The Fabelmans: ritratto dell’artista da giovane vecchio

In copertina: The Fabelmans di Steven Spielberg, Usa, 2022

 

Guida all’ultimo film di Spielberg tra narcisismo e nostalgia

di Fabio Ciancone


 

In una scena dei Fabelmans, la sorella del protagonista Sam chiede al padre se lo zio, che a tavola sta raccontando di quando lavorava al circo, stia dicendo bugie: «No, sta raccontando una storia». Nel suo personale e commosso (e secondo me nient’affatto commovente) omaggio a sé stesso e alla propria arte, Spielberg riflette sulla dialettica tra verità e finzione, tra realtà e sua rappresentazione per mezzo della macchina da presa.

In Fabelmans lo spettatore segue la formazione di un giovane aspirante regista, che si innamora del cinema grazie ai suoi genitori e cresce all’ombra della propria famiglia e delle sue dinamiche disfunzionali. Il padre di Sam è un ingegnere di successo: colto, razionale, intelligentissimo; la madre, invece, è una promessa (ovviamente mancata) del pianoforte e ora fa la casalinga – è anche depressa e così su due piedi non ricordo madri positive nei film di Spielberg. La famiglia viaggia, nel corso degli anni, da Est verso Ovest, dall’Ohio alla California passando per l’Arizona, seguendo la carriera del padre. Non è una semplice famiglia nucleare sradicata americana: con loro viaggiano anche le nonne. Ma non solo: a ogni tappa la madre chiede al padre di dare lavoro a Ben, migliore amico di lui e amante di lei.

Sam Fabelman scopre il cinema da bambino, quando papà e mamma lo portano a vedere Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille. Sam rimane folgorato dalla scena madre del film, l’incidente tra due treni e un’automobile, e tenta ossessivamente di riprodurne con i suoi giocattoli la dinamica: il ragazzo vuole ottenere il controllo della meraviglia che ha esperito da spettatore passivo. Da quel momento in poi, nel film si ripeterà più volte la struttura visione-ispirazione-imitazione che stimola Sammy a conoscere il mondo attraverso una macchina da presa: è grazie alla realizzazione di un breve film su un campeggio di famiglia, ad esempio, che il giovane scopre del tradimento di sua madre con lo “zio Ben”; allo stesso modo, mentre i genitori, in una scena tragica e commovente, comunicano ai figli che stanno per divorziare, il protagonista, quasi estraniato dalla vita che gli passa accanto, si immagina regista della scena. Che il potere del cinema secondo Spielberg vada ben oltre la mera dimensione scenica e narrativa doveva esserci chiaro d’altronde già dal 1982, quando nel suo film probabilmente più famoso il regista ha immaginato che la totale identificazione tra le sensazioni fisiche ed emotive di un extraterrestre e di un bambino di dieci anni potesse avvenire tramite la visione, da parte dell’alieno, di un film in televisione.

La riflessione di Spielberg sul cinema si nutre di considerazioni al limite della banalità e nel corso del film ogni scena in cui si parla di cinema è l’occasione per una piccola lezione di morale. Tra queste partirò da quella che mi ha dato più fastidio: in un buon terzo delle scene del film, il giovane Fabelman-Spielberg arriva ai suoi capolavori grazie ad una madre che in ogni occasione gli ricorda l’importanza dei sentimenti, mentre il padre non smette di ribadire l’importanza della tecnica.

Nella scena iniziale dei Fabelmans, ad esempio, il piccolo Sam, terrorizzato dall’idea di andare a vedere «uomini giganti» sullo schermo, è rassicurato dal padre, che gli spiega dettagliatamente che quei giganti non sono altro che immagini in movimento; la madre intanto muove le corde della commozione e della meraviglia dello spettacolo cinematografico.

In tutto il suo percorso di crescita e conoscenza del cinema Sam si identificherà ora con la genialità della figura paterna (nel momento in cui decide, didascalico lampo di genio, di bucare la pellicola per simulare gli spari delle pistole), ora con la sensibilità artistica della madre, girando scene commoventi che spingono i suoi spettatori all’entusiasmo e alle lacrime. Il refrain è sempre lo stesso: «sei intelligente/geniale come tuo padre», «sei sensibile come tua madre». Quindi Incontri ravvicinati è un film che parla di astronavi e sistemi di comunicazione perché il padre è un ingegnere, e di famiglie separate e soggiorni illuminati di taglio perché la madre è una pianista?

Viene da chiedersi se intelligenza e sensibilità, come suggerisce il regista, siano necessariamente caratteristiche genetiche, e se i nuclei originari e universali dell’arte siano soltanto la tecnica e la commozione, ma soprattutto: c’è ancora qualcuno che rappresenti seriamente l’uomo come la parte razionale e la donna come quella emotiva in una coppia?

Veniamo ad un secondo aspetto che ha urtato la mia sensibilità di spettatore. Arte e famiglia entrano in conflitto non soltanto dal punto di vista dell’auto-identificazione di qualsiasi artista, ma anche nella sua biografia e nella sua carriera. Questo è uno degli assunti probabilmente più autobiografici e personali del regista Spielberg, che mette in bocca al personaggio del prozio Boris un’ammonizione e, nel contempo, una sorta di vaticinio sulla carriera di Spielberg-Sam: «Famiglia, arte e vita ti divideranno in due: non potrai mai conciliare famiglia e arte! Le due cose si scontrano!». Scena quasi topica per una storia di formazione: un personaggio secondario compare, rivela qualcosa di essenziale al protagonista per poi, subito dopo, scomparire. Nulla di ulteriore, né di più profondo, su questo legame; soltanto un accorato invito, presentato sotto forma di necessità ineludibile, a slegarsi dalle proprie origini per seguire la strada del successo (sic!). Questi imperativi si riflettono d’altronde nella parabola narrativa del film, che parte dal rifiuto del padre verso il desiderio di Sam di fare del cinema un lavoro, fino alla resa finale alla volontà del figlio e ad una paternalistica oltre che paterna benedizione.

Passiamo, ora, ad un terzo spunto tematico con cui Spielberg declina uno dei Leitmotiv dell’intera produzione artistica occidentale, ovvero il rapporto tra persona e personaggio, tra vita e sua rappresentazione. Questo è forse l’aspetto più sfaccettato e multiforme della riflessione di Spielberg sul cinema, sviluppata su due traiettorie opposte: se da un lato Sam documenta alcuni momenti di vita vissuta (filma la sua quotidianità familiare e la festa di fine anno del college che frequenta), dall’altro si cimenta nella finzione e dirige la recitazione di attori (gira due americanissimi cortometraggi, un western e un mini-colossal di guerra a cui partecipano «più di quaranta persone»; peraltro, anche in questo caso le pellicole sono ispirate da film di John Ford che il ragazzo vede al cinema).

Quando riprende la realtà, il cinema secondo Spielberg è sempre il mezzo per rivelare qualcosa. Mentre abbiamo già citato il tradimento della madre con Ben, un esempio ancor più lampante di rivelazione è quello della festa di fine anno: Sam, nel raccontare la giornata in spiaggia, fa dei bulli che lo perseguitano a scuola i suoi protagonisti. Uno dei due è presentato come eroe positivo, bello e popolare: vince il torneo di pallavolo, è guardato con ammirazione dalle ragazze, i primi piani lo ritraggono in tutto il suo fascino. L’altro, al contrario, è il classico antieroe, una persona ridicola e poco apprezzata dai suoi compagni. La conseguenza di questa scelta registica è l’avvicinamento emotivo tra il primo bullo (Logan) e Sam. Logan si infuria con Sam per aver mostrato a tutta la scuola un’immagine di lui talmente perfetta da metterlo in difficoltà, proprio perché irraggiungibile. Alcune battute dal loro concitato dialogo ci permettono di entrare meglio nella scena:

Logan: Perché mi hai fatto apparire così? Che problema hai? Io ho fatto solo lo stronzo con te e tu mi fai apparire così, che hai che non va?

Sam: Io tenevo solo la cinepresa, lei ha visto quello che ha visto.

L: Mi hai fatto apparire come una specie di cosa dorata. Io voglio sapere perché l’hai fatto. Ora mi dovrei sentire in colpa per lo schifo che ti abbiamo fatto?

S: Io volevo che tu fossi gentile con me per cinque minuti! O forse l’ho fatto per migliorare il film, non so perché, sei uno dei più grandi stronzi che io abbia mai visto in vita mia […]. Ho fatto sembrare che volassi!

L: Ma io non posso volare! Corro più veloce di tutti nella contea di Santa Clara e ho sudato tanto per questo, ma tu mi fai sentire come fossi un fallimento, una finzione, come se dovessi essere uno che non sarò mai, nemmeno nei miei sogni. Hai preso quel ragazzo, chiunque esso sia, l’hai messo sullo schermo e hai detto a tutti che quello sono io, e invece non è vero, quello è…maledizione!

S: Non volevo che dessi di matto…

L: Non mi importa di cosa volevi.

[entra il secondo bullo arrabbiato, che tenta di picchiare Sam ma viene cacciato a calci da Logan]

S: Che mi succede adesso?

L: Tu ami la vita spericolata, ma se vai a spifferare che mi sono “arrabbiato” allora fai un errore, segreto nostro.

S: Sicuramente, a meno che non ci faccia un film.

Logan prende coscienza dei propri limiti e così facendo diventa buono con la sua vittima, ma soprattutto si accorge della capacità di Sam, e in ultima analisi del cinema, di vedere le cose per come sono, o, al contrario, di mostrarle sotto una nuova luce. Potere a tal punto pericoloso che il bullo intima al protagonista di non girare mai più un film su di lui.

Prima di fare alcune considerazioni, veniamo al polo opposto della dialettica realtà-finzione, la finzione, per l’appunto, che Spielberg declina nei termini di una ricerca della “verità scenica”. Il regista tenta di ingannare il suo spettatore lasciando passare il messaggio profondamente ingenuo, superficiale al limite della banalità, per cui la buona recitazione consista esclusivamente nel lasciarsi trasportare emotivamente dalla sceneggiatura. Sam, infatti, va alla ricerca ossessiva di una resa cinematografica che non dia l’idea di finzione: mentre riguarda i suoi primi girati si lamenta di come sia «tutto finto, tutto finto!». Il culmine arriva quando viene girata la scena madre del secondo corto: durante le riprese Sam tenta di far provare al suo protagonista, attore giovane e inesperto, la stessa commozione e lo stesso smarrimento che dovrebbe sentire il suo personaggio (un eroe di guerra che vede tutti i suoi compagni morire). È così che i due cercano di evocare a parole questa emozione, che li porta a commuoversi davvero fino alle lacrime. La resa di questa commozione nel film di Sam, neanche a dirlo, è un capolavoro. Ma c’è di più: il giovane attore è talmente dentro la scena che non si accorge che il ciak è finito e continua a camminare, sconvolto, verso l’orizzonte senza sentire le urla dei suoi compagni che lo chiamano. Tuttavia, la consapevolezza che Spielberg sappia in cosa consista il lavoro di un attore rende fastidiosa la presunzione e l’ingenuità con cui un maestro del cinema tenta di fare fesso il suo spettatore per mezzo di un sentimentalismo ingenuo e melenso. Se da un lato quindi è grottesco affermare che il regista sia l’oracolo del dio “Macchina-da-presa” e che il film sia il corrispettivo delle foglie della Sibilla Cumana, non possiamo neanche credere che il buon attore debba essere una moderna Santa Teresa in estasi. Raramente mi sono trovato di fronte a teorie così semplicistiche.

Consideriamo, in ultimo, il più profondo aspetto meta-cinematografico del film, che sta forse non tanto nella trama o nella riflessione dialettica di cui abbiamo discusso finora, quanto nello sperimentalismo dei generi che Spielberg mette in atto. Il regista cita silenziosamente, e questo è un merito, i generi e le tecniche cinematografiche più disparate: il dramma, la commedia, il western, il colossal; il cinema muto, il technicolor, l’evoluzione delle macchine da presa e delle macchine per il montaggio. È una mini-storia del cinema della sua infanzia, una rievocazione di un’epoca felice, per il regista e per gli USA: è l’epoca dell’ascesa dell’IBM, del boom economico, e più il padre di Sam fa soldi, più il ragazzo può permettersi macchine costose e moderne. Ci si chiede, allora: tralasciando tutti gli elementi critici citati finora, questa opera potrebbe essere considerata un bel prodotto cinematografico? No, e il vero punto critico sta proprio nella rievocazione del cinema di un tempo: The Fabelmans non ha nulla da dire allo spettatore di oggi. Spielberg mette in scena una pellicola passatista, racconta l’America epica e borghese del successo e dell’ascesa sociale post-Seconda guerra mondiale, del multiculturalismo borghese in cui sembra che l’unico conflitto esistente (culturale e non sociale) sia quello tra ebrei e cattolici; dimentica di citare, nel suo omaggio al cinema, qualsiasi cosa che sia stata girata negli ultimi sessant’anni; elogia, forse anche banalmente nei contenuti, un mondo che non c’è più – simbolico, a questo proposito, il viaggio da Est a Ovest, a ripercorrere le tracce dei padri pellegrini Americani alla conquista del continente. Spielberg infarcisce la pellicola con scene, dialoghi e personaggi talmente cliché da risultare quasi parodici, fino a spingere lo spettatore a pensare che si tratti in realtà di una goffa operazione di scimmiottamento del passato: il rapporto bullo-vittima, la cultura pop cattolica, le feste in spiaggia, i vestiti e le acconciature anni ’60. The Fabelmans produce nello spettatore la stessa sensazione di straniamento di Ready player one, un film ambientato nel 2050 che parla di videogiochi, metaverso e futuri scenari distopici, in cui il non plus ultra del citazionismo pop tanto caro all’artista è rappresentato da Godzilla e King Kong, Clark Kent e Batman, Pacman e Adventure.

Chi ha visto i Fabelmans al cinema avrà assistito, prima della proiezione, a un breve monologo dello stesso Spielberg, che ringrazia personalmente e sentitamente lo spettatore a nome proprio e della troupe per essere andato fin lì, in un cinema, a vedere il suo film (più o meno con queste stesse parole). Segue un breve elogio di questa arte, che suona come una dichiarazione di resa, il canto del cigno di una dimensione della fruizione cinematografica di cui Spielberg si fa – forte del suo ruolo di ideologo degli Stati Uniti del Novecento – portavoce universale. È come se il regista dicesse: grazie per aver fatto questo sforzo, dato che ora andare al cinema non piace più a nessuno, perciò ora ti racconterò i fasti di un tempo in cui questo gesto non aveva ancora perso di senso.

Lungi da me affermare che questo film sia davvero il simbolo della fine di un’epoca e che Spielberg ne sia il Messia. Il problema è che è lo stesso film a veicolare questo messaggio mettendo in scena una storia che non ha nessun legame con i riferimenti culturali e sociali dello spettatore di oggi. L’America – e l’Occidente – non sono più quelli della crescita individuale e del successo; il cinema non è più quello del montaggio a mano e delle manovelle che azionano le macchine da proiezione. The Fabelmans non può essere e forse non sarà mai Nuovo Cinema Paradiso: il lungometraggio di Spielberg non costruisce un immaginario, anzi contribuisce a distruggerlo.

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