L’età inquieta

In copertina: Set del film Kids di Larry Clark, 1995.

L’infanzia negata in Gummo e Ratcatcher

di Alice Sagrati


 

Nel 1997 esce Gummo di Harmony Korine, una delle opere prime più inquietanti e disturbanti del decennio. Un’ora e mezza di montaggio schizofrenico di catastrofe e noia: ragazzini che cacciano gatti, sniffano colla e pagano una ragazza con la sindrome di Down per scopare. Personaggi inquieti, violenti, razzisti che si muovono come pedine impazzite in una città, Xenia, devastata da un tornado e mai ricostruita.

Due anni dopo, in Inghilterra, esce l’opera prima di Lynne Ramsay, Ratcatcher, che riprende il tema dell’infanzia e della giovinezza e lo sposta nella periferia di Glasgow, tra trappole per topi, fiumi di scarico e tempi vuoti. Un bambino di dodici anni, James, vive alla giornata tra un padre alcolista, una madre disperata e una relazione disfunzionale con una ragazzina più grande di lui.

È possibile individuare un filo conduttore tra queste due opere, nonostante autori e luoghi di gestazioni completamente diversi tra loro. La tematica centrale dei due film è un eterno vagabondaggio dei personaggi, senza un obiettivo e senza un motore di cambiamento, in un tempo dilatato e inquieto come quello della preadolescenza.

Ragazzi che non hanno un modello genitoriale, un’educazione sentimentale o una traiettoria, fanno scoperta dell’altro attraverso le strade in cui vivono e attraverso la violenza che vedono o perpetuano, in una sorta di coazione a ripetere che non sembra possibile spezzare.

I due film si muovono tra riprese in stile neorealista e riprese documentarie. Non c’è una linea narrativa precisa, gli eventi che si susseguono sembrano essere più casuali e contingenti che scritti in una classica sceneggiatura in tre atti. Soprattutto si muovono fuori dal mercato delle major, essendo tutti e due film indipendenti, sia a livello di budget, molto limitato, sia a livello di ricerca artistica, estremamente personale e intima.

Harmony Korine cresce in una comune in California, dove si affeziona al cinema di Buster Keaton e di Werner Herzog. Appena diciottenne si trasferisce a New York, dove un pomeriggio, facendo skate con amici, incontra Larry Clark, noto fotografo underground. I due lavoreranno insieme a Kids, cult del cinema indipendente degli anni ‘90: sesso non protetto con ragazzine vergini, droghe e skateboard danzano in un racconto cruento e inaspettato che squarcia il velo di Maya della narrazione postclassica per restituirci un’esperienza più simile possibile alla vita reale.

In un’epoca in cui il cinema indipendente si stava sempre più fondendo con l’industria Hollywoodiana, da qui il termine “Indiewood”, Clark e Korine fanno una scelta radicale. In Kids non c’è una trama, ma solo episodi sconnessi e personaggi che vanno a zonzo nella scena, ricordandoci che oltre la camera c’è un mondo che va avanti senza essere in grado di fermarsi. Un evidente precursore di Gummo e del vagabondaggio dei personaggi di Korine.

Negli stessi anni, a più di seimila chilometri di distanza, a Copenaghen, viene stilato il noto DOGMA 95, a cura di Lars Von Trier e Thomas Vinterberg, un manifesto d’avanguardia che vuole un cinema minimalista: niente luci o scenografie, macchina a mano, senza accredito del regista. L’obiettivo è proprio chiarire la differenza, sempre più impercettibile, tra autorialità e blockbuster, tra industria e indipendenza, in un periodo storico in cui usciranno film come Fight Club, American Beauty e The Truman Show. Sia Harmony Korine che Lynne Ramsey si avvicinano a DOGMA 95, inglobando la sua urgenza artistica, che risulta evidente in entrambe le visioni.

Gummo, titolo omaggio al quarto dei Fratelli Marx, si presenta allo spettatore con una serie di immagini di persone, montate insieme velocemente, con un voice over che racconta la devastazione di un tornado a Xenia, in Ohio. Subito dopo vediamo un ragazzino che indossa un paio di pantaloncini corti e delle orecchie da coniglio, mentre orina e sputa sulle strade di provincia. Non è il protagonista, ma Bunny boy, un personaggio che apparirà in pochissime sequenze. Korine disattende subito le aspettative dello spettatore, creando uno spaesamento invece che un’immersione.

Nello stesso modo Ratcatcher si apre con un bambino, Ryan, che sta giocando con una tenda della finestra, la regista ci presenta anche sua madre e la sua casa, facendoci credere che sarà lui il protagonista di questa storia. Invece nel giro di dieci minuti, anche Ramsey disorienta lo spettatore, facendo morire Ryan per mano di un altro bambino, James, che si scoprirà essere il vero protagonista di questo film. Entrambi gli autori non pensano a un establishing shot per farci immergere nell’ambientazione, ma ci buttano in una narrazione instabile che non sappiamo gestire.

Gummo non si serve di una vera storia, non ci sono dei protagonisti, ma solo una serie di personaggi che appaiono e scompaiono negando allo spettatore di poter conoscere i loro background e la loro coerenza nel muoversi nel mondo. Sicuramente Solomon e Tummler, due ragazzini che girano in bicicletta e uccidono gatti per comprarsi la colla, sono quelli che vediamo di più sullo schermo e il loro vagare diventa l’emblema stesso del film. Il resto è un puzzle di micro storie tragiche, a partire dal tornado che sembra rappresentare un punto di non ritorno per la comunità, come a sottolineare che il male sia ovunque in quelle strade.

Korine sceglie immagini così reali, macchina a mano spesso tremante e con grana non pulita, da sembrare surreali. Non ricerca unità di tempo e spazio e non disciplina le azioni sconclusionate dei suoi personaggi, dei quali l’unico motore sembra una sorta di inerzia pervasiva. Nel film spesso crea anche una sorta di scollamento tra ciò che si vede e ciò che si sente, una sorta di enigma sadico che si unisce non solo al gusto neorealista, ma anche alla video arte e all’impro style Godardiano.

Il tema centrale che sembra emergere è la negazione di un’infanzia e di un’adolescenza, che vengono sostituiti da una violenza totalizzante e innecessaria. D’altro canto anche in Ratcatcher la violenza sembra essere ovunque. James finisce per ammazzare il suo amichetto mentre sta giocando nel fiume di melma sotto casa. Lo spettatore è spiazzato: Ramsey non dà neanche il tempo di accorgersi che le risate tra i due bambini si trasformino in un annegamento. La regista vuole sottolineare la negazione dello spazio del gioco. Le figure genitoriali in Ratcatcher esistono ma sono completamente assenti: il padre di James passa gran parte del suo tempo al pub, la madre fa mentire la figlia agli assistenti sociali perché non ha i soldi per pagare l’affitto.

Se in Gummo il motore dei personaggi è alimentato da nichilismo e violenza attiva, vediamo due skinhead picchiarsi in cucina per gioco oppure altri ragazzi distruggere una sedia per esprimere il proprio machismo; in Ratcatcher la violenza è passiva e il fil rouge è la delusione di James che vorrebbe scappare da quel luogo, aspettando una nuova casa dove andare a vivere con la sua famiglia.

In Gummo la figura genitoriale come guida è quasi totalmente assente, intravediamo la madre di Salomon in un paio di scene, ma anche nella sequenza della vasca, nella quale gli ha cucinato un piatto di spaghetti, l’unica cosa che notiamo è lo sporco e il disagio del luogo dove lo fa vivere.

Xenia sembra un villaggio surreale in cui sono racchiusi freaks emarginati, in quello che è stato definito “un ritratto psicogeografico di una concentrazione collettiva che viene continuamente interrotta dall’incapacità di riunire i frammenti e le impressioni in un insieme coeso”. Korine declina l’idea del mito dell’infanzia americana, non mettendo al centro della narrazione né l’archetipo dell’eroe vogleriano né l’altrettanto abusato antieroe, ma singoli personaggi frammentati. Figure che rifiutano il percorso adolescenziale, fatto canonicamente di tre fasi: la separazione dal nucleo, il transito attraverso alcune prove da affrontare e la reintegrazione con una diversa collocazione sociale. Korine decide di negare un percorso classico e dilata il tempo dell’adolescenza.

In qualche modo sembra riecheggiare un film di cinquant’anni prima, Germania anno zero. Roberto Rossellini fa andare a zonzo un bambino di dodici anni, Edmund, in una Berlino devastata dalla guerra. Il protagonista senza madre e con un padre malato a cui badare, cammina perso per le strade in cerca di una figura genitoriale che possa accudirlo, ma il suo cammino si incrocia solo con un suo ex maestro nazista e probabilmente pedofilo.

La vita di Edmund che sembra seguire, come in Gummo, e in un certo senso in Ratcatcher, una traiettoria totalmente casuale, di scoperta orrorifica del mondo, finisce per ammazzare il padre e ammazzarsi lui. Se però in Germania anno zero lo spazio dell’infanzia sembra essere negato a causa della guerra devastante appena finita, in Gummo e Ratcatcher la negazione è dovuta alla condizione socio-economica di estrema povertà nella quale i personaggi si muovono. Non c’è la figura genitoriale, ma non c’è neanche la scuola, come istituzione e luogo di aggregazione, e nessun tipo di educazione sentimentale.

In Gummo l’unica scena che ricorda un’adolescenza canonica è un bacio tra Tummler e una ragazza in un parcheggio, ma mentre le tocca il seno, si rendono conto che ha un nodulo maligno. In Ratcatcher il protagonista si affeziona a una ragazza, Margaret Anne, bullizzata e abusata dal gruppo di ragazzi che gira nella zona di James. Il loro rapporto intenerisce lo spettatore: in una scena lei gli chiede se lo ama, prima di andare a dormire insieme, ma il rapporto sembra più quello tra due fratelli o amici che tra due innamorati.

Il tempo in entrambi i film sembra scorrere lentissimo, lunghi tempi vuoti che possono essere spazi solo dell’infanzia o dell’adolescenza, nei quali scoprire il mondo e l’altro. Un film recente che ha raccontato il tempo decostruito della giovinezza è Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson. I due protagonisti si muovono in una Los Angeles mitologica, nella quale il futuro è tutto da scrivere, nel giro di due ore cambiano lavori, amicizie e idee. Nessun obiettivo preciso se non muoversi nella vita per scoprire tutto quello che ha da offrire.

Alana, la protagonista, non si sa nemmeno bene che età abbia, facendoci intuire che la vita è tutta da fare e disfare nel tempo dilatato della scoperta. Anderson ci fa essere nostalgici di questa percezione del tempo, restituendoci un’immagine romantica e illusoria propria del ricordo. Il regista, infatti, dirige Licorice Pizza sulla soglia dei cinquant’anni, un’opera matura che cammina sui cocci dei ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza come mito perduto.

Korine e Ramsey girano i rispettivi film da giovanissimi, entrambe opere prime, ed è forse proprio per questo che il loro ricordo dell’adolescenza o dell’infanzia non è ancora offuscato, anzi. Nel finale di Ratcatcher ritroviamo la disperazione del bambino di Germania anno zero, il senso di colpa per la morte di un altro e il pensiero che non ci sia via di fuga dalla propria condizione portano James a cercare la morte. Lo stesso fiume da cui James inizialmente si salva e lascia annegare Ryan, diventa il fiume dove lui sceglie di morire, lasciandosi andare nella melma di scarico.

L’ultima scena, un po’ melensa, invece, ci proietta in un sogno: James che trasloca con la famiglia in una casa nuova, bella, luminosa, lontana dal caos e lo schifo del suo quartiere, in mezzo a un campo di grano. James sorride in camera e guarda lo spettatore, ci impietosisce e ci allontana dallo sguardo realista dell’intero film.

Gummo, invece, rimane coerente anche nel suo finale, non c’è una risoluzione o una chiusura del cerchio narrativo, come se il film fosse un flusso che è iniziato prima dell’inizio e continuerà dopo la fine. A noi è permesso di sbirciare storie qua e là, perché, come dice Korine stesso: “non sopporto gli intrecci, perché non mi pare che la vita ne abbia. Un inizio, una parte intermedia o una fine non esistono e mi da fastidio quando le cose sono ordinate così perfettamente”.

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