Dittici rinascimentali a confronto

Influenze stilistiche nella moda bolognese

di Angela Zambarda


Una tenda in velluto verde si apre come un sipario su un paesaggio lontano, ambientato verosimilmente nella Bologna rinascimentale, e unisce un doppio ritratto: Giovanni II Bentivoglio e Ginevra Sforza. Se si osserva la moda sfoggiata dai coniugi Bentivoglio, il loro aspetto elegante e sfarzoso sembrerebbe rispecchiare un tempo all’infuori dell’ordinario. I loro abiti lussuosi non solo riflettono la “magnificentia” tipicamente quattrocentesca, che consisteva nella predilezione per tessuti operati, particolarmente pregiati e abbondanti di stoffa. Piuttosto, sembrano voler esibire la straordinarietà di un momento memorabile, che doveva essere fissato perpetuamente su questa doppia tavola.  

 

Ercole de’ Roberti, Dittico Bentivoglio (Giovanni II Bentivoglio e Ginevra Sforza), 1473-1474 ca., tempera su tavola, 54 x 38,1 cm e 53,7 x 38,7 cm, Washington, National Gallery of Art

 

Ancora non si può datare con certezza il dittico, ma alcuni indizi sulla moda, oltre che sul contesto storico, potrebbero rivelare il perché la coppia bentivolesca decise di commissionare un quadro tale a un pittore così degno di nota, come Ercole de Roberti. La moda di entrambi i soggetti ritratti si attiene ancora allo stile quattrocentesco. Stoffe  di pregio e operate erano prevalentemente scelte per confezionare ricchi abiti nobiliari, a loro volta impreziositi da gioielli sfavillanti.

Giovanni II Bentivoglio è abbigliato con una veste in velluto morello e broccato con un motivo a melagrane dorate. Il tessuto broccato è ottenuto a telaio seguendo un disegno, che si mostra in rilievo rispetto all’armatura del tessuto stesso, alternando zone chiare a zone scure. Se si considera che il velluto era già di per sé una stoffa operata e lussuosa, la decorazione a broccato avrebbe reso la veste ancor più preziosa.

Come spesso si riscontra nella moda altolocata dell’epoca, specialmente in occasioni importanti, il velluto poteva essere a sua volta arricchito da complesse lavorazioni a telaio, come in questo caso. Fra i motivi scelti per il broccato vi erano le melagrane, che nel Quattrocento alludevano a simbologie cristologiche, quali fertilità ed eternità, che consentivano di elevare lo status di chi le sfoggiava. Eppure, in questo doppio ritratto, le melagrane assumono un significato ulteriore: forse rimandano all’unione nuziale di Giovanni II con Ginevra. Sembrerebbe che le dimensioni cospicue del frutto, nella veste di Giovanni II, corrispondano proprio a quelle caratteristiche dei tessuti degli anni Ottanta del secolo, come documenta la studiosa Donata Devoti.

All’altezza del collo, l’abito di Giovanni II è profilato da una bordura di pelo bianco, con cui probabilmente è foderato al suo interno. Si tratta di un dettaglio che potrebbe far corrispondere la veste di Giovanni alla pellanda, una sopravveste lunga e foderata, che in parte nasconde la sottoveste, di cui è visibile solo il colletto a motivo damascato bianco su sfondo rosso cremisi. Il capo è poi coperto da un berretto porpora, da cui si nota la capigliatura a zazzera, secondo la tendenza dell’epoca. Questo taglio maschile era formato da una pettinatura dritta e lineare, per cui i capelli, come la frangia, erano disposti  alla stessa altezza.

La sua sposa Ginevra sfoggia una sopravveste (la pellanda) in velluto morello, dalle maniche aperte che lasciano intravedere quelle della sottoveste (la gamurra), color giallo antico e arricciate al gomito. La pellanda, oltre a essere spesso foderata con pelliccia perché indossata durante le stagioni fredde, si contraddistingueva per le maniche aperte, come si nota in quella di Ginevra, che spesso erano tagliate al fine di mostrare quelle sottostanti. L’orlo delle soprammaniche di Ginevra è poi tempestato da perle, da rubini e da diamanti (e forse anche da zaffiri). La stessa decorazione a gemme si ripete, poi, sul davanti, sulla passamaneria della pellanda e sul corpino della gamurra. Le perle sono riproposte anche sul profilo della cintura.

Colpisce come la forma delle gemme a “punta di diamante” sembri voler echeggiare lo stemma estense, qualora non si trattasse di un’impresa (come si ricorda per un ritratto di Borso d’Este, in cfr. A. De Marchi, Un geniale anacronistica, nel solco di Ercole, Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia, Serie III, Vol. 22, No. 4 (1992), p. 1060.). L’impresa poteva essere composta da lettere e/o da simboli, a volte uniti cripticamente, a significare qualcosa di ben preciso, come lo stemma, ma non solo. Fra l’altro, quel simbolo indossato da Ginevra si può ammirare anche sulle mura di Palazzo dei Diamanti, dove attualmente è ospitato il dittico bentivolesco, in occasione della mostra sulla pittura ferrarese rinascimentale: il palazzo prese il nome proprio dalla decorazione architettonica esterna a bugnato, come se fosse protetto da una “corazza” in punte di diamanti.

Tornando alla moda dei coniugi Bentivoglio, l’abbigliamento e il corredo di entrambi i soggetti portano a pensare, quindi, a uno stile altro, elegante e sfarzoso, che potrebbe essere compatibile con le nozze o, quanto meno, rimandare alle stesse. Tuttavia, considerando che il matrimonio dei Bentivoglio si data a dieci anni prima (1464) rispetto alla periodizzazione attuale del dipinto (1473-74), non si può associare la commissione del dittico a quell’evento. Potrebbero essere stati altri gli avvenimenti che portarono alla richiesta di un dittico per i Bentivoglio. Forse attraverso quel quadro, in qualità di primi cittadini, i coniugi avrebbero legittimato il loro progressivo dominio sul territorio mediante l’agire politico di Giovanni II. In effetti, la commissione del dittico potrebbe riflettere non solamente l’ascesa al potere di Giovanni II Bentivoglio, garantita in primis dal sodalizio dinastico con il ducato milanese, sposando una Sforza, ma anche la progressiva dominazione territoriale, che consolidò almeno fino agli anni Ottanta del secolo, prima dell’inarrestabile declino che favorì poi l’esilio dei Bentivoglio. Il broccato a melagrane, in questo senso, acquisisce maggior rilievo se indossato sulla veste di Giovanni II in un periodo di floridezza economica. Si comprende, poi, la duplice finestra sul paesaggio, che si scorge in lontananza: l’entroterra bolognese, contraddistinto dalle mura della città cadenzate da torrette, ma che mostra all’orizzonte anche le terre limitrofe. Quel paesaggio potrebbe, quindi, rappresentare simbolicamente il potere ottenuto fino a quel tempo dai Bentivoglio e, perché no, anche le mire espansionistiche di Giovanni II.

Similmente si può osservare in un altro dittico, dipinto poco tempo prima da Piero della Francesca, che il Roberti ebbe ben impresso nella mente quando realizzò il doppio quadro bentivolesco: il dittico urbinate, in cui Battista Sforza e Federico da Montefeltro sono ritratti di profilo alla maniera antica. E, allo stesso modo, sono avvolti da un paesaggio che mostra il territorio marchigiano, a quel tempo sotto il dominio dei Montefeltro.

 

Piero della Francesca, Doppio ritratto dei duchi di Urbino (Federico da Montefeltro e Battista Sforza), 1473-1475, olio su tavola, 47 x 33 cm (ciascuno), Firenze, Galleria degli Uffizi

 

Ma quel che più colpisce è la fedele ripresa, da parte del pittore ferrarese, di alcune notazioni stilistiche del dittico urbinate: primo fra tutti, il motivo decorativo a melagrane. Mentre nel dittico bentivolesco la decorazione interessa l’intera veste di Giovanni II, nel dittico urbinate quella stessa trama campeggia solamente sulle maniche di Battista, non mancando di grazia e di lussuosità. È come se il pittore ferrarese avesse volutamente inserito un simbolico rimando al ritratto urbinate. Chissà se si trattasse di una scelta ponderata, progettata con i Bentivoglio, al fine di alludere agli interessi politici e diplomatici dei coniugi, tenendo conto che Ginevra fu sorellastra di Battista Sforza. Non solo. Nel dittico del Roberti si osserva la stessa tipologia del ritratto all’antica, per cui le due figure ritratte si stagliano sullo sfondo di profilo, fino a tre quarti.

Volgendo l’interesse verso il look di Ginevra Sforza, se si presta attenzione, il suo abito sembrerebbe rispecchiare solo parzialmente lo stile milanese. Se effettivamente il dittico bentivolesco risalisse al matrimonio con Giovanni II, la nobildonna sforzesca avrebbe prediletto ancora fogge lombarde, dimostrando fedeltà alla sua casata. Dato che a quel tempo l’abito cerimoniale era scelto oculatamente prima dal padre, poi dal marito, la veste sponsale sarebbe stata un mezzo per rifletterne lo status. Invece, in questo dittico Ginevra sembra comportarsi diversamente: indossa una veste che risente già della moda bolognese, e in parte influenzata da altri stili.

Ci viene in aiuto un altro ritratto, di poco posteriore, che fu, molto probabilmente, commissionato poco prima del matrimonio di Bianca Maria Sforza con l’imperatore Massimiliano I. Per quel dipinto la giovane Bianca Maria posò con un abbigliamento ancora in stile milanese, che si attiene, quindi, a quello degli Sforza. Oltre al copricapo di derivazione lombarda, è tipicamente milanese la forma della sua veste, che si contraddistingue per il corpino dal taglio squadrato, unito alle maniche dai nastri serici, da cui sbuffa levitante la camicia. A sottolineare il suo aspetto nuziale è la predilezione per un tessuto pregiato con cui è confezionata la veste, ornata da preziosi gioielli. Le perle, i rubini e i diamanti sul profilo della veste di Bianca Maria, nonché sull’acconciatura, potrebbero far parte proprio della parure del matrimonio, oltre che rimandare a un ulteriore significato.

 

Giovanni Ambrogio de Predis (attr.), Bianca Maria Sforza, 1492-1493 ca., olio su tela, 73,8 x 54,1 cm, Washington, National Gallery of Art

 

Anche nel dittico di Piero della Francesca, sopra citato – come mostra in un video la storica dell’arte Silvia Malaguzzi -, Battista Sforza sfoggia alcune gioie che, oltre a nobilitare il suo aspetto esteriore, riflettono le sue virtù: perle, rubini, diamanti, zaffiri e smeraldi rimandano proprio alla nobiltà d’animo della defunta Sforza. Le perle riflettono la castità e la purezza; i rubini la carità; i diamanti la fede, mentre gli zaffiri l’umiltà e gli smeraldi la speranza. Fuorché quest’ultima virtù, le altre si possono poi ritrovare nei Trionfi dipinti sul retro del ritratto.

Chissà se quelle gemme appartenessero al corredo delle nobildonne Sforza, visto l’abbellimento smagliante di Ginevra Sforza con gioie simili.

Nell’apparire di Ginevra Sforza mancano, però, alcuni dettagli per poterla considerare una promessa sposa, come i motivi broccati sulla veste di Bianca Maria, fra cui il fiordaliso che si riferisce alle nozze. È pur vero che Ginevra avrebbe potuto preferire un abito sì lussuoso ma meno appariscente, quindi privo di decorazioni, se non fosse per le gemme. Tuttavia, un altro dettaglio, per nulla secondario, si rivela meno vistoso su Ginevra: la sua cintura in velluto cremisi, nonostante sia guarnita con perle, è ben più semplice rispetto alla ricca oreficeria di Bianca Maria.

Colpisce, poi, l’acconciatura di Ginevra, ben diversa da quella di Bianca Maria, poiché sembra risentire dell’influsso dello stile d’Oltralpe, anziché di quello milanese. Probabilmente Ginevra assimilò nel suo modo di vestire alcuni elementi della moda locale, bolognese, arricchitasi di costumi di altri popoli, come per il copricapo. Quest’ultimo è formato da un turbante (la faldetta) avvolto attorno allo chignon ed è coperto da un velo che mostra i capelli biondi; un’ulteriore nota nordica, che ricorda l’usanza delle Veneziane di imbiondire i capelli, quale rimando alle loro origini.

La pennellata fine, che definisce singolarmente le ciocche con un tratto molto lineare, asseconda la maniera disegnativa di Ercole de Roberti, quale sigla distintiva del pittore, riconosciuta per la prima volta nel 1934 da Roberto Longhi nell’Officina ferrarese.

Sempre Longhi attribuì a un suo allievo, Lorenzo Costa (seppur oggi sia ancora controverso), un altro dittico, che può essere preso in considerazione per confrontare la moda. Ancora non è nota l’identità precisa dei due soggetti ritratti, che appartengono alla famiglia Gozzadini per via dello stemma, appeso sulle mura del palazzo in entrambi i ritratti. Ma quel che colpisce, di primo acchito, è lo sfondo che acquista maggiore spazio rispetto al dittico Bentivoglio. Forse perché l’intento principale del pittore dei Gozzadini era quello di voler dimostrare la sua bravura disegnativa, dipingendo con una minuziosità, quasi calligrafica, anche i dettagli poco percettibili, alla maniera fiamminga.

Se fosse realmente Lorenzo Costa il pittore del dittico, parrebbe quasi voler sfidare il suo maestro Ercole, dando prova della sua abilità nei dettagli dipinti. Non solo. Gli animali e le figure in secondo piano, abbigliate secondo la moda rinascimentale, sembrerebbero cripticamente legati, come in un “rebus”, alla coppia ritratta in primo piano. Ad accrescere il mistero attorno al dittico è l’epigrafe che corre lungo il cornicione del palazzo, che è indagato con una particolare attenzione prospettica, forse di matrice robertiana. Come nel precedente dittico urbinate, in quello Gozzadini potrebbero esserci personificazioni e dettagli criptici, che compaiono in modo un po’ “velato” sul davanti, mentre come figure allegoriche sul retro.

 

Antonio da Crevalcore o Lorenzo Costa (attr.), Dittico Gozzadini, 1494 ca., tempera su tavola, 49,2 x 35,6 cm e 50,2 x 37,1 cm, New York, Metropolitan Museum, raccolta R. Lehman

 

I due coniugi Gozzadini sono ripresi di profilo sul modello del Roberti, se non fosse per la decorazione a melagrane dell’abito che qui non attraversa l’intera veste dello sposo, bensì solo le maniche della sposa Gozzadini, come Battista Sforza nel dittico urbinate. Si può notare il motivo broccato simile a quello sul velluto di Giovanni II: le melagrane sono contornate da elementi vegetali e avviluppate in tralci fioriti, seguendo un andamento verticale, detto “a griccia”.

La veste della sposa è ben diversa da quella di Ginevra Sforza: una gamurra in raso celestino è formata da un corpino ampiamente scollato, ma velato da una camiciola. Quest’ultima è profilata da una sottile bordura, che fa pendant al collier nero alla base del collo della dama. Anche l’acconciatura della sposa Gozzadini è peculiare: i capelli biondi sono raccolti in uno chignon trattenuto da strisce di stoffa serica. Quest’ultima, assieme all’ampio scollo del corpino, ricordano lo stile veneziano, da cui la moda bolognese potrebbe aver derivato alcuni elementi, qualora non si trattasse di una consorte veneziana la dama ritratta. Forse il paesaggio retrostante vuole alludere a possibili contatti dei Gozzadini con Venezia.

La vita della dama è, poi, stretta da una preziosa cintura, quale rimando alla cinta sponsale, che sembra un’opera di oreficeria al pari di quella di Bianca Maria Sforza. Questa nota di stile potrebbe portare a ritenere che il dittico fu commissionato proprio in occasione del matrimonio, se non poco prima. Tale ipotesi trova maggior conforto se si osservano gli attributi a corredo degli effigiati, oltre alle figure allegoriche sullo sfondo. Entrambi i soggetti reggono fra le mani un oggetto: lei un frutto, mentre lui tre fiori, uno rosso, uno bianco e uno azzurro, che sembrerebbero alludere alla carità, alla castità e alla speranza; nei dittici finora analizzati erano invece personificati dalle gemme. È come se volessero suggellare una promessa duplice, di fedeltà e di prosperità.

Sullo sfondo, come nei dittici prima analizzati, il paesaggio in lontananza potrebbe alludere al dominio sul territorio circostante, favorito dal loro matrimonio.

Se si considera l’aspetto dei coniugi Gozzadini, oltre ai personaggi di contorno, il dittico appare più criptico rispetto agli altri, primo fra tutti quello dei Bentivoglio. In effetti, il dittico Gozzadini si dimostra debitore non solo per la composizione del quadro, ma anche per alcuni dettagli stilistici. Sia il dittico Gozzadini sia il dittico Bentivoglio si rifanno ad alcuni modelli al tempo noti, proponendo variazioni del tema, attraverso piccoli accorgimenti e inserimenti puntuali, che tengono conto di esigenze diverse, a seconda dell’intento dei committenti. Entrambi i dittici rivelano dettagli di stile rispetto alla moda, che possono aiutare a inquadrare gli effigiati in un periodo storico, oltre che alludere a determinati interessi, principalmente politici.

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