L’arte di far soldi

Il Qatar: da piccolo emirato a pescecane del mercato artistico

di Francesca Giannoni


 

Nel 2007 a Londra, Sotheby’s batteva un’opera di Damien Hirst, un muro di pillole e varie capsule farmaceutiche colorate, per 19,2 milioni di dollari. Con Lullaby Spring, Hirst diveniva l’artista europeo vivente più pagato al mondo. 

Intorno agli anni ’40 il Qatar scopriva i suoi immensi giacimenti petroliferi: vennero messe da parte le più tradizionali attività agricole e di pesca per dare spazio alle industrie petrolchimiche e siderurgiche. Nell’arco di cinquant’anni, il PIL passa da 8 a 192 miliardi di dollari: quello che era un piccolo paese, quasi uno sconosciuto all’ombra dei vicini Emirati Arabi Uniti, diviene negli anni 2000 un colosso, il più grande esportatore al mondo di gas liquido, e uno dei più grandi investitori a livello globale.

È almeno dal 2009 che l’emiro Al-Thani lavora affinché il Qatar acquisisca un’immagine di paese seducente, culturalmente forte, al passo con le ultime tendenze della moda, in prima linea sul fronte del turismo culturale e, non ultimo, su quello sportivo. 
È infatti il 2009 l’anno in cui si apre la gara per l’assegnazione dei Mondiali di calcio per il 2022: la vittoria del Qatar viene definita un errore, segnata da critiche e denunce di corruzione. Sono seguite le notizie sullo scandalo del qatargate, le polemiche riguardanti gli operai, provenienti dagli angoli più poveri del mondo, finiti per essere ridotti in condizione di para-schiavitù o a formare l’esorbitante numero di vittime sul lavoro per la costruzione degli stadi, la cui magnificenza non può far certo dimenticare l’indifferenza riservata ai diritti umani.
L’effetto di tutto questo? Si è parlato più della nazione ospitante che dell’evento calcistico più importante al mondo.
Ed è così che ha operato il Qatar per entrare nell’arena europea e, più in generale, è così che ancora cerca l’accesso in Occidente.  

Comprare pezzi costosi di arte contemporanea rientra in questo disegno: il caso Hirst risale al 2007 e, ancora prima di diventare emiro, Al-Thani faceva il suo ingresso che lo lanciava sulla piazza del mercato artistico, dove nel 2011 si collocava come compratore più grosso.
D’altronde l’emiro non è da solo, ma c’è pure la famiglia reale: già nel 2004, Sheikh Saud Al Thani, principe del Qatar, si aggirava tra i padiglioni della fiera d’arte di Maastricht e comprava i pezzi più preziosi. Il piano era quello di riempire i musei di Doha, che sarebbero sorti di lì a pochi anni con i progetti degli architetti più noti, come Ieoh Ming Pei o Calatrava.

Adesso, quegli stessi musei sono sotto la direzione della sorella dell’attuale emiro, nonché uno dei personaggi più influenti nel mondo dell’arte.
Nel 2012 Sheikha Al Mayassa bint Hamad bin Khalifa Al Thani opta per un programma annuale di mostre di arte contemporanea.
Si tratta di mostre monografiche, che vedono un solo artista protagonista e unicamente le sue opere.
I nomi sono tra i più famosi e sgargianti: Takashi Murakami, con la mostra “Ego”; nel 2013 si esibisce Hirst con “Relics”. A seguire Richard Serra e, ancora, nel 2015 Tuymans con “Intolerance”.  

Grazie all’adozione di questo sistema curatoriale per i Musei del Qatar, Sua Eccellenza e direttrice Mayassa ha intrapreso una nuova linea di arricchimento culturale – anche se, forse, sarebbe più corretto parlare di cultura dell’arricchimento.
Perché quello che succede in Qatar non è qualcosa di isolato, bensì la conseguenza di un fenomeno molto ampio, in crescita nella scena artistica di oggi a livello globale: i musei, le fondazioni e le varie istituzioni culturali che vogliono rinvigorire la propria posizione, rinnovarsi o banalmente attrarre un pubblico più ampio, da tempo hanno spostato il mirino dalle mostre a tema alle mostre monografiche, sull’opera di artisti rigorosamente “high-profile”.  

Con una simile proposta espositiva, quanto succede a livello contenutistico è a tutti gli effetti uno svuotamento intellettuale: l’attenzione non è più rivolta al contenuto veicolato dalle opere, alle riflessioni che esse possono suscitare – come poteva accadere nel 2002 a Kassel con Documenta 11, un contesto intellettualmente più dinamico, che promuoveva un’interazione con la collettività, rivolgendo alle masse un dialogo fertile sui problemi più attuali. Ora è più importante selezionare artisti attivi nella cultura popolare e che nel tempo sono assurti alla posizione di celebrità.  Non si trasmette un messaggio intellettualmente effervescente, ma si vende il nome e il volto degli artisti più celebri.   

Pertanto, un’attività commerciale di questo tipo – perché di culturale rimane poco – non si è verificata solo a Doha.
È successo a Versailles, nel 2008: il direttore Jean Jacques Aillagon decise di rinnovare l’immagine della reggia organizzando una retrospettiva personale su Jeff Koons, artista in voga nella cultura pop. Un esempio più recente (2018-19) e italiano è la mostra della Abramovi? a Palazzo Strozzi, The Cleaner, con un numero record di 83mila visitatori esclusivi. E va a finire che si vendono i portachiavi di Murakami, che intanto non si fa mancare la collaborazione con Louis Vuitton.  

La linea culturale intrapresa da Mayassa segue le regole della moda e la dinamica del capitalismo, è un’istantanea che cattura in modo evidente l’articolazione di una struttura globalizzata: da un lato l’essenza facile di una società che consuma i contenuti “culturali” in termini di celebrità o instagrammabilità, e, dall’altro, si coglie la natura di un’élite capitalista, potenze ai piani alti che non scindono il valore intellettuale dal criterio meramente monetario.   

Di questo già parlava Fredric Jameson nella sua analisi sul postmodernismo del 1991 (Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism). Ragionando nell’ottica di una anestetizzazione della vita degli individui, il teorico statunitense ritiene che l’espansione del tardo capitalismo abbia comportato una “economizzazione della cultura” e, parallelamente, una “culturalizzazione dell’economia”.
È un concetto ancora tutto attuale, perché illustra la percezione della cultura contemporanea che non è più fruita nella sua qualità di esperienza intellettuale autentica, nata per veicolare un pensiero di spessore a un pubblico di massa che trova così uno spazio di riflessione. 
Piuttosto, l’espressione culturale di oggi si concentra sull’individuo e viene spesso intesa come mezzo di autodefinizione, qualcosa che possa influenzare e fare moda, un oggetto d’arte la cui esperienza sia invidiabile e “in palette” coi più accattivanti profili Instagram.   

Questo è il movimento del nuovo consumo culturale, questa è la dinamica su cui fa leva il mercato dell’arte. 
In questa meccanica della compravendita artistica così sentita in Occidente, il Qatar intravede la sua grande occasione per conseguire il suo obiettivo, quello di riconoscersi nelle fila delle grandi potenze mondiali, dove Europa, Asia e America dettano una sorta di “legge” perché apparentemente percepite come i grandi esempi d’avanguardia.  

Per questo il Qatar si accoda a questa tendenza: come lo fa?  Comprando offerte artistiche nate in Europa e rivendendole nei propri musei.
Quindi Sheikha Mayassa appoggiò Aillagon quando scelse Murakami per una monografica a Versailles (2010).
Finanzia l’esposizione di Hirst alla Tate Modern di Londra nel 2012.
È una strategia che ha funzionato e riportato i compensi sperati: i due artisti hanno poi esposto ad Al-Riwaq a Doha, comportando non solo nuove entrate economiche ma rafforzando l’emirato qatariota nel suo ruolo di centro di scambio artistico.
Con la sponsorizzazione delle grandi esibizioni europee, Sheikha Mayassa Al Thani garantiva una crescita immediata al suo Paese, che intanto andava sempre più rivestendo l’agognato ruolo di ponte di comunicazione culturale tra Ponente e Levante.

A ben vedere, questa storia si è riproposta con evidenza anche più recentemente, nei Mondiali del 2022: nella folle e mortale corsa alla costruzione degli stadi più grandi e più iconici, ce n’è uno che arriva primo.
Si trova a Lusail City e viene considerato un pezzo di design. 
Ma lo studio che lo realizza è il britannico Foster + Partners.  

Pregno di progetti sfavillanti, il Qatar non è più il paese desertico privo di risorse, ma quello della Doha dotata di un profilo architettonico fatto di luci e strutture di lusso, innovazioni e ricchezze infinite.  È lo spazio dell’avanguardia, è il paese dove hanno esposto i pezzi grossi dell’arte contemporanea. Tali investimenti hanno consentito al paese arabo di insabbiare le incoerenze di una realtà per dotarla di un’immagine nuova, appetibile soprattutto agli occhi dell’Occidente – che, prima di altri, ha promosso un approccio superficiale al mondo dell’arte.  

Questo tipo di atteggiamento verso la cultura appare quanto mai criticabile. Eppure, tutti seguiamo la logica dell’esperienza instagrammabile, tutti siamo soggetti al fascino del commerciale e compreremmo ancora il biglietto della mostra di Damien Hirst a Villa Borghese o per la personale di Maurizio Cattelan al Pirelli-Hangar Bicocca.
Ma quando è il Qatar ad esporre certe iniziative, qualcosa quadra ancora meno di quando non lo si faccia altrove: c’è qualcosa di intrinsecamente instabile nelle scelte che fa il regno del petrolio.
Fra i potenti esercenti del mercato artistico c’è una differenza ontologica: se l’Occidente globalizzato si permette discutibili operazioni artistiche, ci arriva sulla base di una storia secolare e culturalmente densa. L’emirato, dal canto suo, ha una storia giovanissima, tradizioni deboli e, pur di mettersi in pari, finisce per costruire il suo mecenatismo sui giacimenti petroliferi scoperti negli anni ’50. Attenzione, tutto ciò non è altro che l’eredità, lo strascico del caro, vecchio colonialismo, la cui ombra continua ad allungarsi sul sistema culturale contemporaneo e a fondare la sedicente superiorità del Nord del mondo. 
Ecco perché ci sembra improprio trovare le medesime strategie politico-economiche in ambito culturale.
Per di più, il progetto perde un valore notevole quando si comprenda che ciò che ha indotto il Qatar a tentare un simile approccio di mercato artistico siano vili motivi di immagine, mentre nella realtà qatariota sopravvivono problematiche ben più urgenti, fra le prime la questione dei diritti umani. 

Sarebbe rasserenante trovare l’autenticità di investimenti in ambiti più umanitari, piuttosto che prendere in prestito l’ennesimo pacchetto vuoto e piazzarlo in un museo di Doha.
Sarebbe confortante vedere questo paese rimediare a quello svuotamento intellettuale, conferendo una meritata valorizzazione ad una tradizione tutta sua, finalmente sganciata dagli scorsi echi coloniali. 
Ma, per il momento, è evidente che si preferisca comprare il tempo di artisti di fama internazionale e di facilità commerciale pur di avvicinarsi ad una mentalità globalizzata.  

Per chiudere un cerchio, torna ottimale ricordare un altro caso Hirst, questa volta del 2013. Da Londra ci spostiamo a Doha, dove Sheikha Mayassa commissiona all’eccentrico vip dell’arte quattordici colossi di bronzo raffiguranti un utero e le fasi della gestazione di un feto.  Poste pubblicamente davanti al Sidra Medicine Center, vennero subito coperte per placare le numerose polemiche e critiche: d’altronde, si trattava della prima opera di nudo esposta pubblicamente in Medio Oriente.  Gli embrioni giganti di The Miraculous Journey vennero scoperti nuovamente solo cinque anni più tardi: di nuovo, un episodio con Damien Hirst può essere oggetto di una rilettura, di come un paese che si professa avanzato lo sia solo economicamente, un mondo che vuole essere innovativo ma che ancora fatica a svelare al pubblico dell’est un bambino nudo o le intimità di una donna. 

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