La Rivoluzione non va in TV (e nemmeno su Internet)

Un’intervista ‘sbagliata’ ad Alberto Piccinini, convitato di pietra in questo dialogo sulla controcultura all’ombra delle Istituzioni e la comicità reazionaria della cultura di internet.

di Giovanni Padua


Niente di nuovo sotto il sole. Al punto che anche il cielo e il sole sembrano di cartapesta. Dei sogni anarcoidi di Tim Berners-Lee l’Italia non sapeva che farsene. Quando però l’occhio dei Dinosauri del tubo catodico si è reso conto che il meteorite stava per arrivare, internet è diventato la terra promessa per la strategia escapista dei gattopardi di sempre. Eppure, le forme di recupero – in senso situazionista – attuate sul mondo dei dati hanno un precedente nella dialettica tra servizio pubblico e TV privata. Penso a Blob e a certi contenuti di Striscia la Notizia, Paperissima ma anche a Report e Le Iene. È mai possibile che il medium rimanga sempre conservatore? È destino che ogni détournement venga recuperato e irreggimentato e che ciò debba avvenire quasi sempre mediante la televisione? Con internet sembrava esserci un posto sicuro ma se esso fosse solo l’ennesimo Gabibbo? Se internet fosse semplicemente un gabibbo guidato da milioni di Antonio Ricci? Per fare chiarezza in questi ragionamenti è inevitabile evocare un testimone delle varie facce del presente: Alberto Piccinini. Da Il Manifesto a Rolling Stone, dalle trasmissioni radiofoniche agli articoli anti-Brera sul calcio, in qualità di cacciatore di tendenze, Alberto Piccini è l’uomo giusto a cui affidarsi per surfare sullo specchio increspato dei mass media italiani.

 

Hai lavorato a Blob. Nel format ho sempre visto una sorta di negromanzia mediatica: il montaggio divora le immagini televisive e le risputa fuori sovvertendone il significato o mostrandone l’essenza. Come accadde allo Zombie di Romero, c’è il rischio che Blob si trasformi da simbolo della critica del sistema mediatico a icona di un certo modo istituzionale di fare televisione? O ciò è già accaduto? 

 
Blob nasce alla fine degli anni ’80 e dentro il progetto di Raitre, che è una televisione fortemente “televisiva” per quanto la cosa adesso sembri paradossale, cioè non pedagogica né educativa né culturale. Blob racconta la televisione attraverso la televisione, dicevamo all’epoca. Usa il montaggio, cioè uno sguardo che veniva dall’ultima generazione di cinefili, ma soprattutto lo smontaggio. Sposa tutte le estetiche trash, camp, da b-movie che in quel periodo si affacciavano alla ribalta. In questo senso è complice della barbarie televisiva italiana: la trasformazione della politica in talk show, della vita in tv del dolore, leghisti e berlusconi.
 

Perché il programma ha avuto la capacità di sopravvivere così a lungo ai margini del mainstream di Stato? E qual è lo spettatore ideale con cui viene costruita una puntata di Blob? 

 
Perché a un certo punto arriva l’invidiabile condizione in cui è più controproducente chiuderti che lasciarti stare lì dove sei. Blob non costa niente, fa ascolto in una fascia impossibile (il primo quarto d’ora del tg1/tg5), gode ancora del privilegio accordatole di poter usare tutte le immagini del mondo senza chiedere il permesso a nessuno. In un mercato tv in cui tutte le immagini si pagano caro, Blob lavora ancora come negli anni ’90, come agli inizi della Rete.  Per cui il suo spettatore ideale è lo spettatore degli anni ’90, ahimè. Abbiamo un’età media piuttosto alta, è inevitabile, quasi necessario per ricordare quali sono le regole del gioco.  
 

La bellezza strategica di Blob è secondo me nella sua semplicità. Usare il montaggio su materiale già visto (dunque morto) ha anticipato la struttura semiotica del meme e lo spirito della cultura di internet, che come Blob sembra a tutti gli effetti un masticatore iconofago. L’illegittima discendente di Blob è la cosiddetta poop, penso a figure esoteriche come Nocoldiz. La differenza è però sostanziale: in Blob, l’accostamento di immagini e significati, ha una funzione satirica e dunque caustica: in breve, politica. Nelle poop gli obiettivi sono invece il no sense e il sentimento di spaesamento. In questo caso i sentieri sembrano essersi biforcati. Guardandoti intorno: siamo mai usciti dagli anni ’80-’90? C’è mai davvero stata un’occasione per ‘rompere’ il discorso istituzionale in TV, discorso che oggi si serve senza problemi della cultura di internet? Ciò sarebbe auspicabile oppure si tratta di semplici ‘pruriti intellettuali’? 

 
Vorrei rispondere con Gil Scott Heron: the revolution will not be televised. La rivoluzione non andrà in onda, perché il suo primo bersaglio dovrà essere la televisione. Tradotta ai giorni nostri: la rivoluzione non la leggerai su Facebook, né su Instagram (per quanto i social, come la tv, hanno cambiato la società). Nel suo piccolo, Blob rivendicava per sé un’estetica punk/situazionista, si muoveva tra la satira, il camp, il caos (a seconda delle idiosincrasie dei suoi molti autori) ma non poteva vivere fuori da un palinsesto e da una forma di attualità giornalistica, persino militante. Altri tempi. Il Blob di oggi è diverso, pesca ampiamente dalla rete, dai social, è meno situazionista e più “d’autore” (rispetto agli inizi ha un titolo e le firme degli autori per esempio). 
 

Parlando della scrittura, hai affermato che ogni articolo scritto, pazientemente cesellato o assemblato di getto, nasce già morto. Il giorno dopo è come se non fosse esistito. Quanto questa dialettica a tuo avviso ha separato il giornalista, anche quello culturale, dalle parole e dagli argomenti che scrive? Oppure scrivere di cultura può ‘salvare’ dal disamore per ciò che si scrive?

 
No ma non è disamore, è soltanto tener presente cosa stai facendo. Il giornalismo lavora sulle notizie e sull’attualità delle notizie. L’attualità di un quotidiano di carta finisce il giorno dell’uscita: per questo i vecchi giornalisti dicevano che il giorno dopo il giornale è buono solo per incartare per il pesce.  E’ solo un vecchio luogo comune. Un settimanale o un mensile hanno altri tempi, perché l’attualità spesso coincide con i tempi di lavorazione e di esposizione in edicola. Ma non esiste una notizia fuori dall’attualità. Né esiste scrittura giornalistica che non sia attuale. Poi ci si può chiedere cos’è l’attualità nelle edizioni online dei giornali o nei social, che sono attuali sempre perchè hanno un criterio aritmetico: più tweet, più post, più attualità.  
 

C’è mai stato un momento in cui hai pensato che la scrittura fosse una sorta di ‘missione’? Se così non fosse, cosa pensi di chi fa della retorica sul mestiere di scrivere?

 
Una missione mi pare troppo. Per qualcuno sarà così non ne dubito, di certo scrivere è qualcosa che coincide con la tua vita: non pensi ad altro, sempre. Quello che tutti noi da un po’ facciamo con i social, i giornalisti lo hanno sperimentato per primi su di loro, vivere per scrivere e viceversa. Non c’è retorica in questo: la scrittura giornalistica è un mestiere, ha delle regole, dei trucchi che qualcuno ti insegna. E’ una quantità (di battute, parole), un ingombro come si dice.  Lo stile ce lo metti tu, ma non è sempre così importante, e a volte neppure richiesto
 

Si fatica ancora a considerare la scrittura su internet come letteratura, salvo casi come quello di Alessandro Gori. Tornando al Giornalismo e alla Letteratura. L’articolo come opera di design, spesso puro esercizio di stile, ‘contro’ il romanzo, opera d’arte che nello stereotipo si nutre di tempi lunghi: quale delle due dimensioni è secondo te più velleitaria? Può nascere dai post su Facebook una forma di Letteratura? 

 
La dimensione di artigianato del giornalismo comprende il fatto che tu ci metti le forme ma i colori, la cornice, la tela esistono già. Storicamente i giornali sono il prodotto di un lavoro collettivo, la scrittura esiste dentro un patto tra i lettori e la testata, anche la scrittura più personale, quella delle “firme”. Da facebook può nascere letteratura penso di sì, ma non può nascere nessun giornale, neppure ri-nascere: facebook è il contrario del lavoro collettivo, twitter e instagram sono meccanismi di autopromozione personale: vale tutto, marchette e/o controinformazione, non c’è nessuna etica per quanto quella dei giornali sia stata spesso di facciata. 
 

Il decennio 68-78 in Italia ha partorito Paolo Liguori, cresciuto tra Gli Uccelli e poi diventato volto Mediaset, ha forgiato Carlo Freccero, una delle vittime dell’Editto Bulgaro e in tempi recentissimi tra gli ideatori di Povera Patria. C’è una sottile linea rossa che potrebbe collegare Umberto Eco a Maria De Filippi, la contestazione politica è alle spalle di personaggi come Mughini, Ferrara e Deleuze è diventato il nume tutelare della Silicon Valley e degli Yuppie che mangiano avocado in pausa dopo la sessione di mindfulness. Chi sono stati i tuoi ‘padrini’, chi ti ha ispirato? E, in riferimento al programma più citato in questa intervista, cosa dobbiamo aspettarci dall’eredità che sarà di Blob

 
Mah questa è difficile. Chi mi ha ispirato? Potrei dirti il punk, il situazionismo o magari il cyberpunk, perché quella era l’aria che tirava allora. E anche l’estetica trash, camp, la cinefilia anni ’80. Più che maestri ho avuto dei fratelli maggiori, coi quali mi è capitato di lavorare e dai quali ho imparato qualcosa: i critici della sezione cultura spettacoli al manifesto, la coppia ghezzi-giusti, i giornali musicali inglesi, roba così. Blob speriamo vada avanti per un po’ ancora, fintanto che il pubblico della tv è ancora vivo. 

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