La fine della Storia nel cinema mainstream

Orizzonti tardo-capitalisti in Triangle of sadness e The Menu

di Irene Frau


 

Nel 2022 le sale di tutto il mondo hanno proiettato The Menu, diretto da Mark Mylod, e Triangle of Sadness di Ruben Östlund. Le due produzioni mettono in scena le brutture del tardo-capitalismo, nel tentativo di replicare alcune intuizioni presenti in lavori come Parasite (2018) e Joker (2019). Sia Mylod che Östlund scelgono di illanguidire le tensioni inesplose della lotta di classe, risultando grossolani, superficiali e ambigui, seppur differentemente.

In The menu la sceneggiatura oscilla forzatamente tra l’horror e la commedia. Julian Slowik, interpretato da Ralph Fiennes, è lo chef di un ristorante stellato in una piccola isola di proprietà di un imprenditore miliardario. Sull’isola si trova anche la villa in cui alloggia Slowik, ben lontano dall’austero casolare dove vive l’intero staff. Ogni membro della brigata è asservito allo chef e alla reputazione del ristorante, mentre Slowik è ossessionato dalla ricerca di purezza concettuale nella creazione del menu perfetto. Il suo delirio artistico prevede, come ultima portata, la morte a fuoco vivo degli stessi ospiti del ristorante, tutti ricchissimi. A tavola siedono star del cinema commerciale, critici gastronomici di punta e informatici, più esperti di evasione fiscale che di alta cucina. C’è anche il food lover, devoto allo chef e incapace di empatizzare in alcun modo con la sua invitata, Margot, interpretata da Anya Taylor-Joy. Lei è l’unica intrusa perché non proviene dall’élite corrotta, rappresentando un imprevisto che, secondo lo chef, potrebbe compromettere la riuscita del menu. Proprio perché di origini modeste, Margot riesce a immedesimarsi in Slowik e dimostra di essere l’unica abbastanza sveglia per trovare il modo di scappare dall’isola in cui si trova il ristorante.

Il film di Mylod è cadenzato dalla presentazione delle portate che compongono il menu. Ogni piatto è accompagnato dai lunghi monologhi dello chef, farciti di un anticapitalismo inconsistente e insapore, ma altamente provocatorio. A partire dai soliloqui di Slowik, l’alta cucina potrebbe essere interpretata come la grande metafora di un mondo dalle dinamiche pericolosamente competitive, dove si è convinti di fare arte quando si fa solo business e in cui la totale dedizione al lavoro è considerata come l’unica onorevole strada che può portare all’autodeterminazione.

Mark Mylod ha lavorato principalmente con prodotti televisivi acclamati dal grande pubblico come Game of Thrones, ma quando si tratta di fare cinema, lascia diverse questioni irrisolte. In The Menu sembra che, all’occorrenza, il linguaggio si faccia astutamente surreale, sorvolando su alcuni intrecci narrativi scricchiolanti e preferendo cercare la risata a denti stretti. Il taglio grottesco si avvicina, solo per assonanze, a lavori come Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante (1989) di Peter Greenaway, senza che le intenzioni parodistiche prendano forma, offuscate dalla patina di una regia priva di carattere.

The menu, nonostante il grande successo di pubblico, non ha ottenuto nessuna nomination agli Oscar 2023, mentre Triangle of sadness è stato candidato ai premi per miglior film, miglior regia e miglior sceneggiatura, ma senza portarne a casa neanche uno. Se oltreoceano non ha ottenuto riconoscimenti, Östlund si è aggiudicato per la seconda volta la Palma d’oro al Festival di Cannes, nonostante abbia mancato la promessa di restare fedele al ruolo di enfant prodige della Croisette. Ciò che una parte della critica rimprovera al regista svedese è di essersi progressivamente smarcato dal ruolo di cineasta d’autore, per avvicinarsi a soluzioni stilistiche sempre più edulcorate. In The square (2017), per molti l’opera spartiacque della sua carriera, ridimensiona il suo tratto cinico, molto più calcato nei primi lavori come Forza maggiore (2014). In Triangle of sadness se ne libera quasi del tutto, con una regia asciutta e un linguaggio pop sorretto da cliché quasi memetici.

Nel film di Östlund la narrazione si declina in tre capitoli. Il primo mette in scena un presente frivolo, impersonificato dall’influencer Yaya. La modella ribalta il gender gap, riconoscendo di godere di molti più privilegi sul lavoro rispetto al suo collega e partner Carl. Nel secondo capitolo, la coppia è su una lussuosa nave da crociera. I loro compagni di viaggio sono altre coppie facoltose che hanno fatto i soldi sporcandosi le mani, più o meno letteralmente. A bordo si incontrano stratificazioni di ruoli sociali, distribuite lungo tutti i ponti della nave. Östlund colloca un’intera squadra di addetti alle pulizie, tutti di origine asiatica, negli anfratti nascosti dei piani bassi, che sbucano fuori solo quando i ricchi sono chiusi nelle loro cabine esclusive. Al contrario, il personale di pelle bianca e di bell’aspetto vive alla luce del sole, ma è costretto a sottostare ad ogni capriccio folle degli ospiti miliardari.

Il capitano della nave è un ubriacone, americano e comunista, interpretato da Woody Harrelson, protagonista di una delle sequenze cardine del film. Siamo nel pieno di una tempesta in mare aperto e sembra che tutti gli ospiti della crociera ne stiano gravemente risentendo. Con una serie di inquadrature alla Shining, un mare di vomito ed escrementi investe le scalinate della nave. Intanto, il capitano si abbandona alle chiacchiere e all’alcol in compagnia di un imprenditore capitalista russo, entrambi indifferenti alla catastrofe in corso. I due danno inizio ad un duello, smartphone alla mano, a difesa delle istanze del comunismo e, di contro, quelle del capitalismo. Chiusi nella cabina di comando, il capitano e il russo continuano a bere e sparare sentenze, fino a quando l’americano si impossessa definitivamente del microfono e tiene un comizio sui crimini commessi dagli USA e dal Regno Unito, accusati di essere i principali colpevoli dei disastri compiuti in nome del neoliberismo.

Il terzo capitolo è ambientato su un’isola sperduta, il teatro in cui si inscena la tesi marxista per la quale il potere è in mano di chi controlla i mezzi di produzione. I naufraghi della nave da crociera si trovano a dover fare i conti con la loro completa inettitudine alla sopravvivenza e a qualsiasi tipo di lavoro manuale. Tutti tranne chi, fuori dall’isola, è costretto ad arrabattarsi ogni giorno per campare. Anche qui, quasi come in The menu, sembra che si voglia riconoscere ai poveracci di essere molto più svegli dei ricchi e, pertanto, meritevoli di salvarsi la pelle.

Arrivati a questo punto del film, Östlund perde definitivamente l’occasione per dialogare con opere come Il fascino discreto della borghesia (1972) di Luis Buñuel o La grande abbuffata (1973) di Marco Ferreri. Non si dimostra capace, non tanto perché Östlund sceglie di tradurre il suo linguaggio d’autore in quello del cinema commerciale. L’errore commesso da Östlund sta a monte ed è più concettuale che stilistico. Per tutti e tre i capitoli, in Triangle of sadness assistiamo ad un ribaltamento. Nel primo capitolo, è l’uomo di una coppia etero a rivendicare la parità di genere, nel pieno di un’interminabile crisi isterica. Nel secondo, un socialista americano e un capitalista russo sono in perfetta sintonia, andando contro le più comuni aspettative. Nel terzo, sono i rapporti di potere tra le classi sociali ad essere rovesciati, ma nel suo complesso è Triangle of sadness ad essere oggetto di un ribaltamento. Östlund punta il dito sulle falle del sistema e si ostina a descrivere senza pietà le profonde ingiustizie su cui si erige. Ci fa detestare le classi agiate, descrivendo minuziosamente la loro mancanza di intelligenza, di empatia e di meriti, per poi arrivare a dimostrare che, dopo tutto, aveva ragione Margaret Thatcher: “There is no alternative”, perché il capitalismo è il migliore dei sistemi possibili.

Non c’è coerenza tra la narrazione esacerbata, quasi da revenge movie, e la soluzione offerta da un finale aperto, come se non si volesse assolutamente rischiare di prendere posizione. Sembra che Östlund non abbia resistito alla tentazione di stereotipare un immaginario di plastica, mutuato dai social media e i suoi content creator, ma senza prenderne mai il giusto distacco per guardarlo dall’alto. Sentendosi stretto nel vecchio ruolo di cineasta, Östlund guarda al grande pubblico e resta quasi allo stesso livello di chi scimmiotta.

Se Triangle of sadness si allontana di molto dalle opere di Buñuel e di Ferreri è perché esiste una sostanziale differenza fra il cinema d’autore e il cinema commerciale. Si tratta di un divario che può essere raccontato anche solo attraverso i numeri, da quelli del botteghino ai costi di produzione. Sia The menu che Triangle of sadness hanno registrato in pochi mesi incassi milionari, arrivando ad un pubblico ampissimo che comprende anche chi non ha mai sentito parlare di lotta di classe o di relazione tra mezzi di produzione e potere. Non è andata allo stesso modo per La grande abbuffata e Il fascino discreto della borghesia. Il cinema d’autore e Marx non sono per tutti, ma qualcosa è cambiato nell’era della fine della storia, da quando le ideologie novecentesche sono state dichiarate ufficialmente abbattute insieme al muro di Berlino. Se è Woody Harrelson, nei panni di un americano socialista, ad accusare il neoliberismo delle peggiori atrocità, allora è più probabile che la pagina Wikipedia sul Das Kapital ottenga qualche visualizzazione in più. Il paradosso di fondo sarebbe proprio questo: un film come The menu, distribuito da una multinazionale, tenta di spiegarci perché il capitalismo è marcio, mentre un film candidato a tre premi Oscar ci presenta un bignami su Marx in tre capitoli. Sembrano molto lontani i tempi del maccartismo e più vicini quelli caotici dell’alto medioevo, dove le rappresentazioni del mondo erano tutt’altro che univoche e il linguaggio si faceva sempre più ambiguo e confuso, per prepararsi ad una nuova riorganizzazione del significato.

Due grandi produzioni hanno coinvolto star hollywoodiane per porre l’attenzione sul mare di ipocrisia in cui galleggiamo con indifferenza. Entrambi i film, possono essere ricondotti ad una sorta di nuova tendenza nel cinema commerciale, sempre più incline a mostrare interpretazioni grottesche del nostro presente al grande pubblico. Si potrebbe pensare che Karl Marx aveva ragione: il sistema capitalista è destinato ad implodere, perché sarà esso stesso a produrre le condizioni storiche per la sua fine. La rivoluzione, secondo Marx, accadrà necessariamente e forse, come sosteneva Walter Benjamin, sarà il cinema ad agevolare il processo, risvegliando nelle menti delle persone un certo tipo di consapevolezza, che ancora qualcuno osa chiamare coscienza di classe.

Walter Benjamin, nel suo lavoro più noto, intitolato L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), scava a fondo sull’avvento della fotografia e del cinema e su come abbia ridefinito ciò che si considera arte. In particolare, il cinema non solo è riproducibile, ma è per sua costituzione un prodotto rivolto alla massa. Il cinema è anche un mezzo potentissimo di distrazione, capace di lasciare che degli estranei stiano seduti al buio, nella stessa stanza, incollati per ore ad uno schermo. Benjamin considera la fruizione immersiva dell’opera filmica come un varco in cui è possibile condizionare lo spettatore, esattamente come teorizzavano Ejzenštejn e i cineasti del cinema russo d’avanguardia. Sintetizzando allo stremo il pensiero benjaminiano, i film sono in grado di shockare lo spettatore, innervando emozioni e innescando riflessioni, proprio per via del loro essere ipnotici e fantasmagorici. Chi fa cinema ha il compito di indirizzare le coscienze alla necessità di sovvertire il sistema e di dare inizio alla rivoluzione. Eppure, uno strumento, o un mezzo attraverso cui ci si esprime, cinema compreso, non ha neutralità, perché è determinato dai valori dell’epoca in cui è stato prodotto. Perciò, senza l’ascesa dell’industrializzazione e del capitalismo, forse il cinema non sarebbe mai stato inventato.

Com’è noto, Mark Fisher, in Realismo capitalista (2009), sin dai primi paragrafi fa un larghissimo uso di riferimenti cinematografici proprio perché è il cinema, specialmente quello mainstream, pop e vicino al mondo dell’Academy, a lasciare tracce evidenti del significato attribuito collettivamente al reale. Probabilmente, se oggi potessimo leggere gli aggiornamenti del suo blog, in cui si firmava sotto lo pseudonimo di k-punk, Fisher avrebbe preso in analisi film molto popolari come The menu e Triangle of sadness, così come Don’t Look Up o il pluripremiato agli Oscar Parasite. A partire da questi film, avrebbe potuto proseguire le sue indagini sulle logiche culturali del tardo-capitalismo e come impediscano di pensare ad un sistema alternativo, divorando tutto ciò che incontrano, comprese le micce, apparentemente rivoluzionare, nella sua inesorabile corsa verso il progresso. Parafrasando Fisher, una cultura che si limita a preservarsi, non può produrre niente di nuovo: il futuro non può accadere nell’era della fine della storia.

Secondo Benjamin, il cinema ha il potere di attenuare l’irruenza del presente continuo, frenetico e senza dio, in cui siamo immersi. Nelle opere filmiche, le rappresentazioni del reale sono come pensieri digeriti da altri, capaci di attenuare le nevrosi di chi abita un mondo dove si corre la maratona, restando fermi sul posto. Un mondo alla fine della storia in cui parlare di ingiustizia sociale, disparità di genere e cambiamenti climatici è sicuramente una tendenza. Il cinema non è immune agli ultimi trend topic del momento e restituisce sul grande schermo ciò che la gente vuole sentirsi dire, ovvero ciò che sa già.

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