Il realismo poetico nel cinema di Andrea Arnold

Corpi, periferie e vulnerabilità oltre le ideologie

di Irene Frau


 

Cow (2021) è il primo documentario di Andrea Arnold. La protagonista è Luma, una mucca da latte che per 94 minuti resta intrappolata nei 4:3 dello schermo, proprio come nell’allevamento dove è seguita dalla macchina da presa per quattro anni, nella ripetitività dei suoi giorni. Arnold, che è già considerata una delle registe più importanti del cinema indipendente inglese, sceglie di indugiare a lungo sulla placenta che penzola dalla vulva di Luma fino a toccare il fango melmoso della stalla in cui ha appena partorito l’ultimo vitellino, l’ennesimo, che presto le toglieranno. Arnold lascia che, esponendosi, la vulnerabilità possa trovare spazio e mostrare come spirito e carne si confondono: lo fa con gli animali come di solito fa con gli umani. In Cow, per la prima volta si allontana dalle adolescenti senza guida e dalle madri single per dedicarsi interamente al tentativo di svelare una coscienza non umana a partire dalla messa a fuoco della sua essenza creaturale, da ciò che il corpo racconta.

Non è un caso che Arnold abbia deciso di girare un documentario sulla vita quotidiana di un animale. Il suo cinema ha sempre a che fare con la carnalità, quasi bestiale, dei sentimenti e delle emozioni, che rende con un intenso lavoro di macchina, cercando indefessamente di aderire alla realtà per rinunciare a ogni forma di retorica. Il linguaggio cinematografico di Arnold intensifica lo sguardo su microcosmi complessi, fatti di colate di cemento e di corpi che creano un legame viscerale con lo spettatore. È uno sguardo naturalistico spontaneo, sincero, su ciò che significa sentire ogni giorno la morsa che opprime inesorabilmente chi vive ai margini della società.   

Arnold è figlia della working class dell’estrema periferia a sud di Londra. È nata e cresciuta a Dartford, nel Kent, nel 1961, quando sua madre aveva solo sedici anni e suo padre diciassette. Da maggiorenne si trasferisce a Londra per cercare lavoro come attrice e ballerina in televisione. Probabilmente, deve la sua fortuna ad un programma trasmesso dall’emittente Television South intitolato No. 73, una sorta di sitcom per bambini in cui Arnold recita sui pattini a rotelle. Al di fuori degli studi televisivi, si dedica anche alla scrittura di soggetti, attingendo da ciò che il suo vissuto le ha insegnato ad osservare. 

Per sette anni Andrea Arnold è sul piccolo schermo come Dawn Lodge, fino a quando non decide di provare a trasformare i suoi racconti in sceneggiature. Si trasferisce a Los Angeles per studiare cinema e regia all’American Film Institute. Poi torna nel Kent, perfeziona la sua formazione frequentando il PAL Labs e comincia a girare. Non ama parlare della sua vita privata e custodisce con eleganza i fatti della sua infanzia, lasciando che emergano solo come suggestioni dai suoi lavori. Dopo il corto d’esordio, Milk (1998), più figlio della scuola e stilisticamente acerbo, inizia a maturare la sua cifra stilistica con il secondo corto Dog (2001). La protagonista è una ragazzina che si aggira tra le sterpaglie, l’immondizia e il cemento delle case popolari dell’East London insieme ad un ragazzo che rivela la sua brutalità sfogandosi su un cane randagio. La svolta artistica arriva subito con Wasp (2004) che, oltre alle attenzioni del Sundance Film Festival, vince l’Oscar per il Best Live Action Short Film: meno di mezz’ora in cui il linguaggio di Arnold prende forma e sostanza. La narrazione asciutta di ciò che accade ad una giovanissima madre single e le sue quattro bambine getta lo spettatore senza protezioni nel loro mondo. In casa manca il cibo, manca l’amore, mentre per strada si intravede la via di fuga. Non è il messaggio ad essere al centro del film, ma l’immagine. I movimenti di macchina sono rapidi e leggeri, la luce naturale. Wasp inaugura anche un lungo sodalizio con Robbie Ryan, direttore della fotografia in alcuni film di Ken Loach come The Angels’ Share e Sorry We Missed You. 

Nel 2006 aderisce ad “Advance Party”, un progetto di Lars Von Trier, sorta di call per nuovi registi, per il quale Arnold gira il suo primo lungometraggio, Red Road (2006), uno dei pochi lavori in cui la sceneggiatura non è scritta interamente da lei. Qui Arnold mette in scena un tema classico della cinematografia: l’opposizione tra il guardare e il fare, l’occhio della macchina da presa e il soggetto rapito dall’obiettivo, in una tensione oscillante fra carnefice e vittima. Lo fa magistralmente meritandosi il premio della giuria al festival di Cannes, vittoria  che replica ben presto con Fish Tank (2009), uno fra i suoi lavori i più significativi. Nel suo secondo lungometraggio, come spesso accade nelle opere di Arnold, il film comincia come se fosse già iniziato, senza cornici o establishing shot. La macchina a mano si intrufola nella camera di Mia, un’adolescente dell’Essex. Siamo nella periferia a Est di Londra, nota in tutto il Regno Unito per via del cliché sulle ragazze del posto, le cosiddette “orange girls” dal trucco esagerato, il look molto appariscente e la condotta ardita. Con un movimento che sembra ricalcare quello dell’incipit del corto Dog, dalla cameretta la macchina si precipita subito giù per le scale per riprendere lo scontro con Joanna, la madre della protagonista, interpretata da Kierston Wareing (Angie in It’s a free world di Ken Loach). Sin dai primi minuti Arnold riesce a dare punti di riferimento senza fornire spiegazioni, costruendo, sequenza dopo sequenza, l’acquario in cui tutti i personaggi del film si divincolano nel tentativo di trovare un posto per loro. Mia è un vero e proprio ordigno esplosivo acceso al contempo da un principio di inconsapevole speranza e rabbiosa disperazione. Connor, il fidanzato della madre, interpretato da Michael Fassbender, è l’adulto che appare come unico spiraglio verso la salvezza, l’unico disposto a prendersi cura di lei, come padre e come amante. Ma Connor è il padre di un’altra bambina, l’uomo di sua madre e il marito di un’altra donna. 

In Fish Tank tutti commettono terribili errori, falliscono e si feriscono a vicenda nella totale mancanza di una guida, proprio come la working-class inglese, impoverita e abbandonata. Tutti combattono disperatamente per liberarsi, per il diritto ad essere felici. Eppure, nessuna emozione ci viene spiegata, nessuna delle cause di questo dolore è argomentata. La vulnerabilità di Mia, come quella di tutte le protagoniste nel cinema di Arnold, è semplicemente esposta, così com’è, da vicino e per come appare. Non sente il bisogno di osservare gli ingranaggi del sistema, ma piuttosto le esistenze fragili di chi ne è sopraffatto. Dopo aver passato al setaccio ogni forma di giudizio etico o di comprensione meramente logica, Arnold trattiene solo l’intuizione carnale data dal continuo scivolare di immagini, come finestre rapide su dettagli ordinari colti da prospettive intime, ma senza fare pornografia e sempre con sublime delicatezza. C’è qualcosa che va oltre i rapporti di produzione e le sovrastrutture, così come c’è qualcosa che va oltre la progressione narrativa, ed è ciò che resta di più puro: un realismo poroso, senza relazioni gerarchiche tra lirismo e impegno politico.

Il cinema di Andrea Arnold è spesso ascritto al genere del realismo sociale e al movimento del Free cinema di Ken Loach, Mike Leigh, Alan Clarke e Lindsay Anderson, rinnovato da un linguaggio lirico intriso di simbolismi ed epurato dalle ideologie. Eppure, in un’intervista apparsa sul The New York Times, Arnold non rinnega la sua vicinanza alla tradizione del realismo britannico sociale, né sceglie di appoggiarsi ad un genere per definire la sua poetica. Preferisce rispondere spiegando di essere attratta dalle anime danneggiate. Non ha paura di dichiarare che scrive di ciò che conosce perché il suo vissuto ha influenzato i suoi lavori. Ciò che le interessa davvero è trovare l’essenza ultima di ciò che osserva, esplorarla e restituirla trovando il modo per renderla percepibilmente tastabile. 

Come erbacce che crescono libere tra le crepe nell’asfalto, noi tutti, creature vulnerabili, abitiamo questo mondo costretti a sognare una via di fuga. Arnold ha la capacità di insediarsi fra queste crepe e coglierne la loro naturale bellezza. Quando si guarda un suo film si è costretti nel formato quadrato a condividere le esperienze dei corpi proiettati sullo schermo. Non possiamo limitarci ad osservare: dobbiamo sperimentare la vita dei personaggi. Pertanto, non è necessario adottare nessuna prospettiva morale, né tanto meno alcuna postura di compatimento perché tra il soggetto proiettato sullo schermo e il soggetto che guarda si genera un allineamento. Lo sguardo dello spettatore è costretto ad essere privato di ogni forma di oggettivazione, di dominio e di giudizio. Arnold preclude ogni possibile atteggiamento colonizzante da parte dell’osservatore portandolo ad entrare in contatto con la propria natura precaria, vulnerabile e carnale. 

In una recente pubblicazione dal titolo “New Realism: Contemporary British Cinema” David Forrest teorizza l’ascesa di un rinnovato realismo sociale inglese, in cui l’impegno politico è ibridato da un lirismo che innesca emozioni rivoluzionarie negli spettatori. Se il realismo sociale della tradizione parla attraverso i dialoghi ideologicamente schierati, il realismo poetico attribuito alla Arnold comunica, per immagini radicate nel quotidiano, il “regno dell’esperienza comune”, dell’infinitamente piccolo in cui è racchiuso l’infinitamente grande. Il nuovo realismo britannico, individuato da Forrest, mette in primo piano la natura fisica, carnale, dell’essere nel mondo enfatizzando i dettagli, apparentemente insignificanti, degli ambienti e dello spazio abitato dagli attori. L’esperienza dei personaggi è al centro della narrazione raccontata a partire dai tratti universali, condivisibili e riconoscibili come familiari, nel tentativo di sublimare il quotidiano attraverso l’evocazione di diversi livelli esperienziali. 

Ciò che contraddistingue il cinema della Arnold è l’attrazione per il rischio definito da lei stessa come lo spazio in cui le cose accadono. In Cow rischia inquadrando i fuochi d’artificio che brillano nel cielo mentre Luma è costretta ad essere montata da un toro in un amplesso forzato dal sistema produttivo di cui lei è un ingranaggio vivente. In American Honey (2016) Star canta “Dream baby dream” e poi,  insieme ai suoi compagni di viaggio, la canzone dei Lady A dall’omonimo titolo, American Honey,  rischiando di apparire didascalica, senza temere di mostrare la banalità di alcuni istanti felici. Rischia anche quando sceglie di svelare agli attori, quasi tutti non professionisti, la sceneggiatura per tappe, in modo che lo stupore della scoperta, insita nella dimensione del viaggio, sia il più possibile evidente. Recitare di meno e sentire di più: questo è ciò che chiede ai suoi attori. Per quasi tre ore di film nulla di ciò che si racconta è effettivamente funzionale alla storia. Tuttavia, nessun dettaglio appare trascurabile nel flusso narrativo che parte senza iniziare e che termina senza un finale. Sasha Lane debutta come protagonista nei panni di Star, una ragazza che scappa dagli abusi e dall’estrema povertà, per mettersi in viaggio con un gruppo di ragazzi che gira l’America in furgone vendendo riviste. Lo spettatore comincia il viaggio verso l’ignoto insieme a lei, sentendo ciò che prova, immergendosi in lunghe macrosequenze, capaci di lasciar muovere spontaneamente gli attori nello spazio dell’immagine, anche qui costretta nel formato quadrato in 4:3.   

American Honey vince il premio della giuria al Festival di Cannes nel 2016, lo stesso anno in cui Io, Daniel Blake di Ken Loach ottiene la Palma d’oro. La narrazione diretta e pulita degli ingranaggi burocratici antiumani nel film di Loach è lontana dal lirismo carnale di American Honey. Piuttosto che costruire una storia alla Loach, preferisce lasciar passare ciò che significa vivere sulla propria pelle un’esperienza come quella di Star. Lo fa alzando la macchina verso gli infiniti cieli azzurri sopra l’asfalto, oppure soffermandosi su una falena che si dimena stordita dalla luce di una torcia. In Fish Tank Mia scoppia in lacrime solo quando scopre che Billy, il cavallo bianco che aveva provato a liberare dalle catene, è stato abbattuto perché ormai troppo vecchio e malato. Ancora, Arnold sceglie di cominciare Wasp inquadrando i piedi nudi di Zoë che corrono dalle scale verso la porta di casa e poi giù in strada, con al seguito tutta la sua fragile prole. In Red Road entriamo in uno squat in cui una giovane ragazza nutre un cucciolo di cane versando direttamente sul pavimento lurido il contenuto di una scatoletta. 

Che siano le donne giovani, povere ed emarginate ad essere le protagoniste dei film di Arnold, potrebbe, ancora una volta, non essere un caso. Esiste una connessione, indagata da tempo dalle correnti dell’ecofemminismo, tra il patriarcato capitalista e la crisi ecologica, la soppressione delle donne, delle minoranze e di chi, in questo sistema, è a tutti gli effetti carne da macello. Estirpare il dominio violento del maschile sul creato è compito di ciò che simbolicamente si riconduce al ruolo del femminile. Potrebbe trattarsi di una delle possibili chiavi di lettura per attribuire un fare politico al cinema di Andrea Arnold, ammesso che occuparsi di emozioni non lo sia già. 

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