Il sessismo della lingua italiana

di Ilaria Giaccio 


L’uso dei sostantivi maschili e femminili divide l’Italia in vari schieramenti: quell* che usano l’asterisco per evitare qualsiasi gerarchia sull’utilizzo del neutro, quelli che prediligono la tradizione grammaticale e utilizzano il maschile come forma neutra, quelle e quelli che, per eliminare ogni forma di sessismo, adattano la lingua alle nuove esigenze storiche. At nova res novum vocabulum flagitat (ma una realtà nuova, richiede una parola nuova) diceva Lorenzo Valla nella metà del XV secolo.

Accettare le novità linguistiche è una questione complessa, ancora più difficile è rompere la tradizione e convincere qualcuno che la norma linguistica muta insieme alla realtà di chi la usa. Il problema in questo senso è la reazione che si ha di fronte al cambiamento: fa ridere. Tutti ridevano pronunciando “petaloso” qualche anno fa e oggi ridono di fronte alla parola “soldata”. Ma se “petaloso” ha una valenza meno politica e sociale, e dopo pochi giorni di dibattito sui social la questione perde di interesse, “ministra”, “avvocata”, “soldata”, continuano a destare ironia e stupore, a volte anche scandalo. Tuttavia una parola del gergo trap come Bufu viene segnalata nel dizionario dei neologismi in quanto rappresentativa di un fenomeno linguistico: perché allora non possiamo accettare la declinazione al femminile dei termini che vengono definiti neutri quando sono maschili?

Treccani, alla domanda “qual è il femminile di avvocato?”, risponde: «Il sostantivo maschile avvocato dispone di due forme femminili: avvocata e avvocatessa. La prima è di uso non comune, e per lo più ironico o scherzoso, con riferimento a donna che eserciti l’avvocatura, mentre è esclusiva, solo al singolare, come attributo della Madonna o di sante, con il significato di protettrice, interceditrice. La seconda forma, avvocatessa, è, invece, largamente usata per indicare, senza particolari connotazioni di registro, sia la donna che eserciti l’avvocatura sia la moglie dell’avvocato».

Anche Luca Serianni, quando parla di riassestamento maschile-femminile nei nomi professionali, sottolinea che «nella lingua comune forme del genere non siano ancora acclimatate e, anzi, potrebbero essere oggetto d’ironia», per di più, «sul loro successo incide negativamente anche il fatto che molte donne avvertano come limitativa la femminilizzazione coatta del nome professionale, riconoscendosi piuttosto in una funzione o una condizione in quanto tale, a prescindere dal sesso di chi la esercita». Insomma, utilizzare o meno termini come “ministra” o “avvocata” diventa un problema politico e sociale: il problema si pone sia per come si parla delle donne, sia di cosa il sistema linguistico mette a disposizione per riferirsi a esse.

Le riflessioni sull’uso sessista della nostra lingua, sui pregiudizi e sulle discriminazioni che, passando per la lingua, si esprimono anche nella nostra società, non sono nate da poco. Era il 1984 infatti quando Alma Sabatini, linguista, femminista, prima presidente del Movimento di Liberazione della Donna, affrontò la questione in occasione di una ricerca commissionata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri sulla parità dei sessi nella lingua, nei mass media e nei libri di testo scolastici. Il lavoro di Sabatini ha dato vita al testo Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana per la scuola e la editoria scolastica  (Roma 1986), che è confluito poi nel volume Il Sessismo nella lingua italiana del 1987. Questo saggio sensibilizzò notevolmente l’opinione pubblica, tanto che le questioni poste da Sabatini hanno innescato e precorrono i dibattiti odierni.

Alma Sabatini fa coincidere l’uso della lingua italiana con il progresso che la storia delle donne ha avuto dagli anni Settanta in poi, motivo per cui le sue ricerche da una parte sollevano il problema del sessismo dell’italiano, individuandone le forme discriminatorie, dall’altra propongono forme alternative:

La lingua è una struttura dinamica che cambia in continuazione. Ciononostante la maggior parte della gente è conservatrice e mostra diffidenza — se non paura — nei confronti dei cambiamenti linguistici, che la offendono perché disturbano le sue abitudini o sembrano una violenza “contro natura”. Toccare la lingua è come toccare la persona stessa.

Le discriminazioni invadono la lingua secondo una prospettiva androcentrica maschile e penalizzano una condizione delle donne, che non va di pari passo con un’emancipazione ormai affermata. Dunque, la lingua resterebbe uno strumento non ancora aggiornato.

Nel delineare le principali sproporzioni di genere legate all’uso della lingua, Sabatini approfondisce  il maschile inclusivo (più comunemente maschile neutro) – per cui se ci sono dieci ragazze e nove ragazzi diremo “un gruppo di ragazzi” e non “un gruppo di ragazze” – e l’uso di agentivi maschili per riferirsi a donne, soprattutto per cariche professioni e titoli, e non viceversa: per esempio, non si potrà dire se non in tono scherzoso “Piero è (una) casalinga/lavandaia/bambinaia/balia/maestra d’asilo”, si dirà invece “Piero è (un) casalingo/lavandaio/ bambinaio/balio/maestro d’asilo”. Queste osservazioni si rivelano utili se accostate alle recenti discussioni sui termini “ministra” o “sindaca”. Non dirò mai di un uomo “lavandaia” ma “lavandaio”, al contrario stride dire “ministra” e appare più consono lasciare “ministro” riferendosi a una donna. Sono passati più di trent’anni e questo discorso si rivela più che mai attuale.

L’analisi sociolinguistica di Sabatini sottolinea che soprattutto l’uso degli agentivi maschili per riferirsi a donne negli anni Ottanta era un problema sorto da poco, in quanto implicava la pratica di un linguaggio femminile che prima di un certo momento nella storia non era stato né necessario né concepibile. Le donne in passato non potevano svolgere e ambire a determinati incarichi e professioni appartenenti esclusivamente all’universo maschile. Le discrepanze più evidenti si riscontrano in ambiti dove le donne hanno avuto un accesso limitato e una scarsa partecipazione: il mondo politico e quello lavorativo. Nessuno doveva sforzarsi prima della fine del Novecento (data generica per intendere una maggiore partecipazione delle donne alle professioni e un accesso effettivo delle donne ad alte cariche politiche) di trovare un femminile per “avvocato” o “magistrato”, di donne che esercitavano questi mestieri ce n’erano ben poche. Lo stesso vale per “ministro”, “sindaco”, “chirurgo”. Il neutro è maschile perché sono ruoli che ancora oggi hanno una predominanza maschile nella loro esercitazione.

Non è un caso, allora, che il dibattito popolare sul sessismo nella lingua italiana non abbia avuto fortuna negli anni Settanta/Ottanta, ma avvenga oggi, in tempi in cui per la prima volta si hanno delle “sindache” o un maggior numero di “ministre” e “avvocate”. Da questo punto di vista l’italiano del “passato” non era sessista, ma si limitava a rispecchiare e descrivere una società che sessista lo era eccome. Oggi, invece, potrebbe essere il contrario: la lingua è sessista dal momento in cui non si adatta e non si uniforma ai cambiamenti della società.

In ambito politico un’ampia partecipazione al dibattito è stata possibile grazie all’ex Presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini, forse una delle poche, se non l’unica, ad essersi battuta per la causa. Restìo alle nuove proposte linguistiche è stato invece il Presidente emerito della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano, che si è vantato più volte «di reagire alla trasformazione di dignitosi vocaboli della lingua italiana nell’orribile appellativo di “ministra” o dell’abominevole appellativo di “sindaca”». Laura Boldrini a tali affermazioni ha risposto così: «Il presidente Napolitano ha le sue posizioni che io chiaramente rispetto, ciò detto la società cambia: cambiano i ruoli delle persone, e dunque deve cambiare anche il linguaggio. Qualche decennio fa il problema non sussisteva: le donne facevano certi lavori e non altri. Nessuno mette in discussione che non si possa dire “contadina” o “operaia”, al femminile. E allora anche quando saliamo la scala sociale dovremmo accettare che in una lingua neolatina i nomi si declinano».

Battersi per un uso non sessista della lingua potrebbe essere solo un piccolo passo per superare le disuguaglianze. Alma Sabatini ritiene che cambiare la lingua non sarebbe un errore, ma dovrebbe solo diventare un’abitudine affinché diventi norma. Le sue raccomandazioni tutt’oggi vengono giudicate con toni fortemente polemici, ma suggeriscono delle valide e compatibili alternative alle forme abituali del nostro sistema linguistico.

Sabatini ritiene giusto e possibile che il femminile non venga più utilizzato come derivazione del maschile ma che abbia una sua flessione nel linguaggio di oggi, tenendo presente che i cambiamenti linguistici soprattutto a livello grammaticale procedono molto lentamente. Così infatti si chiude il suo opuscolo Il sessismo nella lingua italiana: «Questi suggerimenti non hanno alcuna pretesa di definitività e di esaustività: gli aspetti trattati sono soltanto la punta di un iceberg, tutto da investigare. Quello che si ricerca è una riforma nel profondo dei nostri simbolismi politici, culturali, estetici, etici, che si riflettono in quella apparente superficie o parte emergente dell’iceberg che è la lingua».

Le raccomandazioni di Sabatini sono una guida concreta su come affrontare e come risolvere il sessismo nella nostra lingua. Dipende da noi (parlanti) prendere coscienza su quanto il valore linguistico svolga un compito anche psicologico e sociale: scegliere se dire di una donna “avvocata” o “avvocato”,  oppure dire “Montalcini” invece di “la Montalcini” (nessuno dice il Garibaldi) non è una scelta casuale. Bisogna solo scegliere da che parte stare.

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