In copertina: Francesco Conti, Topografia meridiana, fermata del bus, Torre Chianca (Lecce), 2009.
di Lara Gigante
Spazi che facciano da cerniera tra abitazioni e luoghi condivisi e pubblici emergono come fattori in via di diffusione nel Salento. La rinascita di pratiche comuni su una “terra cartolina” sembra fare da contraltare all’erosione geo-culturale del territorio e, grazie all’operato di curatori indipendenti e collettivi artistici interessati a riabitare l’urbe e la sub-urbe, si sta riscrivendo un nuovo capitolo, lontano dal rimorso di Ernesto de Martino e più vicino alla consapevolezza dei luoghi. La nuova cartina tornasole si costituisce grazie ad esperienze culturali e di condivisione che non prediligono il solo periodo estivo, ma che da questo sono ripartite dopo il fermo obbligato. Il Salento del 2020 non si limita, perciò, ad essere solo quello esposto da una nota casa di moda sotto le luminarie “ricamate”, tra polemiche calcolate e accoglienza edonistica post-pandemia. Tra semplici case, spazi indipendenti e un recente recupero, se pur ancora parziale, anche degli spazi istituzionali, esiste una “primogenitura” (per citare un abiurato Ferretti sul palco di una notte della taranta di una decina di anni fa) alle prese con un rinnovato senso di comunità. Non solo cartoline, quindi, ma la mappatura di una vita culturale che non vive di esclusivismo, popolo minuto, popolo grasso, plebe ed emarginati, ma sviluppa percorsi nella realtà tagliata fuori dall’inquadratura abituale.
SPAZI ESPOSITIVI IN LUOGHI DOMESTICI
A fine luglio, mentre l’evento patinato Dior rimbalzava la salentinità monumentale nelle stories in mondovisione, a Lecce è stato inaugurato Spazio su: uno spazio indipendente per le arti e la cultura visiva, nato sulle scale che portano all’ultimo piano e all’abitazione degli ideatori del progetto, Grazia Amelia Bellitta e Gianni D’Urso. L’ambiente, con cui i due artisti pugliesi hanno pensato di dare un valore aggiunto alla loro spesa d’affitto mensile, si insinua tra lo spazio domestico e l’immediata contiguità con l’esterno e, illuminato da un finestrone che affaccia sul giardino signorile di età barocca, ad uso esclusivo dei proprietari, riscatta la sua vocazione a luogo di comunità, diventando contesto per public program. Giovani artisti del panorama nazionale vengono chiamati per interventi site specific sollecitati a ragionare la propria pratica artistica in uno spazio così inusuale e perimetrato. Ad inaugurare il progetto l’intervento di Matteo Coluccia in cui due performer occultati all’interno di due sfere in gommapiuma rosa, fornite di lunghi e sventolanti peli sintetici – chiara allusione a due testicoli – consumavano sigarette nella sequenza circolare di accensione, combustione e spegnimento, accompagnati da quello che sembrava un irrefrenabile impulso a muoversi a saltelli sulle scale. Quando il piccolo passaggio è diventato cieco e irrespirabile a causa della densa coltre di fumo, la performance, al colmo dello stremo di pubblico e performer, è terminata. Piton de la Fournaise, il nome di un vulcano dall’intensa attività esplosiva, ha ispirato l’azione performativa dell’artista, che ha concentrato l’attenzione sulla carica espressiva del presente, sminuendo la centralità dell’individuo. L’evento ha delineato gli intenti del project space in cui non sono i soli linguaggi dell’arte al centro della ricerca, ma il pensiero e le pratiche contemporanee, elaborati attraverso l’ibridazione di discipline e media.
Il bisogno di rinegoziare spazi e discussioni attraverso cicli culturali ampi e intersezionali, trova risposta dal 2018 in Studioconcreto, ad opera della curatrice Laura Perrone e dell’artista visivo Luca Coclite. Collocato all’interno di un’abitazione nell’agglomerato di case popolare di Lecce -case INA, ha lo scopo di sollecitare riflessioni condivise sul paesaggio e il coabitare. Con la mostra I-We- Yes di Claire Fontaine, Studioconcreto ha riavviato quest’estate le attività all’interno del programma “performance di parola tra gesto e architettura”, ciclo di incontri ispirato alla pedagogia radicale e all’esplorazione dei linguaggi. La mostra personale dell’artista collettiva ha considerato le condizioni contemporanee della comunicazione, nell’ottica del suo valore politico, attraverso i media digitali. Un trittico di serigrafie su carta da giornale ha riprodotto alcuni dei manifesti della Parigi occupata del ‘68, invadendoli però con simboli e loghi di social e media odierni universalmente noti. “I- we- yes” costituisce non solo il senso delle serigrafie tripartite, ma svela l’artificialità della comunicazione digitale. Si riferisce, infatti, al testo predittivo proprio degli smartphone, che appare sullo schermo del telefono prima di iniziare a scrivere un sms in inglese. Il gruppo di parole sollecita non una locuzione sensata, ma condizona una forma di pensiero. Il media materico prescelto è la carta di giornale, che nella sua precarietà costituisce il supporto delle serigrafie ed anche il suolo dello spazio espositivo, contrastando la neutralità di uno spazio “bianco”. Il vernissage è stato accompagnato da una lecture dell’artista, basata su brani tratti da “The Undercommons” di S. Harney, F. Moten, focalizzandosi su concetti come intersoggettività e condivisione fisica di spazio a difesa del valore politico, proprio come la strada di fronte allo spazio espositivo.
Le attività del public program, interessato ad approfondire la riflessione sulla tematizzazione dei luoghi, sono proseguite con contributi scanditi in tre giorni di laboratori e incontri sempre aperti al pubblico.
Del paesaggio visibile, invisibile e biotico si sono interessate la curatrice Roberta Mansueto (takecare) e la performer e danzatrice Marta Olivieri attraverso un laboratorio, aperto a chiunque volesse parteciparvi, di eco composizione tra corpo e testo. Letture di testi estratti da Susan Griffin, a Donna Haraway, daLaura Pugno a J. L. Nancy e semplici esercizi corporei nello spazio comune delle case INA hanno costituito l’esperienza di coabitare i luoghi e riscriverli secondo un’esperienza personale.
Una “lezione popolare”di storia dell’arte per giovani e adulti, a cura del critico Pietro Gaglianò, ha posto in forma di conversazione sul suolo pubblico, percepito come comune, il tema del tempo e della sua relazione con il lavoro, sollecitati da immagini e video di opere d’arte.
Rooftop Landing ha concluso il ciclo con la costruzione di un paesaggio effimero ad opera del collettivo Post Disaster (Taranto), che trasforma i tetti in habitat per pratiche temporanee e istantanee. Questa volta il paesaggio è stato realizzato dall’interazione tra i corpi dei partecipanti e grandi rotoli di alluminio, fatti scorrere da un angolo all’altro del tetto. Un paesaggio modellato, istantaneo, mutevole, costituito dai corpi come elementi strutturali, scolpito anche da totem in fero e pvc recanti estratti da “ Il conflitto democratico” di Chantal Mouffe, come: “Se il consenso è senza dubbio necessario, deve essere accompagnato dal dissenso”, testo che riconosce nell’arte lo strumento con cui sovvertire l’apparenza armoniosa capitalista, .
Prima Casa ha costituito, invece, l’inaugurazione della formella policroma apposta sul retro di Studioconcreto, simbologia architettonica mutuata dalla pratica che il piano di edilizia residenziale pubblica prevedeva, con la sigla INA. Al suo posto, il collettivo Casa a Mare ha raffigurato plasticamente un albero sotto al quale sono collocate due panche, sintesi di spazio comunitario abitabile e concetto di spazio e architettura, infatti ispirata ad una fotografia di Ettore Sottsass.
La rassegna è terminata con Unauthorized Reproduction for Functional Purposes: due dispositivi, composti da moduli in acciaio, nella giuntura tra architettura funzionale e oggetto rappresentato come opera, che fungendo da espositori, a opera del collettivo Plstct raccoglie l’intera serie editoriale di tutti gli interventi ospitati.
Ci si sposta dal capoluogo alla provincia, rimanendo in un circuito di case private, per “fare giardinaggio delle arti visive”. È l’invito concettuale con cui il curatore e storico dell’arte Giuseppe Amedeo Arnesano ha presentato il suo spazio, alla periferia di un paese industrializzato del nord Salento, Trepuzzi. Giardino project, nato dall’esigenza di trovare un piccolo perimetro “verde” dove condividere confronto critico e politico, altro non è che il patio antistante l’abitazione dell’ideatore. L’inaugurazione, nella prima settimana di agosto, è avvenuta per mano dell’azione performativa “A tu per tu con Tutankhamon” di Stefano Giuri (Toast project space, Manifattura Tabacchi a Firenze); un battesimo in una messinscena in cui due performer, vestiti da preti armati di pistole fluo, hanno sparato acqua sulla targa apposta all’ingresso della casa recante, come nella migliore tradizione da monumento sovietico, il nome del “benefattore” e l’obiettivo edificante per la comunità. E’ la possibilità che l’arte ha di essere in relazione con il mondo, di creare dibattito al di là della sua fisica rappresentazione, il nodo d’interesse dello spazio indipendente, che coincide con la ricerca dell’artista chiamato a intervenire. Così il format, che prevede una residenza di tre giorni degli ospiti invitati, ha avviato la sua prima rassegna ispirandosi alla descrizione del giardino secondo la letteratura di tradizione persiana- sassanide, le mille e una notte, titolandosi “Volume0. Sui rami di quel microcosmo risuonano motivi aerei”. Da qui viene ricavata la percezione del giardino come microcosmo dove, nello spazio tempo di una giornata, si svolgono azioni efficienti per un ecosistema. Allo stesso modo, il giardino di una casa in periferia offre luogo e tempo per campi di indagine e confronto, presentazione di esperienze comunitarie. Sotto questo segno, il secondo appuntamento con Caterina Molteni (assistente curatore MAMbo) è stato “Pensiero che profuma di terra”, una lecture incentrata sull’esperienza di “Bagni d’aria”, scuola di autoformazione in una casa di montagna a Frassinetto (TO) ed estesa per fiumi e per valli. L’esperienza, che si ripete ogni anno, vuole allenare al pensiero e alla progettualità attraverso pratiche condivise e attività che ogni partecipante propone agli altri per riflettere su dinamiche e fattori storici e sociali, immersi in un contesto naturale. Ha generato un inevitabile confronto con le attività promosse dalla Fondazione Lac o Lemon, a San Cesario di Lecce, nata nel 2015 ad opera degli artisti Emilio Fantin, Luigi Negro, Giancarlo Norese, Cesare Pietroiusti e Luigi Presicce, attivi come collettivo Lu Cafausu. La sede fisica è una dimora immersa in un ettaro di campagna che si presta a luogo di sperimentazione e formazione artistica, attraverso residenze a carattere laboratoriale, comunitario, volto alla valorizzazione e alla conoscenza del paesaggio, in cui si interviene attraverso l’osmosi fra discipline e competenze differenti quali musica, teatro, performance, arte, scienza, letteratura e antropologia.
SPAZI INDIPENDENTI, LABORATORI, GALLERIE PRIVATE
L’operato di questo riscatto culturale non è solo ad opera di salentini o pugliesi. Tornando tra le mura di Lecce , in un palazzo dell’antica zona giudaica si trova Progetto, fondato e diretto dall’artista statunitense e curatrice indipendente Jamie Sneider. Attivo dall’estate del 2019 ha ospitato interventi e personali di artisti di fama internazionale quali ektor garcia, Nina Canell, Robert Watkins e Anna- Sophie Springer. Anche qui gli artisti vengono invitati in residenza perché il loro intervento site- specific sia intimamente in relazione con una prioritaria esplorazione del luogo e poi con una formulazione interattiva con l’ambiente e la rilevazione dei suoi fattori sociali e storici. Le attività dello spazio hanno riaperto al pubblico con Michael Dean, artista che sarà ospite ad ottobre, con il reading di Eden Eden Eden, controverso testo di Pierre Guyotat sull’abuso brutale delle prostitute, durante la guerra civile nel deserto algerino. Il testo, reso noto anche dalla petizione firmata da Pasolini, J.P Sartree, Simon De Beauvoir, conobbe una forte censura fin dalla pubblicazione nel 1970, e ne fu sempre impedita la diffusione, a cui invece adesso ha aderito Progetto, insieme ad altri 50 musei e fondazioni. L’artista veicola la sua parola vagando nelle luminose e ampie sale, rendendo il linguaggio corpo vivo, facendosi tramite di carne per la parola che lo abita, lo scuote e lo spinge ad appoggiarsi alle pareti, come elemento architettonico che cerca raccordo per erigersi a struttura.
Uscendo poco fuori le mura e inoltrandosi poco più in là di un anello stradale, si trova San Pio, quartiere popolare che di barocco e di fasti rococò ha poco, ed è intriso di storie di rinascita e ripartenza. È tra le sue strade che ha sede PIA – a circulating place for artists and curators, spazio di ricerca e produzione nato nel 2017 ad opera della curatrice indipendente, Valeria Raho e dell’artista, Jonatah Manno. Al suo interno ospita una scuola di alta formazione sulle arti visive e gli studi curatoriali, che si fonda sui principi di critica frontale, interdisciplinarietà e del confronto dialogico, a cui si accompagnano attività di mentoring con ricercatori, artisti e professionisti del settore. Scorrendo lo sguardo sui nomi ospitati si intuisce la peculiare vocazione sperimentale di questo progetto aperto alle collaborazioni sia con realtà indipendenti sia con istituzioni. Tra gli ospiti di questi due anni di attività si trovano personalità dal mondo delle arti visive internazionali come Emre Huner, Vabianna Santos, Baseera Khan, Giulio Squillacciotti, sino alle attese collaborazioni 2020, Nina Canell, Robin Watkins e Caterina Riva.
Che i linguaggi si possano creare dalle periferie in un crescendo di consapevolezza è evidente continuando a girare nel quartiere, dove un altro giovanissimo spazio, Cluster8, ad opera di Mauro Curlante, Valentino Curlante e Veronica La Greca, è attivo come laboratorio calcografico aperto a studenti dell’accademia, ad artisti che abbiano bisogno di sperimentarsi con torchio, stampa e editoria d’arte.
La prima mostra realizzata è stata “Affondo” di Giulia Seri, riconosciuta artista nel panorama italiano per la ricerca nella tecnica incisoria. Il segno e il taglio hanno costituito il racconto intimo dell’inchiostro su carta, strutturando il paesaggio interiore dello sguardo dell’artista sul mondo. Tra stratificazioni e processi di sovrapposizione, l’immaginario prende forma tra i toni del nero, bianco grigio e seppia, in cui si muovono figure similmente umane, tra deformità e potenza in atto. L’impianto figurativo è stato accompagnato da installazioni disposte su un tavolo, come pronto alla vivisezione: un contenitore aperto, contenente vetrini per cellule, svelava a fianco un elenco di sezioni del corpo trascritti da grafia infantile, cofanetti in legno e piccole campane in vetro, contenitori di riproduzioni plastiche di organi e parti del corpo.
La necessità di divulgazione dell’arte grafica incontra l’opportunità di farsi interpreti della realtà, proponendosi come host di progetti culturali nel e per il quartiere.
All’interno dello stesso quartiere nel garage di un cortile condominiale, da tre anni il collettivo indipendente Kunstschau contemporary place ha creato una piccola whitecube dove porta l’arte contemporanea nazionale. Il collettivo, oltre a realizzare qui bi-personali a cadenza quasi mensile, è inoltre interessato a riabitare gli spazi ufficiali, anche con mostre adeguate ad un grande pubblico,come con l’antologica di Riccardo Mannelli e quest’anno con le personali di Gianni Leone e Massimo Sestini al MUST e al Castello Carlo V.
Nel cuore della città lo spazio dedicato alla fotografia contemporanea, LO.FT , fondato da Alice Caracciolo e Francesca Fiorella ha negli ultimi anni fatto da connettore culturale e luogo fertile per le arti visive, estendendendo il suo interesse verso l’arte contemporanea. Personali, bipersonali, eventi e presentazione di editoria d’arte, con la curatela di Alice Caracciolo hanno esercitato una progettualità ampia e svincolata da categorizzazioni. Il panorama delle arti visive e della ricerca, con artisti nazionali, ha trovato campo fertile grazie ad un approccio interdisciplinare ai linguaggi contemporanei.
Bisogna fare un salto un po’ più fuori da Lecce e arrivare a Galatina- cuore dei tarantati protetti dai suoi santi Pietro e Paolo – se si vuole visitare un altro luogo per le arti visive contemporanee: Gigi Rigliaco Gallery, molto attivo grazie al suo omonimo fondatore. Lo spazio, all’interno di un seminterrato che, da fine agosto ha ancora in mostra Km 0 di Massimo Ruiu, a cura di Carmelo Cipriani. La questione paesaggio sembra continuare, al di fuori di intenzioni programmatiche, sfociando in un discorso artistico più intimo e mutevole. Il corpus di opere esposte, scelte all’interno di una produzione che va dal 1996 al 2020, si connota per diversità di tecniche e media. Si delinea una topografia esistenziale, scandita dal senso di precarietà e mutevolezza, rappresentata da elementi organici – come piccole chiocciole in letargo disposte sulla parete a formare una lunga ellissi – ed elementi materici, come proiettili in piombo a tratteggiare figure di animali selvatici ribadendo la percezione di un senso di perdita e di minaccia. Un paesaggio ancora una volta di un sud qualsiasi, tra oggetti puntati come meridiane, a sintetizzare iconicamente la questione meridionale per mezzo di un cucchiaio con inciso nord sul manico e sud nell’incavo, e la costante presenza del mare e delle sue forme di vita. Un percorso forse incalcolabile, a kilometraggio 0, come reca il cippo miliare di pietra, metafora di un’appartenenza selvatica ai luoghi.
Sono le urgenze del vivere comune ad emergere da un territorio non più sazio di memoria ancetsrale e un patrimonio storico da subire come memoria schiacciante. Il Salento prova a ricucire i lembi , non nascondendo i segni, ma valorizzando i suoi paradossi. E lo fa ripartendo dal paesaggio dietro gli abusi in calcestruzzo, attraversati dalla spaventosa gentrificazione che ha ridotto, negli anni, i centri storici a mangiatoie a cielo aperto, dove consumare pasti e bevande è l’unico imperativo possibile. Recupera il suolo pubblico, rimasto nell’angolo e occultato oltre che da una certa proverbiale inedia soprattutto dall’imbarbarimento delle coste, dalla svendita di terra e mare per un tubo di gas azero che ha condannato i suoi stessi concittadini per aver provato ad impedire l’abominio, dall’accidia indolente della xylella che ha reso il paesaggio millenario un inferno superno.
“Là fuori carcasse d’auto sfasciate giacevano capovolte come testuggini riverse sul dorso, ed erbacce di ogni genere infoltivano le asperità della piana formando giganteschi grovigli di rosticcio nei quali divani sventrati e vecchi frigoriferi proliferavano.”
Non è superato lo scenario qui descritto da Omar di Monopoli in “La Perfida terra di Dio”, piuttosto il paesaggio attuale si forma attualizzando tutti gli elementi. I segni della rovina e dell’incuria non negano trascorsi drammatici e attualità conflittuali, ma appaiono come un’intelligenza unitaria che non è retoricamente rivolta ad un futuro da mondare, ma si impegna a costituire il presente. Allora non una colorata, opulenta e gremita cartolina in stile Martin Parr, ma una mappatura arteriosa profonda, più simile alla radiografia di un corpo sofferto e mutante.