Anatomia del dandy

di Emanuele Zoppellari Perale


Preghiera al Buon Gesù perché sopprima alcuni imbecilli … per ottenere la donna d’altri… 

perché sopprima i miei nemici … per uno scherzo di cattivo genere … per non essere dannunziano.

G. Gozzano

Esiste un luogo comune stando al quale il dandy, o quantomeno il dandy italiano, sia Gabriele D’Annunzio. Da questa parte delle Alpi, viene difficile immaginare qualcuno che alla domanda «Che cos’è un dandy?» pensi immediatamente alle cravatte annodate al buio di George Brummell, detto il Beau. Senza dubbio, invece, si citeranno Oscar Wilde e il suo Dorian Gray o addirittura Des Esseintes, il decadente par excellence e protagonista del romanzo À rebours, il quale, esiliatosi in una villa inaccessibile alla volgarità del mondo esterno, coltiva i piaceri supremi, talvolta equivalenti ai più sordidi vizi, con un senso d’autoindulgenza e pulsione mortifera che a confronto le fleurs du mal sembrano violette di serra. Il paragone con i trastulli sopraffini del Vate, le sue amanti e la cocaina nell’hortus del Vittoriale è scontato. D’altro canto, l’esteta D’Annunzio è figlio della medesima cultura: i naughty nineties dell’Ottocento, l’età dell’oro dei decadenti.  

Guido Gozzano, il poeta borghese della paccottiglia kitsch e delle «buone cose di pessimo gusto», come si definì lui stesso, era più giovane del Vate di vent’anni e visse ai confini del mondo culturale su cui questi, all’epoca, signoreggiava. Gozzano, il quale a un certo punto smise di seguire il modello dannunziano, non ha la reputazione di essere un dandy – e come potrebbe essere altrimenti?

Abituati al panismo estetizzante di D’Annunzio, estrema conseguenza dell’art pour l’art di ascendenza romantica professato dall’evangelio di Wilde, non possiamo che avvertire una marcata e voluta differenza nella poetica gozzaniana, fatta di melanconiche nostalgie, di belle signore spiate al bancone dei caffè con cui non si ha il coraggio di attaccar bottone, di cocottes che per noi la vita pone eternamente dall’altro lato della cancellata. Nei colori spiccati e battaglieri delle Laudi o nell’estremismo libertino di Andrea Sperelli, l’impenitente seduttore del Piacere, ritroviamo la conferma del paradigma che associa il dandy all’eroe dongiovannesco e luciferino, l’Übermensch che della propria volontà ha fatto comandamento assoluto. Al margine di anni luce di distanza brilla fioco l’avvocato Gozzano, definito crepuscolare come la sua generazione, cresciuta nel pieno solleone dannunziano e pertanto destinata al crépuscule, alla catabasi della poesia nel tiepido mondo di tutti i giorni, che a prima vista si direbbe antitetico al lirismo.

Non è, tuttavia, che un effetto di quel luogo comune fallace e difettoso che identifica il dandy col superuomo epicureo ed ostracizza lo stoico al crepuscolo. Si tratta di vulgata secolare e incorretta che nasce da un’incomprensione radicale di ciò che sta nel cuore del dandismo. Recuperarne il carattere pieno, allora, può correggere un’ingiusta esclusione.

Se volessimo risalire alla sorgente del dandismo per coglierne il noyau dur, applicando il metodo genealogico a un fenomeno che, come un abito sartoriale passato poi di mano in mano, non si può intendere prescindendo dalla sua prima istanza, scopriremmo il capostipite unanimemente riconosciuto nel già citato Beau Brummell, che all’epoca della Reggenza di Giorgio IV rivoluzionò permanentemente il vestiario maschile. Oltrepassando i pizzi, i merletti e i colori delle corti europee che ancora costituivano l’essenza dell’abito del gentiluomo, Brummell propose la funzionalità del completo del nobile inglese di campagna – stivali, pantaloni lunghi fino alla caviglia, redingote, panciotto e camicia – come sostituto e ideale. Se si è detto che a Brummell si deve l’invenzione dell’abito moderno, ciò non è soltanto il risultato di una contingenza storica (né si tratta di una invenzione in senso stretto). A Brummell si deve l’idea di un abito della modernità. Il completo maschile affonda le proprie radici nella cultura del Neoclassicismo: lo provano il canone delle sue proporzioni, derivato dalla statuaria greca, il suo rigore di linee e contorni, che eclissa il valore di ornamenti e decorazioni («L’ornamento è il crimine» è la sentenza attribuita erroneamente al dandy Adolf Loos, che pur contiene un elemento di verità), il suo carattere tanto funzionale quanto cerebrale.   

(Max Beerbohm, Caricatura , 1894)

Fattasi archetipo, capace di ritocchi ma non di alterazioni, l’idea del completo di Brummell è ancora  l’essenza dell’abito maschile, che piaccia o meno, che lo si sappia portare oppure no. L’abito sartoriale, benché rischi l’estinzione, incarna tutt’oggi i princìpi fondatori di Brummell, alcuni dei quali persistono inconsciamente sui milioni di individui che ogni giorno indossano un prêt-à-porter. Si sbaglierebbe a pensare che dietro a questa creazione ci sia stato un artista – o meglio: se Brummell fu un artista, la sua opera d’arte fu esclusivamente se stesso. La perfezione del suo abito o la sprezzatura delle sue cravatte riflettevano la sua spietata e brillante ironia e soprattutto il suo gusto perfetto e cenobitico, grazie ai quali, figlio di figli di servi, si era fatto strada sino alle sfere più alte dell’aristocrazia inglese. Ma per il resto, Brummell non era capace di nulla, ed è facile immaginare che ne andasse fiero. Lasciò studi e carriera militare, per i quali non aveva alcuna inclinazione, non concluse mai un lavoro, non aveva talento artistico, e ai suoi occhi tutto quel che venne costretto a fare nel corso della vita fu poco più di una insopportabile sinecura. Il dandy è, non fa.

Per quel che sappiamo sul suo conto, Brummell non ebbe una donna né fu un vizioso. Amava la carne di manzo e aveva una predilezione per il Biscuit rose de Reims, nonché un debole per il tavolo da gioco che costituì parte della sua rovina, ma la sua figura non ha niente a che vedere con gli estremismi dei reprobi e dei decadenti. Brummell non era affatto un esteta. Si conquistò il titolo di arbiter del gusto, ma la bellezza non aveva su di lui il peso di un imperativo categorico. Se risultava, era un epifenomeno dell’eleganza, dell’aderenza religiosa al canone della perfezione. Ma se Brummell non fu né esteta né decadente, allora il dandy non è di necessità né esteta né decadente, al contrario della vulgata dannunziana.

Quello del dandy Brummell, e perciò di tutti i dandy dopo di lui, è un percorso austero alla conoscenza di sé. Una volta realizzatisi, si è completi, il che equivale a dire inutili, e finiti. Un’opera d’arte, specchio della completezza, non ha alcuno scopo pratico, o senz’altro lo pensavano il Beau e i suoi accoliti. Non si aggiunge una riga a un libro perfetto. Ma se in superficie il dandy sembra massimamente desiderabile per la perfezione dei suoi abiti e la certosina conoscenza di regole ed etichette, si tratta in realtà di un meccanismo difensivo. Da un lato, il dandy trascende le convenzioni aderendovi con il massimo rigore: portandole ai confini estremi, le forza e ne provoca la rottura; quel che rimane è l’individuo puro e irriducibile. Dall’altro, incapace di aderire, di appartenere, contrario per natura ma non per questo antagonista, comprende di essere destinato all’irrilevanza e alla solitudine e si veste d’inaccessibilità. Dando l’impressione di scegliere la superficialità per mascherare un’afflitta profondità, dichiara paradossalmente che non c’è alcuna differenza tra le due. Si nasconde, adottando i riti che delimitano la propria forma, ma si mantiene giudice di gusti e costumi tramite l’ironia che è propria degli sconfitti. Il dandismo è una via negativa a se stessi; non ha nulla a che vedere con l’affermazione, il trionfo, la visibilità. Giustamente in Baudelaire il dandy assume la forma del flâneur, l’osservatore inosservato, che è sempre «un principe in incognito, ovunque vada». Beau Brummell diceva che se qualcuno nota come ci si è vestiti, significa che non ci si è vestiti bene. Il dandy è riconoscibile soltanto da se stesso, e a volte neppure da se stesso, a riprova del suo fatale isolamento.

In una delle scene più memorabili dell’Educazione sentimentale, in mezzo a damerini e gagà, arrivisti e finti elegantoni agghindati nei modi più eccentrici per pavoneggiarsi durante un picnic al parco, Flaubert ci fa intravedere un dandy autentico, che attraversa la folla con alterigia, come un’epifania impercettibile e sfuggente, e lo riconosciamo per il suo abito, essenziale e nero. Nei suoi Scritti sull’arte, Baudelaire nota sagacemente come l’abito scuro del dandy, e del gentiluomo in generale, sia un segno visibile di lutto. Tale lutto del dandy assume configurazioni diverse a seconda dell’epoca in cui si trova a vivere. Con Baudelaire fa il suo ingresso nel mondo come risposta alla modernità; per Fitzgerald è la cognizione della morte, che attendeva dietro l’angolo l’edonismo degli anni Venti; per Bunny Roger, Cyril Connolly, Evelyn Waugh e gli altri della loro generazione, è la reazione alla fine di un’epoca che non tornerà mai più.

La decadenza è una conseguenza della malinconia e mai conditio sine qua non. È la malinconia a essere fondamentale, che sia causata da quel che non si è fatto o che non si ha più (ciò su cui Proust scrisse la summa del dandismo). Ma un simile umor nero, che nel corso dei decenni ha assunto molteplici sembianze, dallo spleen all’ennui, dalla Sehnsucht alla Wanderlust fino al Weltschmerz, non porta tutti alle medesime conseguenze. In The Dandy at Dusk, Philip Mann elenca quattro esiti: il viaggio, i «paradisi artificiali», la malattia, il suicidio. L’ultima è la strada percorsa da Jacques Rigaut, che aveva fissato in anticipo la data della propria morte e da allora aveva camminato con il «suo suicidio all’occhiello» delle giacche. Jean Cocteau, il Conte Gottfried von Bismarck-Schönhausen e più recentemente Sebastian Horsley tentarono di sfuggire ai diavoli blu con la miscela di stupefacenti e perversioni inaugurata da Des Esseintes. Ad altri invece bastarono il sogno a occhi aperti, come a Quentin Crisp, che si definiva troppo anemico di volontà per abbandonarsi alla dissoluzione, a Sándor Márai, che si recava alla stazione per illudersi di partire lontano, o allo scrittore fallito, instancabile passeggiatore e maestro di solitudine che fu Robert Walser. Il modus di D’Annunzio, in altre parole, non fu mai norma.

Wilde si presentava vestito con giacche di velluto riccamente decorate, calzoni aderenti e scarpini infiocchettati – nulla di più diverso dal classicismo di Brummell, anzi, tutto ciò da cui il primo dandy aveva cercato di distanziarsi. Ma è ancora Philip Mann a suggerire che quando Wilde credette di essersi lasciato il dandismo alle spalle, nel periodo inaugurato dal De Profundis e proseguito dopo la prigionia con l’esilio francese e la conversione al cattolicesimo, solo allora fu veramente un dandy, forse per la prima volta nella sua vita, e ciò grazie alla scoperta del limite, della rinuncia, dell’astensione – la chenosi appropriata per l’imitatio Christi a cui anelava da una vita. Perché fu in quel momento che la cognizione del dolore lo portò alla consapevolezza che la vita è tragedia, quando fino a quel punto aveva dichiarato di ritenerla una «brillante commedia». L’effetto visibile di questo mutamento di prospettiva fu l’adozione del completo brummelliano in luogo dei merletti, delle sete e dei velluti.

L’ovvia conseguenza della corretta comprensione del dandismo comporta una rivalutazione all’interno del canone del Bel Paese, perché qualcosa di simile potrebbe essere accaduto nel caso di Guido Gozzano.

Sappiamo che in gioventù fu attratto dal mito del dandy così come raffigurato nel vitalismo del Vate. Laus Matris, scritta in occasione del suo ventesimo compleanno, è dannunziana dal titolo ai richiami intertestuali passando visibilmente per l’epigrafe. Di simile ispirazione, quasi parimenti esplicitata, sono Vas voluptatis, ode edonistica, e le tinte fosche di Suprema quies. Sono gli anni della goliardia della «matta brigata» a cui si unisce frequentando la Società di Cultura e delle letture nietzscheane che corroborano il suo spirito giovanile. E tuttavia, da uno scontro spietato con la vita e un «apparir del vero» leopardiano che fa ecatombe di illusioni, sorge una nuova poetica, ironica, malinconica, distaccata. È di una levità rara, Gozzano, che sa strappare al tempo stesso un sorriso e una lacrima: «La Vita si ritolse tutte le promesse» dice in Totò Merumeni: «Egli sognò per anni l’Amore che non venne, | sognò pel suo martirio attrici e principesse | ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne».

Edoardo Sanguineti, che alla riscoperta del valore poetico di Gozzano ha dedicato un importante studio, sostiene che, di fronte all’obsolescenza a cui sono destinate tutte le cose per il loro carattere transeunte, l’autore della Signorina Felicita scelga l’esilio in una posizione che sfiora il paradosso: trattare tutto come se fosse già stato reso esotico e démodé dal passaggio del tempo. Oggetti e persone vengono osservate con una nostalgia dolceamara che, se da un lato mette in luce lo scempio a cui costringe la temporalità e permette la distanza e la freddezza che danno luogo alla dissimulazione, dall’altro è pur sempre una maschera facilmente svelata, dalla quale il poeta si risveglia più indifeso e fragile di prima, esposto nella sua incurabile incapacità di soddisfazione. E quale miglior nascondimento dell’oggettistica inutile per chi è inutile?

In questo senso, la sua opera sembra condividere lo spirito e l’intento della Recherche di Proust: anche Gozzano, armato di ricordi e di sobria eleganza, cerca a ritroso «una musa del tempo che già fu» in mezzo alle vecchie fotografie, ai ricordi lussuosi, alla rievocazione degli amori rimasti in sospeso. È un’impresa destinata al fallimento: Gozzano, come a triplice conferma dell’intuizione di Mann sulle conseguenze del mal di vivere, muore a soli trentatré anni di malattia, la tubercolosi che lo piagava da anni, dopo aver tentato un fallimentare viaggio esotico in India.

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Le lettere indiane di Gozzano, terreno di incontro e di scontro fra la vita e l’arte, ossia tra la naturalezza e l’artificio, costituiscono il luogo privilegiato e insospettabile dove verificare il dandismo dell’autore. Da un lato la rigogliosa natura dei tropici lo spaventa a morte, dall’altro quel che vede sembra imitare le sue fantasie, i sogni orientalisti con cui è cresciuto: «Se risalgo alle origini prime della mia memoria vedo la città sacra in un’incisione napoleonica, nella stanza dei miei giochi. E il ricordo è così chiaro che il sogno d’allora mi sembra realtà e la realtà d’oggi mi par sogno…». Allora, per proteggersi, cita Wilde, stabilendo che non è l’arte a imitare la vita ma quest’ultima a farsi come l’arte. Ma ovviamente la mimesi è destinata al fallimento e all’incompletezza, e fra i sogni e la realtà, i primi immagine perfezionata del sognatore, la seconda inconoscibile, sfuggente e totalmente altra, permane uno iato che genera delusione e rifiuto. Gozzano preferisce la sala di lettura dell’Hôtel Majestic di Bombay al viaggio reale, al fango e al caldo che impestano i vestiti – esattamente come ci si aspetterebbe da un dandy in trasferta. Non ha intenzione di dire la sua sull’India: alla testimonianza preferisce la contraffazione della parola altrui, a volte già di seconda mano, a cui però dà il lustro del proprio stile. Per questo le sue lettere dall’India sono costellate di errori e imprecisioni, e per questo si tratta di un dato irrilevante ai fini della correttezza di un reportage che è apocrifo fin dal fatto che la maggior parte delle tappe descritte sono luoghi in cui l’autore non mise neppure piede: preferì sognare di esservi stato, scrivendone come se e aderendo al canone della letteratura esotica, qui portata a livelli sublimi, che farsi deludere dal principio di realtà («Guai» dice «se non si completasse col sogno il magro piacere che la realtà ci concede!»). Gozzano prova nostalgia di un tempo in cui l’atto del viaggio era identico al sogno; come nota Sanguineti, cerca «la grande fuga dalla prosa borghese», mosso dall’unica forza che può muoverlo: il «rimpianto reazionario per il passato perduto, il sogno decadente per le terre lontane, l’odio per “l’âge actuel”».

L’ipotesi di partenza era che ci fosse più dandismo in Gozzano che in D’Annunzio: come l’eroe delle fiabe, Gozzano vi sarebbe approdato esattamente quando credette di essersene allontanato del tutto. «Se penso» confessa a Dio ne L’altro «che avresti potuto, | invece che farmi gozzano | un po’ scimunito, ma greggio, | farmi gabrieldannunziano: | sarebbe stato ben peggio!». Se l’ipotesi è confermata, è perché c’è più del dandy originario in Gozzano che nell’esteta D’Annunzio. Mario Praz, per esempio, ricorda che D’Annunzio, nativo abruzzese, era soprattutto un selvaggio, destinato alla guerra e alla temerarietà. Troppo vistoso, troppo poco sobrio per aderire pienamente ai princìpi del casto Brummell. Dopo essere stato vezzeggiato a Parigi dal bel mondo a cui apparteneva, fra gli altri, il dandy Robert de Montesquiou, la figura in carne e ossa dietro il Barone de Charlus, D’Annunzio sfruttò opportunisticamente la Prima Guerra Mondiale per ritagliarsi una figura come incitatore delle folle, combattente ardito, eroe valoroso e provocatore di stato. Fu abilissimo – non c’è alcun dubbio – nel fare di sé un personaggio da romanzo, ma, per i criteri del dandismo, fece troppo. Il dandy, invece, sa di non servire a nulla e non tenta alcunché. È un personaggio della tragedia, come si diceva, e non dell’epica. È forse per questo che nella prosa angosciosa del Libro segreto anche D’Annunzio, ormai al termine della sua esistenza, arriva all’amara realizzazione: «Questo ferale taedium vitae mi viene dalla necessità di sottrarmi al fastidio – che oggi è quasi l’orrore – d’essere stato e di essere Gabriele D’Annunzio».

La consapevolezza di non poter sfuggire da se stesso e dal proprio destino traspare invece in ogni verso dell’opera di Gozzano («Quello che fingo d’essere e non sono!», così si conclude La Signorina Felicita). Non servono più rivestimenti eccessivi: secondo Giuseppe Scaraffia, infatti, il dandismo di Gozzano era delicato e disincantato («ironico e sommesso, si vestiva con discrezione», ricorrendo, al massimo dell’eccentricità, al sobrio candore di una sahariana). Né gli occorre una lingua aulica, quella delle «superliquefatte | parole del D’Annunzio»; Gozzano è capace di trasmettere il senso del parlato senza tuttavia rinunciare alla versificazione. Si prenda Le due strade: i dialoghi sono tutto fuorché innaturali, eppure si tratta di un componimento in alessandrini dal raffinatissimo schema rimico. Anche le sue Fiabe presentano una commistione di poesia e prosa (o meglio: un’elevazione della prosa alla poesia mediante la dissimulazione ironica), poiché tutte incominciano con una filastrocca, da cui prende il via il racconto vero e proprio senza soluzione di continuità. Per Baudelaire persino il signor Bovary, provinciale mediocre e consorte di una fedifraga compulsiva, alla fine si carica di sublimità, e proprio in questo, secondo lui, sta il valore del romanzo di Flaubert, nella sua forma sublime di dandismo.

Gozzano, dunque, apparterrebbe a pieno titolo a quest’algida setta in virtù dei motivi stessi per cui abbandonò il dannunzianesimo, ossia un sobrio ed elegante distacco dalla vita unito all’incapacità di fare e di amare («Non amo che le rose | che non colsi», o ancora: «Non posso amare, illusa! Non ho amato | mai! Questa è la sciagura che nascondo»). Aver perso per strada l’essenza del dandismo l’ha erroneamente escluso dal canone, quando, paradossalmente, questi vi appartiene proprio per essersi allontanato dalla sua sclerotizzazione decadente, incarnata, in Italia, dal Vate. Ma che cos’è, allora, il dandy?

Nei suoi monumentali e incompiuti studi sulla modernità, i Passages e Charles Baudelaire, Walter Benjamin giunge alla conclusione che il dandy sia l’eroe dei tempi attuali – o meglio, in qualsiasi altra epoca sarebbe stato un eroe. Tuttavia, nato sotto il segno della modernità, è costretto a rassegnarsi alla propria inutilità: «La modernità» dice «gli risulta fatale. In essa l’eroe non è previsto; non sa che cosa farsene. Lo ormeggia per sempre al sicuro nel porto; lo costringe a un eterno far niente. In questa sua ultima incarnazione l’eroe entra in scena», conclude, «come dandy». Pertanto Gozzano è perfettamente coerente come dandy delle pasticcerie e delle passeggiate in bicicletta, emblema dell’ozio assoluto di un eroe a riposo in un tempo vuoto e prosaico. Nulla di più diverso da D’Annunzio, maestro di propaganda ed esperto conoscitore dello Zeitgeist, eroe a tutti gli effetti, finché riuscì a sopportarne il peso. Gozzano, invece, prototipo di inettitudine, per necessità esule e rinunciante (si pensi al suo San Francesco d’Assisi, sceneggiatura di un film incompiuto), nel mascheramento della crepuscolarità cela lo scettro dell’abdicazione aristocratica. Il suo voto di rimpianto trascende il fallimento: è il segno di un’irriducibile distinzione, di una fedeltà al principio brummelliano che, consapevole o no, preserva con quelle virtù tradite dalla declinazione dannunziana del dandismo. Quando, parlando alla sua «dolce tristezza», Gozzano scopre che non c’è «cosa | più triste che non più essere triste», quando rimane soltanto una graziosa e pur struggente ironia in luogo persino del pianto, allora a parlare è davvero il dandy, colui che di sé ha fatto opera d’arte: perfetta, compiuta, inutile, sorridente e inimica del tempo.

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