llustrazione di Emma Allegretti
Per le donne della classe media, bianche, occidentali, prive di handicap, cisgender, la libertà sessuale è spesso un’illusione; figuriamoci per tutte le altre: donne o uomini, trans, queer, omosessuali, non occidentali. Su tutti questi “altri” riflette Helen Hester nel suo saggio Xenofemminismo (2019), in cui ragiona sull’eredità dei movimenti femministi degli anni Settanta e sulle teorie di genere postmoderne, per tracciare un’idea di futuro radicale e senza padroni, che si applichi a riconfigurare le politiche di genere in un mondo ormai trasformato dalla globalizzazione e dalla rivoluzione digitale.
Un libro come questo, purtroppo, deve fare i conti con la sua scarsa accessibilità: come prima cosa non si trova nelle comuni librerie, ma soprattutto interessa una cerchia ristretta di lettori, dal momento che sono in pochi a volerlo leggere e sono ancora meno quelli che lo possono capire. Lo xenofemminismo, infatti, è una dottrina complessa in cui pensieri e critiche femministe vecchie e nuove si connettono. Per afferrarne i contenuti, sarebbe senz’altro utile accompagnare la lettura con un manuale di storia e filosofia del femminismo – consiglierei Le filosofie femministe di Franco Restaino e Adriana Cavarero (2002) – dove poter leggere e approfondire le numerose citazioni e i rimandi bibliografici che accompagnano senza sosta il testo.
Inizierei col dire che la politica ibrida del Manifesto Xenofemminista del 2015, realizzato dal collettivo psichedelico Laboria Cuboniks di cui Helen Hester è la fondatrice, ci introduce ai concetti di tecnomaterialismo, antinaturalismo e abolizione del genere, e si rifiuta di «inquadrare la natura sempre e soltanto come il limite irremovibile degli immaginari emancipatori». In Xenofemminismo Hester parte da questi tre principi per accompagnarci in un futuro distopico in cui non esistono discriminazioni di genere, sesso e razza. Un futuro che passa lo scettro del potere a tutti i generi e quindi a nessuno; un futuro per cui ritengo non si possa aspettare il 2099.
Il primo di questi principi è appunto il tecnomaterialismo. Lo xenofemminismo considera la tecnologia un settore imprescindibile su cui muovere i propri interventi attivisti: ad esempio «i farmaci, la stampa, il 3D, il software open source, i sistemi di cybersecurity, e l’automazione industriale» influenzano la nostra quotidianità e agiscono sui corpi attraverso una logica di controllo e dominio dei rapporti sociali. La sinistra femminista dovrebbe, in quest’ottica, considerare le tecnologie come fenomeni sociali determinanti e studiare la complessità con cui tali sistemi di oppressione regolano i nostri mondi materiali. «Appropriarci di strumenti, conoscenze e processi al fine di sviluppare una politica di genere».
Attraverso l’impegno antinaturalista (secondo principio fondamentale) lo xenofemminismo contesta la natura e la biologia – che quindi diventano spazio politico – solo se e quando diventano un limite conservativo alle differenze di genere e razza. Esempio banale: spesso si utilizzano la biologia e il concetto di “natura” per definire cosa è normale e cosa non lo è. In quest’ottica una donna lesbica, trans, o una ragazza che vuole abortire perché non vuole avere figli saranno persone che vanno contro natura e che non rispettano l’andamento “biologico” delle cose. Scrive infatti Helen Hester: «chiunque sia stat* ritenut* “innaturale” a fronte delle norme biologiche dominanti, chiunque abbia sperimentato le ingiustizie compiute in nome dell’ordine naturale, si renderà conto che il culto della “natura” non ha nulla da offrirci – le persone queer e trans tra di noi, le diversamente abili, così come chi ha sofferto discriminazioni a causa di gravidanze o doveri relativi alle cure parentali». L’influenza di Donna Haraway, caposcuola della teoria cyborg, appare qui evidente: il disprezzo per l’armonia naturale, concepita come un paradigma rigido, non sarà un vantaggio per nessuno dal punto di vista intellettuale, emotivo, politico e morale. «Dichiararci antinaturaliste non significa disconoscere i fenomeni misurabili e\o spontaneamente ricorrenti che strutturano il resto del mondo, generano effetti osservabili e delineano gli orizzonti delle possibilità. Lo Xenofemminismo non nega, per esempio, che la realtà corporea contenga uno strato biologico, che certi corpi possiedano suscettibilità e capacità diverse […]. Ciò che invece [contesta] è l’idea che questo strato sia immutabile o fissato semplicemente perché è biologico».
Per lo xenofemminismo la biologia è e deve essere un campo riconquistato dalla teoria femminista, la natura deve essere riconsiderata come spazio politico ed emancipatorio, come rappresentazione di un mondo soggetto al cambiamento e per questo mutabile e trasformabile: «i funzionamenti di questi campi [biologia e natura] sono tutt’altro che prevedibili». La biologia non ha l’ultima parola, non è il “destino”, in quanto modellabile e influenzabile dalla tecnologia. Per questo dovrebbe essere usata per «perseguire la giustizia riproduttiva e la trasformazione del genere in senso progressista». Il genere è spontaneo, sostiene lo xenofemminismo, ma non solo, la natura è necessaria per descrivere questa pluralità. Il naturalismo in senso tradizionale va rinnegato perché non si impegna, come invece l’antinaturalismo, in una rielaborazione «proattiva ed emancipatoria dell’ordine sessuale e sessuato».
Dell’impegno antinaturalista dello xenofemminismo è causa e allo stesso tempo effetto la mobilitazione per l’abolizionismo del genere (terzo principio): relativamente a questo principio il pensiero xenofemminista si contorce su stesso. Da una parte l’obiettivo è quello di eliminare il genere per superare le discriminazioni dovute a sesso, razza, classe; dall’altra la pluralità della natura e l’accettazione di tutti i generi è il principale paradigma del Manifesto Xenofemminista. Il compromesso è una valutazione nuova del concetto di genere, una specie di riabilitazione che possa pensare il genere a partire dai principi di emancipazione e pluralità. Quando i generi si moltiplicheranno all’infinito, il concetto classico di categoria maschile e femminile, ovvero i generi che determinano i giochi di ruolo e potere, verrà superato.
Per spiegare il punto di vista xenofemminista in merito all’abolizione del genere e alla corporeità riproduttiva, Helen Hester analizza i pregi e i limiti de La dialettica dei sessi (1970) di Shulamith Firestone, uno dei testi classici e inaugurali del femminismo di seconda ondata. Secondo Firestone la differenza fisica fra uomini e donne ha stabilito un gioco di forza a discapito di quest’ultime. L’autrice insiste sui nuovi mezzi di riproduzione artificiale delle nascite per ringraziare la tecnologia e i suoi presupposti, per rovesciare i limiti della natura in questo senso oppressivi. La natura, visto che è natura, non è detto che non possa cambiare. Gli svantaggi biologici di chi concepisce, e quindi le donne, sono per Firestone il punto di fuga su cui converge il sistema delle classi sessuali. Lo xenofemminismo utilizza senz’altro le teorie di Firestone nel discorso sull’abolizione del genere, ma nel farlo accompagna una critica che non va trascurata, e cioè il limite de La dialettica dei sessi di ristringere il campo degli “oppressi” alle donne. Pensare al genere attraverso la dicotomia uomo\donna significa limitare la questione di genere ai ruoli biologici tradizionali determinati dal concetto di riproduzione.
Lo xenofemminismo riconosce innumerevoli generi e rifiuta qualunque genere come «criterio di significato immutabile», il che non vuol dire ignorare le differenze di ogni tipo, quanto non dotare il “genere” di una supremazia effettivamente limitante. Ciò che va demolita è la scarsità semantica del “genere” quando viene inteso come sistema binario che continua a considerare solo il maschio e la femmina. Ciò che viene accolto, invece, è l’affermazione del genere come specchio della pluralità sessuale: «Laboria Cuboniks sostiene l’abolizione del sistema della differenza di genere attraverso la proliferazione delle differenze: “Che sboccino un centinaio di sessi!”».
A queste tre premesse si aggiungono lunghe riflessioni sui concetti di “riproduzione” e “futuribilità”. L’autrice cita No Future: Queer Theory And The Death Drive (2004) di Lee Edelman. Nel saggio di Edelman l’idea di partenza è che per la politica e per la cultura dominanti l’immaginario standard con cui si concepisce il futuro è uno scenario fatto esclusivamente di famiglie etero- e omonormative. Helen Hester si domanda dunque: «come possiamo lottare per un futuro migliore e più emancipatorio senza affidarci al futurismo riproduttivo? In altre parole, come possiamo promuovere dei futuri xenofemministi senza affidarci a un immaginario esclusorio e controproducente, basato sul rendere il mondo migliore per i nostri figli?». Per “futurismo riproduttivo” si intende la riproduzione come unico mezzo per salvaguardare il futuro, sul piano delle condizioni biomateriali e delle norme socio-sessuali. Tra le problematiche del domani pesa come un macigno la preoccupazione che la nostra specie possa trasformarsi in qualcosa di diverso. Quello che preoccupa le politiche che sostengono la famiglia come unico credo è che la nostra specie non garantisca la similitudine biologica e sociale che abbiamo avuto fino ad oggi, che si limita all’immagine della famiglia formata da padre, moglie e figli.
La politica xenofemminista aggiunge un piccolo dettaglio, ovvero che, in questi tempi, più che la mutazione della specie, si dovrebbe valutare con maggior considerazione il rischio di estinzione verso cui noi esseri umani ci dirigiamo. I dati ufficiali delle Nazioni Unite indicano che la popolazione umana, tra non molto, supererà i 10 miliardi di persone, con i conseguenti rischi per il fabbisogno nutritivo globale, e non passano di certo in secondo piano le catastrofi imminenti che probabilmente colpiranno in nostro pianeta. È necessario allora spostare la questione verso altri temi, dare spazio ad altre esigenze: l’abolizione del genere e l’accettazione di nuove realtà diverse dalla famiglia mononucleare potrebbero in questo senso arricchire il dibattito moderno e futuro. Abbiamo bisogno di nuove soluzioni e la critica femminista in questo senso può essere utile.
Donna Haraway parla di “controllo della fertilità”: sarebbe meglio generare parentele piuttosto che bambini e ripensare delle nuove modalità volte a rinforzare una nuova concezione di intimità, socialità e solidarietà, andando oltre il legame classico della famiglia nucleare. Helen Hester, invece, parla di “culto del bambino”, che «gioca un ruolo centrale nel determinare quali vite sono una priorità, quali bisogni di quali persone sono considerati importanti, e quali corpi sono inquadrati come minacce inquinanti o effetti collaterali indesiderati nell’inquinamento». I bambini queer, ad esempio, non sono sovrani della futurità.
A differenza di Donna Haraway, le xenofemministe non vogliono ridurre le nascite quanto piuttosto sostenere e incoraggiare «un’ospitalità più sentita verso l’Altro», per tutto ciò che si è sempre escluso perché diverso e contro natura: rifiutare che il «privilegio assoluto della linea familiare possa essere recepito non più come rifiuto di genitori e custodi, ma come un atto di solidarietà con i nuovi arrivi di ogni tipo (dai soggetti migranti alle nuove figure tutrici, fino alle persone giovanissime)». In poche parole: la famiglia mononucleare, bianca, etero non può essere l’unica alternativa; bisogna pensare il genere come molteplice e accettare soluzioni nuove che oltre ad essere un espediente possibile per “salvare la specie” accettino e non discrimino tutto ciò che possa mutare i modelli tradizionalmente rigidi.
Il Del-Em
Helen Hester si serve di uno strumento a molte e molti sconosciuto, il Del-Em, per promuovere e spiegare cosa dovrebbe essere, e da cosa dovrebbe partire, la pratica e la tecnologia xenofemminista. Ideato negli anni Settanta, il Del-Em è uno strumento iconico del self-help femminista, espressione che descrive i gruppi di donne che si incontravano – e si incontrano – per scambiare informazioni, osservazioni ed esperienze relative al corpo, alla sessualità e alle funzionalità degli organi riproduttivi femminili.
In un contesto come questo era stato brevettato nel 1971 il Del-Em, un dispositivo con cui veniva praticata l’estrazione mestruale attraverso un tubo flessibile che, inserito nella cervice, avviava la suzione del rivestimento endometriale dell’utero. Le donne lo usavano come mezzo per regolare il ciclo: l’idea era quella di ridurre il più possibile la durata e il dolore del ciclo mestruale, poiché il Del-Em lo avrebbe aspirato tutto in una volta. Ma non solo: questo strumento poteva anche essere utilizzato come mezzo di prevenzione delle gravidanze, e la sua efficacia era prevista fino a sette settimane dopo l’ultima mestruazione mensile. L’idea dei gruppi femministi americani era quella di arrivare a bacini di utenza diversi e di numero maggiore, attraverso un protocollo condivisibile che registrava i partecipanti e le esperienze fatte. Il protocollo come tecnologia sociale fu l’espediente grazie al quale il Del-Em e i nuovi strumenti o tecniche abortive raggiunsero contesti lontani rispetto a quelli di chi li aveva pensati (donne bianche di classe media); anche e soprattutto per questioni di necessità maggiori. Ad esempio la divulgazione che è stata fatta dal National Black Women’s Health Project attraverso la propria rivista, ha permesso una documentazione e una diffusione nei contesti delle femministe di colore, nei quali l’aborto clandestino provocava molte più morti rispetto ai contesti delle femministe bianche.
Lo sviluppo e l’appropriazione di questa tecnologia non troppo complessa da parte dei gruppi femministi fa luce sugli forzi che sono stati fatti per sfidare una medicina restrittiva e una tecnologia spesso sessista verso l’accesso all’aborto. Anche dopo la legalizzazione dell’aborto e la sua accessibilità economica e legale, scrive Helen Hester, «le persone avevano comunque ragione di cercare altri modi per soddisfare i propri bisogni. Penso soprattutto alla casistica sproporzionatamente razzializzata delle sterilizzazioni non consensuali nel XX secolo, ma anche allo sfruttamento dei corpi non bianchi nella sperimentazione medica, ai tentativi di imporre contraccettivi di lungo termine come il Norplant e il Depo-Provera alle beneficiarie dell’assistenza sociale, e ad altre forme razziste, classiste e cisessiste di assoggettamento del corpo».
Le femministe hanno sfidato l’impossibilità di accedere ad un sistema sanitario che ha spinto le donne a cercare delle cure alternative. Lo stesso accade nelle comunità trans, dove si praticano trattamenti chirurgici e psicoterapeutici senza avere rapporti con i medici, e si passa invece per vie facilitate, a volte illegali, come l’acquisto di terapie ormonali via internet. Questo ovviamente comporta quasi sempre dei grossi rischi. Infatti la nostra priorità, scrive Helen Hester, «dovrebbe essere quella di garantire un’assistenza sanitaria riproduttiva anti-genere più sicura, più economica e pienamente accessibile». L’idea di futuro xenofemminista acquista in tale discorso la sua parte più pratica: «ampliare le competenze tecniche per utilizzare delle infrastrutture di comunicazione alternative» ed elaborare una politica di autonomia collettiva.
Il futuro che ci viene proposto dal collettivo Laboria Cuboniks avanza una nuova possibile direzione, dove una società, aliena in quanto estranea rispetto a quella di oggi, si fonda su un modello di solidarietà proiettato “all’esterno verso l’alieno, l’estraneo e la figura dello straniero, anziché una solidarietà limitata al familiare, al simile e alla figura del compatriota”.
Sfruttare la tecnologia e riflettere in maniera alternativa sulle flessioni della natura non sembrano essere obiettivi irraggiungibili. Resta necessario un solo piccolo sforzo, quello di valutare la lotta femminista contro le discriminazioni di genere come una questione che interessa il presente e il futuro di tutte e tutti, nessuno escluso. Perché quando le diversità saranno la normalità, lo xenofemminismo parlerà per ognuno di noi.