Gang bang tra sterminati deserti di gommapiuma

Una recensione di Confessioni di una coppia scambista al figlio morente, ultimo libro di Alessandro Gori

di Viola Giacalone


 

Ad Alessandro Gori piace la penombra. Lo Sgargabonzi, come è meglio conosciuto (dal nome del suo blog, poi pagina FB), ha portato i suoi spettacoli di stand up comedy abrasivi in giro per tutta Italia. Durante il 2019, partecipa al programma della RAI Battute, ma invece di star seduto alla tavolata di comici ridanciani che animano lo show, ha il suo personale sipario, al centro della sala, vestito di nero, col volto coperto e un cappellino da baseball. Nel programma Una pezza di Lundini, presenta gli ospiti con la sola voce, quindi conduce una seduta spiritica in cui contatta il compianto David Bowie, durante uno sketch che intervalla lo show. “Abito in Val di Chiana, la Louisiana Italiana, un’ex palude dove siamo tutti figli di consanguinei”, ci fa sapere in “Telefonino”, un brano di Confessioni di una coppia scambista al figlio morente. Gli piace la penombra, ma i suoi testi consistono nel rilevare quanto più possibile: “Gang Bang gentilmente offerta dalla mia signora nella pineta retrostante la spiaggia nudista. Mi mimetizzo pure io fra gli uomini, senza far sapere che sono il marito perché mi imbarazza”, leggiamo nel brano “Una settimana al mare”.

La sua è una comicità ambigua, infatti I suoi lettori si distribuiscono in uno spettro che va dal “ci è o ci fa?” fino al: “lo Sgargabonzi è il miglior scrittore comico Italiano”, come scrisse il professore Claudio Giunta in un articolo di Internazionale. È un gioco che diverte molti, lo scrittore in primis, ma è anche una questione serissima, che gli ha valso il premio della Satira del 2022, per Confessioni di una coppia scambista al figlio morente e l’omonimo spettacolo live. 

Gori si mostra più del solito in questa ultima raccolta di racconti. Proprio come nelle sue recenti apparizioni via cavo, lo scrittore si mette in scena di tanto in tanto, per poi sparire e lasciare il lettore solo a dover fronteggiare l’universo fantastico e terribile che ha creato.                                                                                                                                                                                                                                                                                            

La sua voce si unisce alla polifonia creata dai suoi personaggi, che sia come pretesto per incarnare le posture dello scrittore di successo su Facebook (“Bannato!”): “già mi sorprendo che il sole sia sorto come ogni giorno, nonostante la mia espulsione da Facebook”, o per offrire uno spaccato desolante della scena della comicità italiana (“Non chiamateci comici”): “hanno recensito positivamente la mia prima serata nel Viterbese: “un Edoardo Ferrario meno bravo”. Ovviamente mi gaso da morire”, o semplicemente per parlare della sua infanzia, sulla quale l’autore indugia spesso e volentieri, in modo felicemente morboso (“Veleno per topi”:

“c’è una cartolina di “Slurp!” caduta quasi quarant’anni fa dietro questa scrivania incassata nel muro. Quando mi capiterà di smontarla, se mai mi ricapiterà, la rivedrò. Per quarant’anni è stata a poche decine di centimetri dai miei piedi e insieme lontana galassie.”

Con maestria, da un testo all’altro, cambia genere, voce e tono senza assicurare nessuna fluidità, ma al contrario concludendo la maggior parte dei brani in modo sanguinario o delirante, bruscamente. In “Una settimana al mare” ad esempio, lo scrittore-personaggio provoca un malore a un’anziana signora, e il frammento, come la vecchietta, si conclude così: “è ormai il tramonto quando sopraggiunge un bagnino con un’ascia, la taglia in sei parti e la butta in un cestino”. Alla cruda violenza fisica, Gori alterna quella delle parole e dell’egoismo umano e,  a queste,  seguono situazioni così intime e patetiche da generare imbarazzo. Alcuni brani sembrano freddi esperimenti di uno scienziato sadico, come se l’autore mescolasse sostanze pericolose solo per vedere fino a dove può spingersi, senza sapere che risultato otterrà; Altri testi sembrano scritti da un computer in panne, o da un bambino che dopo aver fatto un disegno ci scarabocchia sopra: “Per il nervoso spacco una statuina a forma di falco” scrive nel brano “Bannato!”; A volte invece si è in un nostalgico film di Virzì, uno un po’ strano, certo: “A casa mia Paolo Villaggio era bandito. Mio babbo, direttore della sede centrale della Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, era convinto che la visione dei suoi film avesse il potere di rendermi un giorno un fallito” (“Un fantastico tragico Villaggio”). 

Se si ride leggendo lo si fa in modo inaspettato e liberatorio. Può essere liberatorio per qualcuno, attribuire al virus Covid 19 le sembianze di un felino grassoccio che tenta di infiltrarsi nello Spallanzani, come nel brano “Tempesta di chitocine: “(…) eccone uno, silenziosissimo appena dietro di noi, che sta brucando dell’erba medica dall’aiuola del Pronto Soccorso”.

 In questi testi lo scrittore moltiplica i riferimenti, lascia intravedere un universo, attraverso un lessico forbitissimo che mette al servizio di dettagli infinitesimali. Rende la lingua viva. Un esempio di come lo fa in questo libro, sono i brani in cui sviluppa dei testi di classici romantici della canzone italiana, come “Una Faccia Pulita” di Baglioni: “Ci provavo gusto, e chi s’è visto s’è visto” fa Claudio Baglioni. “Ci provavo gusto, a dirla tutta, nel vedere quegli artigli che dilaniavano le carni della sguattera e le sparpigliavano nel locale” scrive Gori. Il suo è un esercizio di fantasia che risulta onesto e senza compromessi, una libertà che qualcuno potrebbe definire ostinazione.

Come in Joceyln Uccide Ancora, la precedente raccolta di racconti, ritroviamo parabole bibliche, barzellette, poste del cuore; manuali di istruzioni per l’uso di oggetti o descrizioni ossessive di prodotti e alimenti. Gori è fedele alle sue passioni, alle sue formule e ai suoi testi: alcuni di quelli inclusi in Confessioni sono stati scritti anni fa, come “Le ragazze dell’Arezzo Wave”, un testo di culto tra i suoi seguaci, nel quale l’autore racconta i suoi deliri di pre-adolescente in subbuglio ormonale, quando si immaginava gli amplessi nel campeggio del festival. Alcuni tra questi sono passati su canali e media diversi, su Facebook, nei live, in TV, sui giornali. Questa ripetizione diventa ipnotica. Assume le sembianze di una profezia o di un memento, ma l’autore ha più volte sottolineato che non vuole portare il lettore da nessuna parte. Nell’annunciare la profezia, Gori resta in uno spirito di constatazione e contemplazione, non è mosso da animosità.  Il lettore viene messo di fronte agli orrori e alle vulnerabilità dell’uomo, e alla fine di questo viaggio, non trova la condanna ma un generale senso di compassione. Prendiamo la fine del libro: il penultimo brano chiude lo scambio tra la cantante degli Scissors Sisters Ana Matronic e il presidente del consiglio superiore di sanità Franco Locatelli, con una nota di speranza. È un respiro di sollievo dopo i precedenti passaggi della loro corrispondenza, con la quale si apre il libro, che vedevano Locatelli mostrarsi vulnerabile, per poi venir deriso dalla star. All’ultima mail del primario risponde la sosia di Matronic, che colpita dalle sue parole lo invita dolcemente a continuare a scriverle. La raccolta si conclude con “Letti” un brano di universalismo e uguaglianza: “erano sterminati deserti di gommapiuma, dove galleggiavamo al sicuro dai giorni, dalla fame e dalle verità che sarebbero state”. I letti che descrive, quelli in cui abbiamo gioito e sofferto sono gli stessi per tutti, fino alla fine. 

Certo, parlare di pedofili, assassini a sangue freddo e impostori per poi chiudere con l’uguaglianza potrebbe essere tacciato di “problematico”. Il contenuto e i toni di Gori infatti sono stati criticati più di una volta. Daniele Luttazzi in una serie di tweets lo accusò di praticare una comicità “fascistoide”, e di recente l’autore ha affrontato un processo per diffamazione da parte di Piera Maggio, madre di Denise Pipitone, la bambina scomparsa a Mazara del Vallo nel 2004. Maggio riteneva che l’autore offendesse lei e la memoria della figlia, in una serie di status ironici pubblicati su Facebook in cui veniva menzionata: “Piera Maggio, madre di Denise Pipitone, nuovo volto dello spot Lerdammer” è un esempio. Il processo si è concluso con l’assoluzione di Gori perché il fatto non costituiva reato, ma la questione ha sollevato un dibattito sulla libertà e i limiti della satira, dividendo in due, e anche in tre, il mondo culturale. L’avvocato di  Gori, durante l’udienza disse che quella dell’autore voleva essere: “una critica nei confronti del sistema televisivo che strumentalizza il dolore di una madre per la scomparsa di sua figlia”.

Se si analizza il suo procedimento umoristico infatti, come ha fatto Francesco Pacifico in un testo in difesa all’autore sul Tascabile, ci si rende conto che Gori utilizza personaggi reali come simulacri, in modo iperreale, al fine di comporre un “ collage decostruzionista” sulle perversioni del linguaggio dei media e sul nostro rapporto con quest’ultimi. In questo dipinto i nomi si equivalgono, non c’è differenza tra Tiziano Terzani e il Mandorlato Mainardi. Gori fa emergere la pornografia della sofferenza per creare audience, la pochezza di un certo tipo di ironia dilagante sui social, il narcisismo che si nasconde dietro la falsa modestia di intellettuali e personaggi dell’élite culturale. Anche il brano “Bannato!” nel quale l’autore parla di sé, diventa un’occasione non tanto per rispondere alle critiche che gli vengono mosse nella vita reale, quanto piuttosto per deridere il virtue signalling dei personaggi pubblici sui social. Nel testo Gori dice di essere stato bannato per aver scritto: “tre anni fa, due commenti con la parola “froci””, e prosegue: 

“Proprio a me, antiomofobo per eccellenza. Del resto non ho mai fatto mistero di aver avuto nella mia vita più di ottomila uomini. E l’ho sempre detto serenamente in quanto serenissimamente etero” 

e la considerazione sfocia nell’insensatezza: 

“L’ho sempre fatto così, per sfogo e per goliardia. Mai perché mi piacesse un uomo. Mai, nemmeno una volta. Nel frattempo purtroppo, la mia passione colpevole per le donne. E pure lì non mi vergogno di dire che di ragazze ne ho avute più di una. E nemmeno mi piacevano tanto. Lo facevo solo per placare la mia tonitruante eterosessualità”.

 

Gori non cerca di giustificarsi del suo procedimento umoristico, al contrario lo ribadisce. Anche il brano “K.”, che si presenta come un’analisi dell’opera di Kubrick, sembra una dimostrazione di quanto possa risultare vano il tentativo di giudicare l’opera di un artista in funzione della sua vita privata: 

“L’arte di Kubrick è l’atto purissimo di un talento senza ombra alcuna, se non quella che alcuni critici individuano nel fatto che il regista defecava nel bidet. Questo perché amava sentirsela “morbidina contro le natiche”.” 

Questo brano mette in risalto alla perfezione uno degli argomenti preferiti dello scrittore, vale a dire l’incapacità di avere un giudizio equilibrato nei confronti degli artisti. Quando non sono demonizzati per dei dettagli delle loro vite private talvolta insignificanti, questi ultimi vengono messi su piedistalli in oro broccato. Un esempio di questo emerge nel brano “I buoni maestri”. L’autore si “balocca” con una ragazza adolescente nella sua cameretta mentre i genitori soddisfatti li ascoltano dal salotto:

 “Intanto la mamma lavora a maglia guardando la Gabanelli scatenata a Furore e sogna che io, intellettuale autorevole (anche più di Sergio Zavoli), faccia diventare la figlia una poetessa sui navigli, una scrittrice di thriller dell’anima o come minimo editor di Castelvecchi, e si chiede se le ha insegnato bene a fare i migliori sgonfiotti del vicinato”. 

Se vogliamo parlare della persona di Gori, possiamo dire che il punto di vista che offre non sia quello preferito dalle ultime generazioni: è un uomo adulto, che parla spesso e volentieri della vita in Val Di Chiana, appassionato di giochi da tavola. Ostenta un rapporto felice con il consumismo e non fa niente per attirare le simpatie dei e delle adolescenti, anzi, nel libro c’è anche un brano nel quale imita il linguaggio della tipica influencer impegnata, “Profumi e balocchi”: 

“E non sanno un cazzo di noi giovani e non gliene frega un cazzo de capì, non sanno del poliamore, no strings attached, non sanno dei money slave, dee bottigliette d’allumigno invece daa prastica demmerda”

Eppure Gori ha poco a che fare con lo spirito cinico del “politicamente scorretto” che circola in diversi ambienti di Internet, né con la bieca noncuranza dei discorsi di certi esponenti politici. L’operazione letteraria di Gori trascende la politica e tenta di descrivere la pura umanità, e il corso tempo. L’unicità di questo autore, si dimostra essere ancora una volta quella di riuscire a essere contemporaneo e nostalgico insieme: contemporaneo, nella misura in cui la sua opera riproduce la frammentazione e il rumore di internet in un modo unico. Ci descrive l’assurdità del mondo in cui viviamo proprio come, anche se in un modo diverso, fanno i meme, che sono il linguaggio più contemporaneo che esista. Nostalgico e contemporaneo, perché ci parla di un’Italia che in teoria si è persa, ma i cui capisaldi perdurano ancora oggi.  Ci parla del preistorico Euroconvertitore di Berlusconi, il quale è ancora seduto in parlamento. Ci parla di brand italiani scomparsi, ai quali però ne sono stati sostituiti di nuovi e più cattivi, e di star italiane degli anni ’80 che ancora concorrono a Sanremo. 
Si capisce allora perché Giunta, in quel famoso articolo di Internazionale, abbia pensato di includere Alessandro Gori nelle antologie per il liceo, nel tentativo di far luce in quella penombra, e non si può che dargli ragione.

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