Hijab, femminismo e superpoteri

In copertina: tavola tratta da Qahera, di Deena Mohammed

di Valentina De Brasi


In un giorno d’estate del 1923, un treno entra nella stazione di Alessandria d’Egitto; tra i passeggeri ci sono anche due amiche di ritorno da Roma. Il treno si ferma e le due donne scendono; sul binario, di fronte alla folla in attesa, una delle due – il suo nome è Huda Shaarawi – si scopre il capo, togliendo il velo che le avvolge i capelli. Lo stupore generale è immenso. È la prima volta che una donna compie un gesto del genere in pubblico, ma la cosa ancora più sorprendente è che molte su quel binario la imitano all’istante. La sua scelta, che “si propaga da una città all’altra” come riporta L’Egyptienne, diventa un simbolo e provoca un cambiamento nel costume femminile.

Deena Mohammed è una ragazza egiziana; ha diciott’anni, disegna, frequenta l’università. Un pomeriggio si imbatte in un articolo sul ruolo della donna, sul posto che la donna musulmana deve occupare nella famiglia e nella società. Deve stare a casa. Deve servire il marito e comportarsi bene.
Sono parole che la fanno arrabbiare e instillano in lei la voglia di dire la sua e spiegare al mondo che, no, le donne musulmane non sono oggetti da collezionare, né mancano di spirito d’iniziativa; non sono donzelle speranzose di esser salvate; che indossare un velo sul capo non è per forza sinonimo di sottomissione. Può essere una scelta.


In un giorno d’estate del 2013, un treno entra nella stazione del Cairo. Il binario su cui si ferma questa volta è immaginario, le sue rotaie il tratteggio della matita di una giovane donna.
Nasce così Qahera, fiera oppositrice del patriarcato e dei luoghi comuni che da sempre accompagnano la religione musulmana. Nella prima e nella seconda striscia di questo webcomic, pubblicato inizialmente sulla pagina Tumblr dell’autrice, ciò appare immediatamente chiaro: con la katana e il suo super udito Qahera, la vittoriosa, combatte per distruggere l’immagine della moglie docile e afona costruita dagli uomini, ma sostenuta anche da quelle femministe civilizzatrici per cui l’Islam è solo una catena che è loro dovere spezzare e il femminismo un movimento da trapiantare in quell’Oriente esotizzato e giudicato, al contempo, lascivo nei piaceri e morigerato nei costumi. Come mostrato alla fine delle prime due tavole, il destino a cui vanno incontro entrambi i gruppi è lo stesso: una volta conosciuta la furia di Qahera vengono appesi a un filo, diventando essi stessi bisognosi di soccorso. 

Questa dicotomia di estremismi contro cui la supereroina combatte è intuibile già dall’uso esclusivo del bianco e nero per i disegni. Come è netta la posizione di Qahera quando si tratta di combattere le ingiustizie e gli stereotipi riservati alle donne musulmane, così sono netti i colori dei disegni che ritraggono i suoi nemici. Questo contrasto di nero e bianco, però, non include la stessa supereroina: a lei, infatti, è riservato il grigio, perché la sua identità di donna in evoluzione è ricca di sfumature. Qahera rifiuta la posizione di moglie sottomessa proposta dai musulmani più integralisti e, al contempo, rifiuta l’idea occidentale per cui le donne musulmane sono perennemente in cerca di aiuto. Si pone come alternativa a queste due fazioni egualmente svilenti, mostrando alle donne e agli uomini le sue capacità e la sua voglia di migliorare la condizione delle donne e dell’ambiente in cui esse si muovono. È un’alternativa allo standard convenzionale, ma un’alternativa possibile, che lei stessa sta già praticando, rifiutando che la sua condizione di donna indipendente sia sancita dalla presenza o meno di un velo sul capo. 

Qahera combatte con i suoi superpoteri e una lingua tagliente; nel farlo indossa sempre l’hijab, quello stesso velo che Huda, novant’anni prima, ha tolto per dichiarare al mondo di poter decidere da sé quale parte del proprio corpo scoprire.
Ciò che indossa Qahera non è un costume, né un travestimento; è parte integrante della sua identità in divenire. Il velo, Deena Mohammed ci tiene a mostrarlo in tutti i disegni, non la rende meno donna, meno libera o meno intrepida. “L’aspetto della maggior parte delle donne egiziane è questo”, ha affermato, “tuttavia non è il modo in cui vengono rappresentate”. Da qui il bisogno di creare un personaggio veritiero, che rispecchiasse la fisionomia delle donne intorno a lei senza relegarle ad inermi soprammobili.
Gli episodi del fumetto non hanno una cadenza d’uscita regolare; le brevi storie raccontate sono stralci di vita quotidiana, indipendenti gli uni dagli altri. Ciò che li accomuna è la lotta alle ingiustizie e ai soprusi subiti dalle donne per mano della società patriarcale, lotta di cui Qahera si rende portavoce, a partire dal suo corpo.

Secondo lo scrittore e critico d’arte inglese John Berger, l’aspetto con cui una donna si presenta a un uomo determina il modo in cui questi la tratterà; l’occhio maschile, infatti, da sempre ispeziona i corpi femminili emettendo giudizi insindacabili su di essi. Il webcomic di Deena Mohammed non smentisce queste parole: gli uomini tratteggiati nel suo fumetto si ritengono gendarmi dei corpi femminili e il loro sguardo inquisitore cade sugli abiti sempre troppo succinti o, al contrario, troppo poco rivelatori. Le lusinghiere descrizioni, nei discorsi come nelle canzoni, ritraggono le donne come caramelle da scartare e diamanti da custodire. “Se tu dovessi scegliere tra una caramella incartata e una senza incarto” dice uno degli uomini nella settima striscia, On Women’s Choices, mentre è seduto al tavolino di un bar con un amico “sceglieresti la prima. La caramella senza carta è esposta a tutte le cose negative, ai microbi, ai germi. Copriamo le nostre donne per lo stesso motivo per cui teniamo i soldi nel portafoglio: sono oggetti di valore!”. Dunque, la mercificazione della donna avviene non solo nel privato delle case, ma anche al bar tra amici e, come il webcomic mostra nel quarto episodio, On Protests, addirittura durante quelle occasioni che vedono uomini e donne protestare spalla a spalla per il bene comune. Durante un’affollata manifestazione, a seguito di uno scambio di denaro tra due uomini, uno di questi afferra una donna senza il suo consenso, trascinandola via. Il pagamento legittima l’atto di appropriazione del corpo femminile, che non è considerato proprietà di chi lo incarna ma, ancora una volta, di chi lo compra, anche senza autorizzazione.

Per questo, pur non indossando ella stessa l’hijab, l’illustratrice cairota è voluta partire da qui, dal corpo di Qahera coperto dall’hijab, un corpo che esiste e si muove; i suoi abiti non sono un peso, né una limitazione per lei. Con il suo corpo Qahera fa quello che vuole: lo copre, lo scopre, lo usa come scudo; ad un certo punto lo fa volare e, quando realizza che tutte le donne dovrebbero poter guardare Il Cairo dall’alto, condivide il suo potere con chi non può volare da sola. 


Qahera sceglie di combattere l’oppressione del patriarcato, così come sceglie di indossare il suo velo; sceglie di affiancare le donne, tutte, anche quelle che non le somigliano e non sono ancora pronte ad alzare la voce. Come si vede ancora alla fine della striscia sette, infatti, non sono solo gli uomini a rimanere impietriti davanti alla reazione di Qahera, ma anche l’amica Laila è inibita dai suoi toni alterati. “Le nostre scelte non sono i vostri slogan politici!”, conclude, e il tavolo ammutolisce. Una volta esposta con chiarezza la verità – le donne non sono oggetti da poter usare a piacimento – nessuno dei presenti osa contraddirla. Qahera si agita e colpisce; si arrabbia; parla, perché ne ha la facoltà: l’agency di questa donna è totale ed è impossibile metterla in discussione. Usa tutta se stessa, sempre. 

Ciò che ha iniziato Deena Mohammed in quel giugno 2013 ha avuto un forte impatto non solo sulla sua comunità. La sua supereroina parla alle donne e agli uomini d’Egitto, ma si rivolge soprattutto al resto del mondo per smontare la retorica coloniale dell’Occidente dalla splendente armatura, che salva le donne dei paesi arretrati dalla loro condizione di oblio e ignoranza. È questo il motivo che ha spinto l’artista a scrivere le prime tavole esclusivamente in inglese; solo a partire dal terzo episodio sono state postate nella doppia traduzione inglese/araba. Qahera si rivolge in primis alle paladine del femminismo white, sicure che la liberazione della donna debba partire (e continuare) esclusivamente da loro. Femminismo, sì, ma a modo nostro.

Di femminismi, invece, ce ne sono tanti in questa parte del mondo, spesso in contraddizione tra loro. Seppure non esplicitamente, Deena Mohammed e la sua supereroina con il velo si inseriscono in quello spazio femminista che non ignora l’Islam, ma lo rivaluta in quanto parte della propria cultura e della propria storia.
Il femminismo islamico non è una corrente minoritaria e, anzi, è largamente diffuso in Egitto e negli altri paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. Con il finire del secolo scorso sempre più donne si sono avvicinate al testo coranico e ne hanno preso possesso: hanno iniziato a riunirsi con lo scopo di leggerlo senza l’intermediazione maschile. In questo modo molte, tra cui studiose e attiviste, hanno concordato nell’affermare che non è il testo sacro a sancire l’inferiorità della donna, bensì la lettura e l’interpretazione maschilista e patriarcale che se ne è fatta per secoli. 

“Se si guarda al testo coranico senza la lente dei bias del patriarcato, si scopre che il Corano riconosce con forza i diritti delle donne” ha scritto una delle teologhe femministe più influenti, Riffat Hassan. Le femministe islamiche sostengono che la lettura e la conoscenza dei testi senza interferenze maschili permetta il riconoscimento della loro vera natura e di quella verità che, per secoli, la società patriarcale ha tenuto accuratamente nascosta: il Corano non riconosce la superiorità dell’uomo sulla donna, non obbliga la donna a coprirsi per andare in giro; addirittura, secondo la stessa Hasan, non vieta nemmeno l’utilizzo dei preservativi e il ricorso all’aborto. 

È un oscurantismo voluto e venerato quello che gli uomini hanno associato al Corano, ma falso. C’è liberazione, dicono le donne, non asservimento. C’è fede, non cieca devozione.
È l’integralismo che stigmatizza l’Islam e le sue scritture; è la riproduzione puntuale e schematica di ciò che esse riportano, senza tener conto degli anni trascorsi, dei cambiamenti piccoli e grandi avvenuti nel mentre.  
Qahera si inserisce perfettamente in questo Islam progressista, che non rifiuta le proprie origini e credenze e le adegua al mondo di oggi, custodendone sempre l’essenza di fondo. 

Le femministe islamiche non abbracciano posizioni conservatrici; non desiderano – come le islamiste – la costruzione di una società retta dall’Islam e dalla famiglia, in cui la donna può e deve acquisire valore solo all’interno del nucleo familiare, senza però scombussolarne l’assetto. Per loro il progresso delle donne è un diritto inalienabile e deve avvenire con una simultanea riappropriazione dei corpi e degli spazi in cui essi si muovono. Le attribuzioni spaziali di genere devono crollare: libertà, sempre, nel corpo e nel movimento. Come Qahera.

Ma queste posizioni non mettono tutte d’accordo. Per alcune il femminismo islamico progressista e la liberazione da esso professata sono illusori; specchi per allodole. L’unico cambiamento vero per le donne è l’abbandono dell’Islam e, al contempo, l’acquisizione di una consapevolezza che impedisca il risucchio nel vortice dell’americanizzazione e dei suoi prepotenti ideali di vita. A sostenere queste idee ci sono voci importanti del femminismo arabo e mondiale, tra cui quella furente di Nawal El Saadawi. Per l’autrice di Memorie di Una Donna Medico e Woman at Point Zero, infatti, la religione non è altro che un cappio messo intorno al collo delle donne; sfrutta la donna e la sua immagine; sfrutta il suo corpo, per limitarlo e castigarlo. Proprio in quest’ultimo romanzo (pubblicato in Italia da Giunti con il titolo Firdaus. Storia di una donna egiziana) una parente della protagonista la ammonisce, dicendole che i precetti della religione permettono la punizione delle mogli da parte dei mariti. “Una donna virtuosa non deve lamentarsi di suo marito”; non deve farlo mai, nemmeno quando è il marito a commettere errori. Le donne, come Nawal El Saadawi mostra con la protagonista di questa storia, pagano per i propri sbagli e per quelli di tutti gli uomini che le circondano; e la religione acconsente.

Quindi la libertà della donna, per la scrittrice e attivista egiziana, non può avvenire lì dove è presente la religione; ma non può avvenire nemmeno con l’accettazione di canoni femminili imposti dall’occidente e celebrati come liberatori. “Coprire il capo e scoprire il corpo” – afferma in una delle sue numerose interviste – “sono facce delle stessa medaglia. […] Questa concezione delle donne come solo corpo, merce per gli uomini, porta profitto nel mercato capitalista. La donna velata porta molti guadagni, allo stesso modo della donna nuda”. Entrambe le azioni si rivolgono esclusivamente al corpo della donna, usato come oggetto da nascondere o esporre; ma, soprattutto, da vendere e da cui guadagnare. Per Nawal El Saadawi non è possibile aderire ad una via di mezzo – quella delle femministe islamiche – poiché si tratta in ogni caso di asservimento inconscio ad un modello patriarcale di esistenza. O, come dice lei stessa, “di schiavitù”.

Tuttavia appare ingiusto pensare a Qahera come ad un’eroina fallace: è una donna che si batte contro l’usurpazione dei corpi femminili; contro lo stigma di essere rappresentate come musulmane e, dunque, deboli; contro il punto di vista di alcuni a cui, superbamente, non interessa approfondire la conoscenza di culture altre, ma diffondere unicamente la propria idea di libertà.  Certo la questione è complessa e non appare risolvibile nell’immediato, né probabilmente lo sarà mai. 
Il dibattito che ruota intorno al velo è enormemente stratificato (e talvolta enormemente semplificato); esso continua ad essere uno strumento di libertà per alcune e la più grande costrizione per altre. Le voci da tenere in considerazione sono molte e, quando non sostengono l’imposizione forzata di questa pratica, certamente devono essere ascoltate. D’altronde per Qahera stessa, come lo fu per Huda, non è tanto la scelta che si compie a determinare la libertà di una donna, quanto avere la possibilità di compiere qualsiasi scelta. Poter scegliere cosa fare di sé è la più grande libertà da garantire.  

Da un anno, comunque, la supereroina si è fermata, almeno temporaneamente; l’ultimo aggiornamento della sua pagina risale al 10 Aprile 2019. Deena Mohamed, però, procede spedita con nuovi progetti: dalle collaborazioni con Google e UN Women, alla sua premiata graphic novel Shubeik Lubeik, un urban fantasy in cui i desideri si vendono in bottiglia e, come le persone, sono divisi in classi sociali. “Ogni momento di ingiustizia è sempre sintomo di un problema più grande”, dice, e lei questi problemi non vuole nasconderli, portandoli alla luce nelle sue opere. Ma il ritorno di Qahera non lo esclude mai.
Probabilmente ora è in volo sul Cairo in cerca di tutti quei portavoce del patriarcato che prima le erano sfuggiti. Se siete fra loro, attenti: vi conviene educarvi e cambiare atteggiamento; Qahera non risparmia nessuno.

(Tutte le immagini nel testo sono tratte dal webcomic di Deena Mohammed, che potete leggere qui)

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