Sapere del corpo e scrittura ai margini.

In copertina: Una statua della Difunta Correa a Vallecito, Messico

 

Corpo e spirito in “Sono una pazza a volere te” di Camilla Sosa Villada.

di Sofia Racco


Santuario della Difunta Correa a Vallecito

Don Sosa e La Grace prendono la loro Renault 18 sgangherata e con una scorta di mate, scones e panini con la cotoletta, affrontano il deserto per raggiungere un santuario a Vallecito. Vanno a trovare la Difunta Correa, santa popolare ai margini della religione istituzionale. Chiedono un miracolo per la figlia trans: sospettando che sia finita in giri strani e pericolosi, vanno al santuario a chiederle aiuto. Vogliono un miracolo che riporti la figlia sulla buona strada, che le faccia trovare un lavoro rispettabile e la tiri fuori dai guai. Questo miracolo avviene, e prende strade inaspettate: la figlia di Don Sosa e La Grace debutta a teatro con lo spettacolo Carnes tolendas. Il miracolo non l’ha cambiata: le ha solo fatto trovare la sua voce, dandole gli strumenti per poter essere sé stessa con ancora più convinzione e vigore.

Questo è il racconto che apre “Sono una pazza a volere te” di Camilla Sosa Villada, la prima autrice trans sudamericana tradotta in Italia da Giulia Zavagna per SUR, dopo l’esordio con Le cattive per la stessa casa editrice. Villada ha iniziato la sua carriera nel teatro: nel 2009 debutta con il suo spettacolo Carnes tolendas, retrato escénico de un travesti, risultato della commistione tra le sue esperienze autobiografiche riportate nel suo blog La Novia de Sandro con la poesia di Federico Garcìa Lorca.

Grazie, Difunta correa è un sunto della sua vita e dei suoi primi passi nel mondo del teatro e della scrittura, ma è anche una dichiarazione di poetica: “nella scrittura è inutile mascherare una prima persona perché i testi cominciano a soffrirne dopo tre o quattro capoversi”, afferma subito identificando la sua voce narrante con la figura della figlia trans di Don Sosa e La Grace. Camilla Sosa Villada mette al centro proprio la sua storia, una storia che porta i segni del suo essere un corpo dissidente, che ha attraversato il tempo e peregrinato per deserti e metropoli per reclamare il diritto di continuare ad esistere nella sua forma più autentica. Ma la storia per essere tale deve estendere la solitudine provata da quel corpo a una moltitudine di altre esistenze che ne condividono le sembianze e la sostanza: questa rete di solitudini plasma l’idea di una comunità come luogo di accudimento e di ricostruzione di sé stesse dove onorare e permettere alle ferite, fisiche e mentali, di esprimersi e di guarire.

Le nove storie che si susseguono e si espandono nel tempo e nello spazio, partendo dall’Argentina fino ad arrivare in Messico e negli Stati Uniti, hanno la vitalità ancestrale della tradizione orale, delle storie generate e tramandate dal riverbero di voci e dalle orecchie di chi ha avidamente raccolto questa eredità densa di parole e rumorosa, fatta di cose essenziali, di cibo, umori e sesso. Un’eredità di linguaggio che viene onorata non rispettandone l’integrità ma distruggendola, scomponendola, riassemblandola in una nuova epica che crei nuovi spazi d’esistenza, nuove narrazioni. Le storie di Villada riconoscono anche il loro passato, nascosto tra le pieghe della tradizione letteraria, dietro le sofferenze e i desideri di personaggi che hanno goduto della possibilità di avere un nome, un autore, uno spazio:

“Una trans conosce la solitudine, come Donna Rosita nubile. Una trans conosce l’autoritarismo e la mancanza di libertà, come nella “Casa di Bernarda Alba”. E non ci sono forse trans che rimpiangono di non essere madri, come Yerma? E non vivono forse passioni disperate, come gli amanti di “Nozze di sangue”? Trans fucilate o assassinate, come lo stesso Federico Garcìa Lorca.”

Statua della Difunta Correa a Vallecito
Il grande corpo delle storie di Villada è fatto di una moltitudine di corpi irrequieti, riottosi, in contatto con il loro lato selvaggio e fantastico: la donna trans che dà alla luce sei cuccioli di cane e si fa crescere sei capezzoli per poterli nutrire in “Sei tette”; una volpe dalle fattezze umane; il “bastardino color caffellatte” che fa compagnia al piccolo Martincito intrappolato in una casa con un padre violento in “Non restare troppo a lungo nella polvere”; altri cani che assumono fattezze umane e provocano incidenti buttandosi in mezzo alla strada ne “La casa della compassione”. Questi corpi marginali sono custodi di una memoria primordiale, non dimentica delle sue origini ferine, irrazionali, dei miti che hanno formato la loro identità e della natura che li ha generati.

Il punto di contatto di ogni storia è la marginalità come luogo generatore di solitudini inedite, ma anche di nuove e bizzarre forme di relazione, di intimità: dalla donna trans che dopo una serata di prostituzione mette insieme i soldi per organizzare un pomeriggio con gli amici a base di tè e di scones; ad Ava e Marìa, protagoniste del racconto che dà il titolo alla raccolta, che formano una piccola famiglia con Billie Holiday, incontrata in una fumeria di Harlem. Sono tutte esistenze che riconoscono, nel prendersi cura l’una dell’altra, l’unica possibilità di sopravvivenza: la cura non è un vezzo, è un atto radicale, una scelta di vita, un codice di comportamento attuato in maniera istintiva. Flor de Ceibo trova questo luogo di cura nel convento di religiose che battezzano e ospitano centinaia di cani con zampe da cavallo e compiono rituali davanti alla luna calante. Ava e Marìa diventano il rifugio di Billie Holiday da un Louis Armstrong violento; a sua volta la cantante afroamericana diventa per le due parrucchiere di Harlem uno spazio di riconoscimento della loro femminilità, una fantasia che si cala nella loro realtà attraverso i contorni di un corpo imperfetto.

“Aveva i capelli secchi e maltrattati, ma quando si scioglieva l’eterna coda sembrava un’amazzone appena arrivata a New York. Però preferiva portarli sempre raccolti, in una treccia tirata. In quel modo, riusciva a stiracchiare anche le rughe intorno agli occhi e sulla fronte. Aveva un paio di denti scheggiati, ma all’epoca chi poteva concedersi il lusso di una dentatura perfetta? Solo i bianchi, le stelle del cinema e della radio. E a volte nemmeno Humphrey Bogart.”

Altro punto cardine dell’esperienza raccontata da Villada è la morte, che non si presenta come un orizzonte metafisico da contemplare o un quesito esistenziale, ma come una possibilità concreta, percepita a ogni respiro, una linea di confine, un caldo e confortante abbraccio. Ma la morte diventa anche un luogo da cui è possibile ritornare, un portale tra il corpo e lo spirito, la sede magica di maledizioni, vendette e rivalse. La morte può essere la fine di tutto ma anche una rigenerazione per i corpi che sono stati maltrattati in vita: come Cotita de la Encarnaciòn, condannata al rogo nel 1658 per sodomia, che ritorna in vita nella parola letteraria per lanciare piccole maledizioni e possibilità di reincarnazione.

“Allora capii che sarei tornata a questo mondo più e più volte dopo morta. Avrei consegnato la mia bontà al fiume Lete, avrei bevuto un sorso della sua acqua per dimenticare e sarei tornata a questo mondo per trascinarmi sotto i loro letti, far sbocciare piccoli tumori nei loro stomaci, nei loro polmoni, far crescere palle di unghie e peli fra i loro organi e i loro muscoli. Avrei irrorato di malattie l’esistenza dei loro discendenti, di tutti coloro che mi trovarono la notte del 27 settembre del 1658 e di coloro che mi videro morire in fiamme un mese e nove giorni dopo. Avrei invaso la carne dei loro figli con la mia anima risentita. Mi avevano uccisa, ma io sarei rimasta con i loro figli. Li avrei presi ancora bambini, quando non facevano differenza tra il bene e il male, e lì, in quei corpicini da nulla, avrei depositato il mio vizio di travestita.”

La morte si fa depositaria di una forza indomita, depositaria della memoria di ingiustizie e vendicatrice di soprusi che si sottrae all’oblio e diventa la fase dell’ennesima trasformazione. E il corpo è ancora una volta il centro nevralgico della rivolta, della trasformazione: i corpi di quattordici sodomiti bruciati che prosciugano il lago Texcoco, il corpo senza vita della Correa che riesce ancora a nutrire il suo neonato, il corpo di Flor de Ceibo che a ogni luna calante si trasforma e si confonde con quello di un cane con zampe di cavallo.

La pratica del racconto ha il potere di conservare e tramandare una storia collettiva, di strapparla all’isolamento e rivendicarla. “Bisogna scrivere, fin dal principio, per riempire le ore nella natura che non tace mai. È un sapere del corpo. Questa è l’abitudine delle mie mani e dei miei pensieri”.

La scrittura di Villada non può prescindere dalla prima persona, ma questo non la rende solipsistica, ripiegata su di sé: è un percorso accidentato, che parte dalla radice dell’esperienza personale della scrittrice sudamericana come donna trans e diventa un racconto nella sua accezione relazionale. Una forma di narrazione che richiede uno scambio, un punto di contatto. Consapevole di dover riconoscere sé stessa e le sue origini per poter prosperare e saper raccontare qualcosa all’infuori di sé, per recuperare una conoscenza primigenia sepolta dal tempo e tracciare una mappa che unisca voci, luoghi ed ere diverse.

Così la Difunta Correa veglia sulla penna di Villada, con la sua religione che non si dimentica del corpo e dei suoi patimenti, trascinandosi dietro una fame, una sete e una solitudine che oltrepassano l’esistenza terrena e che non possono essere esenti nemmeno da orde di fedeli premurosi che le portano bottiglie d’acqua e vestiti da sposa. Sotto questa protezione segreta fioriscono le storie delle donne trans, fatte di equilibri spezzati, di rifugi temporanei, di fughe inevitabili, dove la violenza e la ferocia sono intrinseci all’esistenza, parte integrante del plasmarsi dei loro corpi marginalizzati. Ma lo sono anche la tenerezza, la compassione, la vulnerabilità: il dolore e le ferite sono attributi della carne ed è dalla carne che parte tutto, spirito compreso.

“Sono una pazza a volere te” è la ricostruzione di questo sapere del corpo, il recupero del potere di formule magiche dimenticate, di piccoli miracoli abbandonati: Villada rifonda un linguaggio nuovo, cruento e mistico allo stesso tempo, rituale e carnale, che sappia restituire lo splendore dei piccoli gesti di rivalsa, delle mutazioni repentine, dei desideri inestinguibili.
Ritratto in bianco e nero di Camila Sosa Villada. Foto di Alejandro Guyot

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