Il cuore della metropoli

di Nicolò Benassi


Mi sveglio, mi lavo la faccia, faccio pipì, guardo il meteo, mi vesto, mangio, denti ed esco. Se non ho visto una pubblicità già in queste prime azioni mattutine, poco ci manca. Alla fermata del tram, tre vie parallele a quella di casa mia, ce ne sarà sicuramente una. Può succedere che la mia immaginazione sia però anticipata da annunci su un qualche muro, o che in strada intercetti, tra un passo e l’altro, una stampa sul marciapiede o una nuova installazione che ospita volantini. Le abituali azioni mattiniere appartengono a una ciclicità che ho interiorizzato, un ritmo quotidiano che nutre il mio vivere e abitare lo spazio. Lefebvre, in Writings on Cities, sostiene che la quotidianità si divide in diversi ritmi, tra cui i principali sono lineari e ciclici. I primi rappresentano le attività umane come lavorare e viaggiare, mentre i secondi sono le stagioni, il giorno e la notte, le maree. Nella quotidianità, l’ordinarietà e cicli inaspettati si intrecciano e si susseguono, instancabilmente. Nella ritmicità delle nostre giornate esiste, ormai da tempo, una forma di ritmo (diventata vita) che si insinua continuamente nei movimenti urbani, nelle attese, nei cicli: è la pubblicità nello spazio urbano, per gli addetti ai lavori OOH ads, out-of-home advertising. Le pubblicità che vediamo quotidianamente in ogni angolo della città, hanno l’obiettivo di convincerci ad acquistare, ma ancora prima a desiderare una merce. Sono messaggi pubblicitari che intercettano i nostri ritmi, che si innestano sommessamente nell’ordinarietà per suggerire una nuova forma di ordine.

Punti di vista

Sono nato e cresciuto in un paese di poco meno di cinquemila abitanti dove il cartellone che più ricordo, ricorrentemente nella stessa posizione, è il necrologio. I miei movimenti in paese avevano decisamente pochi confini e punti di riferimento, se non quelli di ritrovo istituzionale come chiesa e piazza. Ricordo un senso di vastità nello spostamento urbano, la possibilità di guardare l’orizzonte e vederne altro, cosparso da luci e basse montagne, disteso fino alla pianura. Non era necessario arrampicarsi su un tetto per vedere l’estensione del territorio che mi circondava, come invece devo fare a Milano. Per poter racchiudere la metropoli nel nostro sguardo, dobbiamo diventare un “dio voyeur”, scriveva De Certeau in Camminare per la città: “Chi sale lassù esce dalla massa che spazza via qualsiasi identità e spettatore”, riferendosi all’atto di salire sul World trade center, ma credo valga per qualsiasi punto con vista. “In questo modo si frappone una distanza, e il suo elevarsi lo trasforma in voyeur. Tramuta in un testo il mondo dal quale eravamo posseduti. La finzione del sapere consiste nell’essere soltanto quest’occhio vedente”, continua di De Certeau. Il fatto che nel mio paese natale non avessi grandi punti di riferimento non mi scuoteva, poiché potevo avere contemporaneamente sia uno sguardo dal basso che uno dall’alto. Nessuno me ne impediva l’accesso. Dopo essermi trasferito, la più netta differenza che ho percepito – almeno nel breve periodo – è quella spinta gentile che le mura, alte e talvolta minacciose, consegnano alle mie passeggiate urbane, fino a raggiungere un senso di identità. Quell’insieme di pietre che in  Goods: Advertising, Urban Space, and the Moral Law of the Image, il filosofo Emanuele Coccia descrive per la loro capacità di creare enclavi e di “incarnare a pieno il meccanismo di esclusione e inclusione, elemento fondante della comunità”. E non è un caso se, riprendendo De Certeau, la via d’uscita per affrancarsi dalle mura sia quella di “salire lassù”. Sono sempre più convinto che ciò che caratterizza la città rispetto alle aree rurali sia la moltitudine di punti di riferimento che usiamo per vivere i nostri ritmi quotidiani, tra cui la pubblicità urbana.

Punti di riferimento

Un sentimento che provavo quando ero immerso nella mia terra natale è stato quello di sentirmi attorniato da possibilità irrealizzabili. La vastità che mi circondava era liberatoria, ma conservava anche un indefinibile smarrimento. Era l’incapacità di realizzare la propria identità data l’inafferrabile sintonia con ciò che ti circonda. Al contrario, la mia forte volontà di riprodurmi, nel senso di riflettermi e reiterarmi nello spazio, si è realizzata di fronte allo spazio metropolitano, raggiungendo la sensazione di essere nascosto tra i tanti, ma visibile a me. Questa scoperta di un profilo metropolitano avviene poiché sono costantemente messo di fronte a mura che dedicano quasi l’intero discorso pubblico e architettonico al consumo, muri che veicolano messaggi riguardo agli oggetti affinché diventino noti ai più e simboli della città. In questo modo decifro, anzitutto cosa non voglio acquistare. Secoli fa, sui muri il potere scriveva le sue leggi, mentre ora ritrovo l’immagine condivisa della città e della società che la abita, immagini stratificate che si susseguono su tutte le superfici. I punti di riferimento negli attraversamenti metropolitani e gli esempi si sprecano: simboli come l’insegna al neon “White Stag”, al tempo pubblicità dello zucchero, oggi rappresenta Portland; mentre in Russia, gli accessi alle città sono pubblicizzate da cartelli retrofuturistici. È altrettanto impossibile pensare a New York senza Times Square o a Tokyo e non a Shibuya. Tutti posti pieni e caratterizzati da immense pubblicità e al cui interno, per orientarsi, è possibile (se non necessario) fare riferimento a pubblicità specifiche. Queste insegne ci comunicano come la città vede sé stessa, e contemporaneamente declassano il loro stesso legame con il mero mercantilismo economico, per diventare invece simbolo collettivo, unificando il significato della città, ed egemonizzando il significato dello spazio, o addirittura rendendo “folkloristiche” alcune aree. Esistono pagine instagram che raccolgono un sentimento nostalgico, quella sensazione che si ha quando si vedono alcuni anziani giocare a carte nel bar del paese, oppure macchine d’epoca a grandezza d’uomo girovagare per le strette vie di paese. Anche se sono rari i bar del genere senza una pubblicità di grandi marchi come CocaCola e Algida – a testimonianza del fatto che le aree interne non sono esenti dalle dinamiche di consumo – immagino sempre un tipo di retorica che ondeggia in quei tavoli: la città, l’alienazione, lo spaesamento (termine derivante dal piemontese che descrive il contadino che arriva in città, smarrito, senza paese). Eppure, come scrive Anne M Cronin in Advertising and the metabolism of the city: urban space, commodity rhythms, “la pubblicità può rendere le città sconosciute stranamente familiari: anche se potremmo non aver mai visitato la città in questione, la pubblicità può far sentire i suoi spazi urbani più ‘come a casa’, o sembra rendere più leggibili nuove culture che inizialmente sembrano oscure”. La pubblicità finisce per essere la soglia entro cui sappiamo dove inizia e finisce lo spazio familiare, delineando i nostri confini interiori e ciò di cui possiamo o non possiamo parlare. E prosegue: “La pubblicità ha un impatto, a prescindere dal fatto che prestiamo attenzione ai messaggi testuali di specifiche campagne: la semplice presenza della pubblicità nel paesaggio urbano rende familiare e naturalizza la particolare disposizione sociale di strutture e flussi di persone che chiamiamo “una città””. Pertanto, la pubblicità diventa quella cornice entro cui sappiamo orientarci e, non a caso, se ne sta proprio sui muri, materializzando quel pudore che ancora, forse, non ci fa dire chiaramente che siamo ossessionati dalle merci. Così, la pubblicità diventa quasi una bussola che non fa altro che definire ciò che altrimenti ci sarebbe taciuto. Una stratificazione di significati quasi in contrasto che fanno a gara per attirare la nostra attenzione in un mutamento continuo di punti di riferimento con pubblicità sempre diverse, ma infine, sempre simili.

Traiettorie

La città, con i suoi passaggi a livello e le sue zone che ripetutamente vedo senza toccare, non fa altro che egemonizzare il mio ritmo quotidiano, dettarmi tempi, e muovere di più e diversamente da come effettivamente a volte desidero. E la pubblicità nello spazio urbano è una delle forme in cui si materializza il dominio caratteristico del capitalismo dell’attenzione e delle merci. I cartelloni appesi ai muri e i volantini sul tram intersecano la mia traiettoria biografica, mi costringono a relazionarmi con uno spazio non-neutro, che è lì, costantemente pronto a dirmi cosa devo pensare e cosa voglio. L’emozione che provo davanti al cartellone che annuncia l’uscita di un nuovo album, mi galvanizza a tal punto che le merci pubblicizzate prendono vita assieme alla mia. Una biografia che diviene sociale, quella delle merci, fino a farmi sentire una mancanza: se non sai di cosa sto parlando, ora sai che devi informarti. Pasolini, negli articoli raccolti in Scritti Corsari, scriveva che “l’ansia del consumo è un’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato”. La pubblicità urbana mi parla di un dovere morale: un obbligo censurato di dover sapere per essere moralmente adatto ad abitare, dalla parte giusta della città. E più viaggiamo, più lasciamo tracce, più la città continua incessantemente a parlarci. Vivere in città, spaziare tra palazzi e vicoli di cui non ricordo il nome ma con annunci di ogni tipo, mi ribadisce che devo riconoscermi in tutto ciò, prima o poi. Spesso mi accade di riferirmi a un luogo specifico per via di una pubblicità, di ricordare una fermata della metro per via di un cartellone particolarmente appariscente: un tempo, spiega Cocci, la narrazione pubblica si rivolgeva al cielo e alla propria storia, mentre ora “tra mitologia e morale” la narrazione avviene per via e riguardo le merci, le quali incarnano cosa è moralmente bene, rappresentandolo pubblicamente nella pubblicità. Le merci non sono più assoggettate a una visione puramente economica, ma entrano invece nella sfera morale. Abitare la città o abbandonarla significa rispettivamente ravvivarsi o decedere, poiché le pietre che calpesto, così come le mura che dopo ogni passo mi lascio alle spalle, non sono inerti, ma rimbalzano tra la vitalità di un organismo antropomorfo e una struttura esanime. Non è un caso che i momenti in cui percepisco meno interessante la città sia durante gli spostamenti e le attese dei mezzi, oppure alla guida; gli stessi momenti in cui è molto più probabile intravedere una pubblicità: nella metro, sui tram (dentro e fuori), nelle piazzole di attesa. Sono momenti di noia che contrastano con la mia attenzione: è soprattutto nei momenti di noia che la città si ravviva ed esiste per via della pubblicità, riempiendo chi si trova nel vuoto dell’attesa. Il silenzioso ordine di consumo inscrive il mio rapporto con la città in una relazione che tende alla perfezione. Se voglio continuare i miei spostamenti, devo però sapere di cosa è fatta, e solo così sarò degno di continuare a calpestarla.

Unire ciò che era scisso – respirare le merci

Nessuno, penso, vuole essere accostato al termine merce poiché richiama significati puramente materialistici. Ma ciò che più ho appreso dalle viscere della città è che “merce” non è più solo un termine con accezione negativa. Con la diffusione della pubblicità urbana è avvenuto un cambio di significato: più le merci sono esposte sulle mura e ogni altra superficie, più il valore d’uso e quello sociale si confondono, facendo collassare ciò che tradizionalmente si credeva: l’usabilità della merce ha lo stesso valore simbolico del valore sociale di una merce e, scrive Coccia: “l’utilità non è una qualità dell’oggetto, ma bensì un significato delle qualità oggettive”. La pubblicità sui muri non mi parla di oggetti generici, ma di gonne, scarpe o musica specifica, con le proprie caratteristiche riconoscibili. Dunque, non è più possibile godere delle cose attraverso il loro semplice valore d’uso, perché la moralità è insita nel potenziale consumo al quale ci invita la pubblicità. Il capitalismo attraverso la pubblicità intraprende una funzione quasi inaspettata: estrae il bene morale da un bene materiale, partendo da tutte le sue forme e materie. Possiamo dire che “il capitalismo non ha portato alla scomparsa o diminuzione di moralità, ma piuttosto alla sua più radicale ed estrema espansione, fino ai limiti dell’esistente e del reale”, conclude Coccia. È solo grazie alla pubblicità, il simulacro per eccellenza delle merci, che tutto parla, e anche le cose più comuni ora pervadono i nostri discorsi e il modo in cui ci pronunciamo. Il feticismo è dunque un fenomeno politico che parla attraverso scarpe, automobili e farmaci, restituendoci un mondo che potremmo definire una democrazia delle merci. La città ci definisce attraverso gli oggetti, quelli pubblicizzati sui muri o altri, attraverso una serie di promulgazioni morali che estendono la nostra biografia, e ogni nostra fase e cambiamento. Dunque, l’effetto della pubblicità urbana è quello di incidere nella nostra quotidianità regole per essere moralmente impeccabili, non per sopravvivere, ma per far collassare nella nostra biografia la giusta alienazione che la nuova geografia della città delinea: le merci sono bussole di riferimento fortemente morali. Nella pubblicità vedo reificato il mio abitare secondo l’ordine oggettuale delle merci, e vedo una rappresentazione embrionale del mio vivere in un contesto specifico: un universo di merci né divine né umane, che compongono la città come miei organi extracorporali attraverso cui posso respirare tutto ciò che la città trasuda. “L’impero del futuro può essere definito come una geografia mobile e una sovranità delle merci, che possono creare comunità e identità senza dover passare attraverso i tradizionali canali politici di istituzione”, precisa Coccia, delineando come potrebbe cambiare la concezione della città. Non si tratta di dare vita alle cose, ma di articolare la nostra vita tra le cose. So bene che le controversie in merito al consumo e alle pubblicità sono molte, così come i problemi ambientali ed economici. Ma credo che questa visione delle cose abbia, invece, un risvolto positivo: la pubblicità nello spazio urbano – più che quella in televisione o sullo smartphone – può potenzialmente trasmettere a tutti, collettivamente, che gli oggetti non sono più solo merce usa e getta, ma che invece assumono, proprio grazie alla presenza nello spazio, una insolita carica simbolico-morale. È come se il nostro istinto di conservazione verso gli oggetti – a tratti perso tra rivoluzioni industriali e globalizzazione – fosse richiamato fino a recuperare la vita vibrante delle cose, fino a renderli oggetti di un valore solo, non più scisso. La pubblicità che occupa e ricopre ogni angolo della città, che si deteriora, si sovrappone e invecchia è uno strumento un po’ maldestro e imperfetto con cui le nostre città provano a passare dal disordine all’ordine, ma soprattutto uno strumento umano che usiamo per confermarci e ritrovarci nel mondo, per ripeterci che siamo nel mondo.

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