari differiscono nell’impatto emotivo che provocano all’osservatore e nella potenzialità di ispirare speranza. Se All Out ci restituisce lo spaccato di un incontro imprevisto che ha reso possibile la creazione dell’alleanza insolita tra collettivi LGBTQ+ e minatori, accendendo una scintilla di solidarietà che ha continuato a influenzare, sia a livello politico che narrativo, la storia dei movimenti inglesi, Diversi di Periferia ci parla di un incontro mancato e di un conflitto mai risolto, e ci lascia col dubbio: cosa sarebbe successo se il dialogo tra Mieli e gli operai dell’Alfa Romeo fosse stato proficuo? Se seguiamo la temporalità doppia della speranza, ci troviamo ad osservare i lasciti e le influenze sul presente di questi due filmati che costituiscono le fonti principali per la produzione di due film, che rispecchiano perfettamente il ruolo cardine delle immagini e delle narrazioni nella costruzione della speranza.

All Out: Dancing in Dulais è una delle principali fonti storiche che fanno da base alla produzione del film britannico Pride, diretto da Michael Warchus e presentato a Cannes nel 2014. Il film ripercorre la storia dei leader di LGSM (Mark Ashton e Michael Jackson) e le fasi salienti del movimento di solidarietà tra minatori e collettivi LGBTQ+ londinesi. Ieuan Franklin, dell’Università di Bournemouth, si concentra sulla documentazione audiovisiva della storia dei movimenti omosessuali, sul loro impatto sulla sfera affettiva e sensoriale della solidarietà, e come questa sia trasmessa in modo efficace e potente tramite il medium del filmato. Lo scopo di un video che documenta battaglie politiche è quello di rendere la lotta “viscerale”, inducendo l’osservatore a “portare avanti quella stessa lotta”. Recuperando il materiale documentario da fonti come All Out, il film Pride lavora su un ulteriore livello emotivo: quello della nostalgia. Il film scatena quello che Hildebrand, parlando dei video prodotti durante le lotte contro l’AIDS, definisce “il fervore dell’attivismo queer” (Hildebrand 2006, 310). La nostalgia – veicolata da un particolare impiego di musica ed estetica – porta chi osserva ad immedesimarsi nei protagonisti e nelle loro battaglie. Anche se alcuni si sono soffermati sulle criticità di Pride, definito da Franklin come un film “retrò e feel-good”, in esso si trova la materializzazione della dimensione affettiva degli oggetti d’archivio, che conservano la potenzialità di mobilitare iniziative politiche.

Se Pride è un’operazione ben riuscita, che integra in modo organico elementi di finzione con quelli d’archivio e fa leva sulle potenzialità emotive di questi ultimi, il film biografico su Mario Mieli Gli Anni Amari, pur inserendo al proprio interno stralci delle riprese di Diversi di Periferia, fa più fatica a mobilitare la dimensione della speranza. Gli Anni Amari, lungometraggio diretto da Andrea Adriatico e scritto da Grazia Verasani, Stefano Casi e Adriatico, uscito nel 2019, ripercorre la storia di Mieli e la sua militanza nei movimenti di liberazione omosessuale italiani e milanesi. Il film ha scatenato molte critiche e le più feroci si sono alzate proprio dall’interno dei movimenti LGBTQ+ , primeggiate dall’impietosa recensione della sorella, Paola Mieli, pubblicata su La Falla del Cassero nel 2021. Gli Anni Amari è il perfetto esempio di un tentativo di districarsi dall’ intreccio di passato e futuro, archivi e produzioni contemporanee: nel racconto biografico e personale di Mieli vengono inserite infatti alcune scene delle interviste agli operai dell’Alfa Romeo. Nonostante ciò, il film non riesce a mobilitare quel senso di nostalgia e di immedesimazione che rendono Pride un’opera così potente: Mieli sembra lasciato da solo anche dai suoi biografi, che ne restituiscono un’immagine a tratti macchiettistica e disperata. La dimensione emotiva che il film restituisce è quella di disillusione e di amarezza, tanto che il titolo appare quasi ironico. Se l’archivio e la sua possibilità di contaminare il presente possono essere presi ad esempio della “doppia visione” descritta da Muñoz, il futuro che si proietta attraverso la lente de Gli Anni Amari non porta con sé il segno della speranza. Del resto, il marchio di una “sconfitta” è impresso in partenza in questo viaggio temporale: del documentario Diversi di Periferia, di cui i filmati davanti all’Alfa Romeo non sono che una piccola parte, non è visibile quasi niente. Ciò che resta è un Mieli solo e caricaturale – sarebbe irrealistico pretendere che questa narrazione sia ribaltata in una produzione contemporanea che si basa, esplicitamente, su quei pochi minuti di girato.

Per scrivere questo articolo sono entrato nell’archivio della Rai, sperando che le parti mancanti di Diversi di Periferia mi restituissero lo stesso entusiasmo dei girati di All Out: Dancing in Dulais, ma così non è stato. Nell’intreccio di questi quattro film vediamo come la speranza, per prendere forma nel contemporaneo, abbia bisogno di basi solide e di un’attenzione particolare per il passato. Se Pride maneggia con cura le sue fonti d’archivio, dando loro un’energia nuova, adatta al presente, Gli Anni Amari invece non riesce a fare breccia in quella barriera che separa passato e presente e ci rende difficile immaginare una speranza per il futuro. l’impossibilità di restituire una dimensione di speranza con cui si confronta il film di Adriatico ci parla dunque da un lato della mancata valorizzazione delle fonti d’archivio e della loro potenziale energia trasformatrice, e dall’altro della disillusione che provoca l’analisi del mancato incontro tra collettivi omosessuali rivoluzionari e movimenti d’avanguardia nel corso degli anni Settanta.

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