Liberare i corpi

Analisi della trilogia femminile di Pablo Larraìn: come si colloca Ema tra Jackie e Spencer.

di Alice Sagrati


Ema (2019) è l’ottavo lungometraggio di Pablo Larraìn, a metà di quella che possiamo chiamare “la trilogia femminile”, dopo Jackie (2016), ritratto della moglie di JF Kennedy, e prima di Spencer (2021), ritratto di Lady Diana.

Larraìn presenta al Festival del cinema di Venezia del 2019 un film frammentato e inaspettato, ma sicuramente il più sorprendente e sperimentale dei tre ritratti. Il racconto di una donna e non di un personaggio storico sembra essere il guizzo necessario per la ricerca di un linguaggio cinematografico meno tradizionale e più vicino alla sua sensibilità autoriale. Il film, ignorato dalla grande distribuzione, è un viaggio percettivo a luci intermittenti che sembra rompere le dighe del percorso già tracciato dall’autore.

Se Jackie e Spencer raccontano un intimo vagabondaggio introspettivo, nei quali il regista ricostruisce e immagina la sfera privata e umana di due simboli della storia del ‘900, in Ema il racconto diventa una narrazione fisica, il corpo si muove e si espone attraverso le sue inflessioni. Larraìn crea un meccanismo segmentato della narrazione, nel quale la percezione, attraverso musica, scenografia e luci, diventa il nuovo perno del racconto. 

Il film è un’esplosione di corpi in movimento che si sfiorano, si toccano, si incastrano in una narrazione esplorativa che racconta la crisi del matrimonio tra Ema, giovane ballerina, e Gàston, coreografo della compagnia di danza contemporanea nella quale lei balla. 

Il film ruota attorno al senso di colpa di Ema per aver abbandonato il figlio adottivo, Polo, che dopo vari episodi di ribellione violenta, ha bruciato parte del viso di sua zia. Larraìn decide di non sviluppare una storia lineare, ma la frammenta in piccoli episodi quasi scollegati, portando all’estremo l’idea di creare un “cinema anti-empatico”, nel quale lo spettatore deve fare i conti con personaggi scomodi e spesso irrazionali. Si allontana da una messa in scena rigorosa per seguire i movimenti della protagonista, che riesce ad ottenere ciò che vuole attraverso il suo magnetismo: “rappresenta il sole, tutto gira intorno a lei” disse Larraìn nella conferenza stampa del Festival del cinema di Venezia 2019 . L’autore suggerisce che la camera stessa non sfugge al fascino della protagonista e segue pedissequamente il suo corpo conduttore, incorniciato in un’estetica di colori saturi più simile al cinema di Gaspar Noé o agli ultimi film di Harmony Korine che ai lavori precedenti del regista stesso.

L’autore abbandona il racconto storico, dopo gli acclamati Tony Manero, Post Mortem e No- I giorni dell’arcobaleno che affrontavano nascita, sviluppo e caduta della dittatura di Pinochet, per immergersi nel Cile contemporaneo. Ema è il primo film di Larraìn a non avere un contesto storico-politico specifico e forse, proprio questo, libera il regista dalla costruzione di una narrazione canonica e lo fa sperimentare con il linguaggio cinematografico. Ema può sembrare, a una prima visione, un film sconclusionato in confronto ai precedenti, ma il punto forte è proprio l’esplorazione di corpi che si muovono liberi nell’inquadratura, non schiavi di una retorica o un’ideologia da portare avanti. Un flusso di percezioni sonore e visive, sottolineate da una colonna sonora firmata da Nicolas Jaar, una sorta di elettronica fusa a raggaeton sperimentale che rende fluido ogni stacco di montaggio, da scena a scena, da microstoria a microstoria.

Quest’opera racchiude un mondo sociale in una storia privata: la difficoltà dell’adozione e la conseguente corruzione, ma soprattutto la libertà sessuale, il poliamore e la distinzione tra un tipo di danza “alto”, la contemporanea, e “basso”, il reggaeton che balla Ema per le strade di Valparaiso. 

Larraìn lavora sull’idea di trauma delle sue protagoniste e fa muovere la narrazione intorno a questo innesco, muovendosi più per rimandi che seguendo una storia lineare. In Ema il trauma si origina nella scelta di rimandare all’orfanotrofio Polo; nello stesso modo in cui la morte del marito crea il dispositivo narrativo in Jackie, che si muove nei tre giorni successivi il brutale assassinio di JFK, in una nevrotica ossessione che la spinge a volerne creare un eredità quasi mitologica. Se pensiamo a Spencer troviamo una terza conferma: Larraìn decide di raccontare gli ultimi giorni di Diana trascorsi insieme alla famiglia reale prima della definitiva rottura. Tre storie di traumi incasellati in piccoli spazi di tempo, nei quali le protagoniste sono alla ricerca di un nuovo posto nel mondo poiché si sentono frustrate e rifiutate da quello da cui vengono. 

Sono tre ritratti che ricercano uno sguardo intimo nella profondità del trauma. Però, se Jackie e Spencer lo fanno con una messa in scena classica, in Ema il trauma si sostanzia nello sguardo della camera e nella frammentazione della storia. Qui Larraìn crea una sorta di cinema prismatico, che attraverso luci e colori diversi racconta micro esperienze che si muovono seguendo il corpo della sua protagonista. 

In tutto il film gli uomini hanno pochissime battute, Gàston è un personaggio catatonico, incolpa e incalza Ema, ma non sembra avere la capacità di azione. Anche il figlio adottivo Polo esiste solo attraverso le parole della madre più che essere un personaggio solido. Lei è la protagonista indiscussa insieme al suo gruppo di amiche e ballerine, che rappresenta una sorta di sorellanza ancestrale. Rendono il mondo maschile totalmente irrilevante perché la dimensione in cui si muovono è intrinsecamente femminile. Per Ema il corpo è il mezzo di comunicazione con il mondo e con gli altri, attraverso il sesso e la danza, che a volte si fondono, quasi facendoci dimenticare la differenza. Il suo è un corpo conduttore, è fuoco ardente, elemento ricorrente sullo schermo, come a esplicitare la capacità di pericolo e distruzione del personaggio, ma anche la sua potenza erotica.

Uno dei grandi temi del film è la maternità. Gàston non è in grado di dare un figlio ad Ema e questo porta all’adozione di Polo, ma la forza quasi esoterica di lei è come se riuscisse a fecondare un corpo sterile. La protagonista riuscirà a rimanere incinta e a riprendersi Polo.

Ema è calamità e frammentazione di identità, è contemporaneamente madre, prima adottiva e poi biologica, ma è anche ballerina ed è soprattutto potere sessuale. Come scrive A. Rodriguez nel suo studio sul rapporto tra corpo e spazio in Ema:

“La complessità di queste tre sfere intime, che peraltro costituiscono gran parte dei dibattiti femministi contemporanei (riproduzione, produttività, godimento), è difficile da dispiegare in spazi chiaramente sistemici o normativi (uffici, scuole, studi legali, ma anche gallerie d’arte), eterotopici (camere d’albergo, quartieri “convertiti” in piste da ballo, fiere) e domestici (ville di famiglia, ma anche appartamenti di lusso con grandi finestre sul porto).”

Ema cerca il suo spazio nel mondo, non solo metaforicamente, ma soprattutto a livello fisico e il mezzo per farlo è la danza. Per esempio per sedurre Raquel, l’ affidataria di Polo, non sceglie la parola come strumento, ma la vediamo ballare sul tavolo dello studio di avvocatura, dove Raquel lavora.

Sempre nell’analisi di Rodriguez vengono sottolineati due momenti specifici del film legati alla danza: l’esibizione iniziale della coreografia di Gàston e il momento in cui le ragazze ballano il reggaeton per le strade. La prima ha una messa in scena controllata, lo spazio è unico e le inquadrature sono centrifughe. La cosa più dissociante sono gli intermezzi che rompono le norme dello spazio cinematografico, per esempio la scena dell’ospedale nella quale vediamo la sorella di Ema sul lettino con il volto in parte tumefatto.

La seconda sequenza è quella più interessante a livello cinematografico, Larraìn è come se inserisse un videoclip all’interno della narrazione, spezzandola. La messa in scena è completamente ribaltata: non c’è una dominante cromatica, i movimenti della macchina da presa sono multipli e dinamici, come gli spazi nei quali si muovono le ballerine in una sorta di formazione da marcia militare, alludendo alla conquista delle strade di Valparaiso. Non c’è uno sguardo diegetico, lo spettatore è riconosciuto dallo sguardo in camera di Ema.

In questo film come in Jackie e Spencer, c’è un’attenzione particolare ai costumi e alla caratterizzazione estetica dei personaggi connessa all’identità.

Larraìn immagina Jackie camminare per le camere della Casa Bianca, provandosi diversi vestiti, come se sfogliasse un album di ricordi, con in sottofondo il disco preferito del marito. È proprio attraverso l’indumento che si afferma la propria identità sociale: in una scena vediamo Jackie insistere per vestire il defunto degnamente, al fine di mantenere un’immagine pubblica e una memoria storica adeguata. 

Natalie Portman in Jackie (2016)

In Spencer tutto ciò che è legato al corpo e alla performance pubblica è il malessere della protagonista che, non solo lotta con un disturbo alimentare profondo, ma anche con l’immagine di un’altra donna che sembra essere, naturalmente, più adatta al ruolo che lei sta ricoprendo. I vestiti, sempre o troppo stretti o troppo larghi, sembrano ricordare -costantemente- a Diana quanto la sua identità e la sua immagine siano coodipendenti.

Una delle scene più interessanti di Spencer è proprio legata al cappotto del padre che vediamo addosso a uno spaventapasseri vicino alla sua casa da nubile. Quel cappotto diventerà un’ossessione per lei, simbolo della sua vita precedente sicuramente più felice, ma soprattutto simbolo di un’infanzia in cui i vestiti potevano significare gioco e non performance. 

Kristen Stewart in Spencer (2021)

Se per Jackie e Spencer c’è un codice estetico preciso, anche in Ema ne troviamo uno simile: felpe acetate, piercing al naso e capelli tinti di biondo platino. Il salone di bellezza nel quale lavora part time è un luogo ricorrente di creazione d’identità. Nel momento in cui riesce a riprendere Polo, la prima cosa che fa è portarlo nel salone e fargli un taglio di capelli simile a Gàston, come a sottolineare la sua appartenenza sociale e affettiva. 

In Spencer e Jackie il trauma è esplorato ma non risolto, mentre in Ema c’è la costituzione di una nuova posizione sociale. Nel finale c’è la creazione di un nuovo nucleo familiare: Ema, Gàston e i genitori affidatari di Polo vivono tutti assieme, in una relazione poliamorosa architettata dalla protagonista. Ema, durante tutto il film, conquista sia il padre affidatario, non a caso un pompiere (ritorna l’elemento del fuoco), che la sua compagna, Raquel. 

Che sia egoismo o disperazione, Ema converge ogni personaggio al suo desiderio o alla sua ossessione.

Il regista ha già dichiarato che si cimenterà in un quarto e ultimo ritratto, quello di Maria Callas con Angelina Jolie come protagonista. La scelta di una star hollywoodiana conferma l’idea che l’autore si stia definitivamente spostando verso il mercato anglofono e che probabilmente continuerà il percorso cinematografico già iniziato con Jackie e Spencer.

Ema, quindi, ci sembra più un riuscito incidente emotivo, un ritorno al Cile e alla sua gente, un’emancipazione spirituale dal binario che Larraìn sembra essersi imposto, facendoci intuire che è stato un fortuito esperimento visivo e narrativo che non ripeterà più.

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