Condividere o non condividere: questo è lo Sharenting

Una riflessione sullo sharenting, attraverso le sue cause e implicazioni, come spazio di confronto sulla genitorialità nell’epoca digitale e sugli strumenti per viverla con consapevolezza

di Claudia Fiorillo


In una foto c’è un neonato che fa il bagnetto. In un’altra un bambino qualche anno più grande sorride con il mento sporco di gelato. In un video una bambina è spaventata per uno scherzo. In un altro sta avendo una conversazione intima con la mamma registrata dalle telecamere di sicurezza. Ogni giorno momenti di vita quotidiana dei bambini diventano contenuti pubblicati sui social dai loro genitori. È il fenomeno dello sharenting.

Il termine nasce dalla crasi delle parole inglesi share (condividere) e parenting (essere genitori). Già durante il lockdown è riecheggiato attraverso articoli e blog per parlare di quei genitori che, costretti in casa a causa della pandemia, pubblicavano quotidianamente contenuti sui propri figli. Nell’ultimo periodo è tornato ad essere argomento di discussione dopo che la Francia ha approvato un disegno di legge che limita la potestà dei genitori sui diritti di immagine dei propri figli, dei quali ribadisce il diritto alla privacy. In Italia il fenomeno ha toccato l’interesse del Garante della Privacy, che ha strutturato una pagina informativa sul sito web al fine di sensibilizzare i cittadini.

Oggi a destare ulteriori preoccupazioni è il cosiddetto oversharenting, cioè non tanto o non solo la pubblicazione di una foto di minori, quanto la loro sovraesposizione attraverso un racconto quotidiano e intimo. Ma dove affonda le radici questo fenomeno? Quali sono le cause? E quali i rischi?  Nella riflessione sul tema è importante partire da un principio di fondo: parlare di sharenting non vuol dire giudicare i genitori che lo praticano ma piuttosto aprire uno spazio di confronto sulla genitorialità nell’epoca digitale e dotarsi di strumenti per viverla con consapevolezza. Affrontare in questi termini il tema dello sharenting rientra infatti nella necessità ben più ampia di sviluppare un’educazione e una disciplina all’utilizzo della rete, servendosi degli strumenti digitali (e i social network nello specifico) nel modo più corretto.

Il fenomeno ha preso il largo nel mondo degli influencer, degli attori e di tutti quei personaggi di fama mediatica che, nel raccontare la loro vita quotidiana, accendono i riflettori anche sui propri figli. Mamme e papà blogger fanno della propria genitorialità il cuore del loro storytelling, mostrandosi in rete con i propri figli non raramente per sponsorizzare un prodotto o un brand. Secondo una ricerca di eMarkter, il 61% dei consumatori si fida delle raccomandazioni degli influencer, sia in termini di acquisti che di stili di vita e approcci a situazioni della vita, come la genitorialità. Dunque il fenomeno si è velocemente esteso al di là dello schermo, diffondendosi tra le persone comuni. Per la generazione dei Millennials,  a cui appartengono in media la maggior parte delle madri italiane oggi, la pratica di condividere ogni aspetto della propria vita sui social è un atteggiamento naturale e fisiologico. Di conseguenza anche la genitorialità diventa protagonista del racconto quotidiano sui social. Basti pensare alla condivisione di ecografie, test di gravidanza, party di “gender reveal” o “baby shower” per capire che la narrazione dell’essere genitori inizia sui social molto prima che i figli vedano la luce.

In relazione all’origine dello sharenting, il giornalista Gianluigi Bonanomi nel suo libro Sharenting. Genitori e rischi della sovraesposizione on line individua diverse motivazioni scatenanti. La prima potrebbe essere la tendenza alla “vetrinizzazione sociale” tipica del nostro tempo. Questo concetto era emerso già nel paper “Figli in Vetrina” pubblicato sulla Rivista Italiana di Educazione Familiare da Davide Cino, Ricercatore in Pedagogia Generale e Sociale all’Università Bicocca di Milano, e Silvia Demozzi, dottoressa di ricerca in Pedagogia e Professoressa associata in Pedagogia generale, sociale e Filosofia dell’educazione presso l’Università di Bologna. Nell’articolo i due studiosi collegano il fenomeno dello sharenting al concetto di vetrinizzazione sociale che funge da palcoscenico e specchio  insieme  per  gli  eventi  della  vita  di  un  individuo  e  dei  suoi  diversi ruoli all’interno della società” e che impone agli utenti di esporre con una trasparenza massima il racconto della propria vita nel modo più autentico e credibile possibile. Condividere i contenuti dei propri figli sui social diventa dunque un modo per raccontarsi come genitori, oggettivando il proprio status attraverso una rappresentazione socialmente condivisa.  Secondo questa correlazione, lo sharenting sarebbe dunque la diretta conseguenza della vetrinizzazione della genitorialità, che trova proprio nei social network lo spazio perfetto, dal momento che consentono una moltiplicazione di immagini che ciascun individuo può produrre ed esporre “in vetrina”. Ma se mettere in vetrina la propria vita è una scelta unicamente individuale smette di esserlo nel momento in cui in vetrina viene esposta anche l’infanzia dei propri figli.

Tuttavia le ragioni dello sharenting non possono essere correlate unicamente a questa sfera narcisistica. Il fenomeno potrebbe invece essere correlato anche all’insicurezza dei Millennials sull’essere genitori oggi. Questi giovani genitori infatti sono spesso lontani dalla città di nascita e dalle famiglie e dunque privi di punti di riferimento per questa nuova condizione di vita; ricevono ogni giorno input dai social su cosa fare o cosa non fare per essere dei “buoni genitori”, senza trovare una risposta univoca; conducono vite frenetiche pur anelando un buon work life balance. Che sia per il desiderio di condividere la vita dei propri figli con parenti o amici lontani, per ricevere rinforzi positivi (commenti, like o messaggi) o per ricercare informazioni a supporto della propria genitorialità, in molti casi lo sharenting sembra la manifestazione oggettiva di un disagio generazionale. Anche per questo per molti genitori il web diventa una grande comunità con la quale condividere momenti della propria vita genitoriale al fine di avere un confronto e aiuto.

Spiega bene questo punto la giornalista Emma Beddington in un articolo del Guardian “Non ho messo online i miei figli per soldi, ma l’ho fatto per me stessa, assolutamente. Avevo fame di connessione e supporto; avevo bisogno di quel villaggio digitale. Sono certa che Internet riempia ancora un buco per le persone – i genitori possono essere terribilmente soli – e sospetto che ci sia un tocco di questo anche dietro il contenuto più patinato e ambizioso di momfluencer. Ma quanto della storia dei tuoi figli è giusto condividere è una domanda intricata e – per quanto innocua sia sembrata la mia “condivisione” – non sono ancora sicura di averlo capito.” 

Indipendentemente dalle sue ragioni d’essere, lo sharenting nasconde un lato oscuro, che tocca diversi punti sensibili. In primis, la pubblicazione di contenuti sui figli da parte dei genitori apre la riflessione sul tema del consenso. Nessun genitore infatti ha ricevuto dal figlio l’autorizzazione a pubblicare foto che lo ritraggono (immaginiamo un neonato che presta il consenso alla pubblicazione della foto del momento della sua nascita). Ma una volta online, un contenuto smette di essere controllabile rendendo impossibile gestirne la diffusione. Uno dei rischi è infatti correlato alla possibilità che i contenuti in rete possano diventare materiale pedopornografico. Ma non solo, possono anche diventare causa di fenomeni di cyberbullismo quando, ad esempio, una foto di un adolescente in costume da bagno viene usata dai suoi coetanei come strumento di body shaming.

Il lato oscuro dello sharenting si estende anche al rapporto genitore-figlio che, proprio a causa del consenso mai fornito dal secondo, può generare un forte disagio, specialmente se i protagonisti delle foto o dei video sono in età scolare/adolescenziale, un momento della vita particolarmente delicato per la gestione del sé e del rapporto con gli altri. I bambini/adolescenti possono sentirsi imbarazzati, infastiditi e frustrati da ciò che i genitori mettono in mostra di loro e sentirsi violati nella loro privacy. Ricordiamo l’episodio in America nel quale Gwyneth Paltrow ha ricevuto pubblicamente commenti di risentimento da parte della figlia Apple dopo aver pubblicato una loro foto in montagna, dopo aver concordato con lei che non avrebbe più postato niente senza consenso.

 

Infine, lo sharenting può avere implicazioni in termini di identità personale. In che modo una persona domani si relazionerà con quello che è stato pubblicato di sé sui social in passato? Quando i bambini di oggi navigheranno in rete autonomamente come gestiranno la propria identità online, che è nata ancora prima che venissero al mondo ed è cresciuta e si è sviluppata al di fuori del loro consensuale controllo? Immaginiamo una persona che non si ritrova in una sessualità definita e convive con i video online del suo gender reveal nel quale mamma e papà esultano alla scoperta del suo sesso: che reazione avrebbe? Probabilmente creerebbe uno scollamento tra l’identità virtuale e quella reale con conseguenze in termini di relazioni con se stessi e con gli altri. Tuttavia, per misurare questi effetti sarà necessario aspettare. Infatti sarà possibile valutare le conseguenze di questi comportamenti solo su un  arco temporale più ampio, quando cioè i bambini e neonati di oggi saranno liberi di navigare in rete e vivere le proprie esperienze di vita digitale in autonomia. 

Arrestare il fenomeno dello sharenting è possibile? Realisticamente no. É però possibile informarsi ed essere genitori consapevoli, limitare la condivisione di materiale intimo e dunque sensibile e, se si ha a che fare con adolescenti o giovani adulti, consultarli per chiedere loro il consenso o trovare una modalità che rispetti da un lato il desiderio di comunicare dei genitori e dall’altra preservi l’identità, la privacy e la sicurezza dei figli. 

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