Brecht, Vonnegut e Sciascia: tre autori riflettono sulle responsabilità etiche degli scienziati
Nel 1951 Frederic Brown scrive L’arma, un breve racconto – poi raccolto nel tredicesimo volume della collana antologica, diretta da Isacc Asimov, Le grandi storie della fantascienza – che non ha quasi nulla di fantascientifico e molto dell’apologo morale. Narra di tale dottor James Graham, «direttore di un importantissimo programma di ricerche scientifiche», che sta lavorando a una non meglio identificata «arma risolutiva». All’inizio del racconto troviamo il dottor Graham mentre si rilassa nella sua casa, dove vive insieme al figlio mentalmente disabile. La sua quiete viene interrotta da una visita inaspettata: alla porta si è presentato uno sconosciuto che dice di chiamarsi Niemand e che vorrebbe parlare con lo scienziato. Graham lo invita a entrare, ma se ne pente non appena capisce l’argomento di cui il visitatore vuole discutere. «Dottor Graham», esordisce Niemand, «voi siete l’uomo che più di ogni altro, con la propria opera scientifica, sta mettendo a repentaglio le probabilità di sopravvivenza della razza umana». Ma Graham s’affretta a chiudere una conversazione che per lui sarebbe solo seccante: «Temo che stiate sprecando il mio e il vostro tempo, signor Niemand. Conosco tutti i punti di vista, e non potreste dirmi nulla che io non abbia già sentito mille volte. Forse c’è del vero in quello che pensate, ma questo non è affar mio. Sì, il fatto che io stia lavorando a un’arma, un’arma piuttosto risolutiva, è di pubblico dominio, ma per me personalmente questo è solo un corollario del fatto che sto facendo progredire la scienza. Ho riflettuto, e ho scoperto che è questa l’unica cosa che m’importa». Niemand accetta senza insistere questa risposta e poco dopo se ne va, ma uscendo fa sapere al padrone di casa che, approfittando di un momento in cui era andato in un’altra stanza per preparare dei drink, ha lasciato un piccolo regalo al figlio dello scienziato. Congedato l’ospite Graham va nella stanza del figlio e si accorge con orrore che tiene tra le mani una pistola carica.
Quando Brown scrisse questo racconto erano passati appena sei anni da Hiroshima e Nagasaki e l’epoca dell’equilibrio del terrore atomico era appena cominciata. Il trauma dato dalla consapevolezza che l’umanità avesse tra le mani gli strumenti per annientarsi da sola era ancora fresco; ovvio che sorgesse la necessità di riflettere sulle responsabilità di chi quegli strumenti li aveva fabbricati. Nella semplicità, quasi didascalica, del racconto di Brown la gelida (e autoassolutoria) etica scientista del dottor Graham, per cui importa solo il «progredire della scienza», nel disinteresse dei destini collettivi che tale progredire potrebbe significare, va in frantumi quando l’astrattezza degli ipotetici pericoli per la «sopravvivenza della razza umana» viene sostituita dal concreto e immediato rischio per la vita del figlio. Fornire all’umanità un’arma con cui può distruggersi è come dare a un bambino con disabilità intellettive una pistola: un gesto che può commettere, come ragiona lo stesso Graham nell’ultima riga del racconto, «solo un pazzo». Ma Graham non è pazzo, il ragionamento con cui si giustifica è assolutamente lucido; la sua follia, semmai, è il pretendere di lavarsi le mani delle conseguenze delle sue scoperte, il credere di potersi svincolare dalle proprie responsabilità morali, il suo ritenersi innocente soltanto perché la sua scienza non contempla la colpa.
Quegli anni sono lontani, ma certe inquietudini non sono passate, anzi sembrano conoscere un revival: Oppenheimer di Christopher Nolan è stato uno dei film più visti e discussi del 2023; nello stesso anno, in ambito letterario, alla creazione della bomba atomica allude il dittico di Cormac McCarthy Il passeggero-Stella Maris, così come Maniac di Benjamín Labatut; in Italia nel filone si è inserito Stefano Massini con il suo ultimo testo teatrale, Manhattan Project. Il tutto mentre la guerra in Europa ha riacceso quella paura della bomba che sembrava essere stata archiviata insieme alla Guerra Fredda e le preoccupazioni intorno agli sviluppi incontrollati dell’intelligenza artificiale hanno fatto sorgere in molti il sospetto che di nuovo la tecnica ci abbia messo in mano uno strumento troppo potente senza prima assicurarsi che saremo in grado di usarlo senza esiti catastrofici.
Ma delle responsabilità morali della scienza (che altro non sono che le responsabilità morali degli scienziati) la letteratura non ha mai smesso di riflettere. Nelle righe che seguono prendiamo in considerazione tre libri del Novecento che, con linguaggi molto diversi, portano avanti il medesimo discorso e sembrano condensarlo in tre personaggi paradigmatici. Sono Vita di Galileo di Bertold Brecht, Ghiaccio-nove di Kurt Vonnegut e La scomparsa di Majorana di Leonardo Sciascia.
Origin story
In Vita di Galileo Bertold Brecht mette in scena un Galilei goloso di sapere, incontinente nel suo desiderio di nuove conoscenze, il cui slancio prometeico verso il progresso scientifico non conosce ragioni che possano ostacolarlo né prudenze. Non si avvede che seguire il sapere a volte può significare «camminare su una terribile strada», come lo avverte il saggio amico Sagredo, nella notte in cui Galileo scopre le lune di Giove. Nell’entusiasmo lo scienziato ha deciso di trasferirsi a Firenze come matematico di corte, per potersi dedicare esclusivamente alle sue ricerche, nonostante Sagredo tenti di dissuaderlo perché «lì comandano i frati». Ma Galileo è inamovibile e replica professando la sua fede nella razionalità umana: «Sì, io credo alla dolce violenza che la ragione usa agli uomini […] Il potere di sedurre che emana dalla prova pratica è troppo grande. I più cedono subito, e alla lunga tutti». Sagredo invece insiste nel suo controcanto scettico che relativizza l’ottimismo di Galileo: «È una notte di sventura, quella in cui l’uomo vede la verità. È un’ora di accecamento, quella in cui crede il genere umano capace di ragionare».
Ma quindi chi è Galileo? Un eroe della libera ricerca disposto a sfidare l’autorità in nome della verità? Oppure un imprudente, un impulsivo che, accecato dalla sua fame di conoscenza e dalla fiducia nella razionalità, perde di vista il quadro d’insieme? Brecht in realtà dà risposte diverse, come diverse sono le stesure dell’opera. Fin dall’inizio l’intenzione del drammaturgo tedesco è di scrivere un dramma in cui Galileo è una figura paradigmatica per parlare dei rapporti tra scienza e società. La prima stesura, la cosiddetta “versione danese”, è del 1938 e si chiude nel segno di un’interpretazione “eroica” di Galileo. L’abiura dello scienziato pisano davanti alla Santa Inquisizione rappresenta sì, una sconfitta, ma è anche una strategia per portare avanti le sue ricerche. Una volta abiurato Galileo può continuare a lavorare di nascosto, completare i Discorsi sulle nuove scienze e consegnarli ai suoi discepoli; insomma alla fine la vittoria è della scienza che si afferma nonostante il potere oscurantista davanti al quale Galileo pure ha chinato la testa.
Brecht licenzia una seconda versione (detta “americana”) nel 1946. In mezzo alla prima e alla seconda stesura c’è stata la bomba atomica. Se a spingere Brecht a scrivere la sua opera erano già state, in parte, riflessioni sul rapporto tra scienza e potere ispirate dall’attualità (in particolar modo dall’acquiescenza della comunità scientifica tedesca verso il regime nazista), la nuova arma pone il problema della responsabilità morale degli scienziati in maniera ancora più drammatica e urgente. E così nella nuova versione risulta stravolto il giudizio su Galileo che emerge nel finale.
Ora Galileo non può più essere assolto. Se le sue ricerche e il suo metodo rappresentano le radici stesse della scienza moderna, allora la sua abiura, la decisione con la quale la scienza si sottomette al potere, ne rappresentano il peccato originale. Galileo non si è assunto la responsabilità personale delle proprie scoperte e soprattutto non ha permesso che la scienza si emancipasse dal controllo del potere costituito, condannandola a lavorare per quel potere invece che per il bene dell’umanità.
È Galileo stesso a riconoscere la sua colpa nella penultima scena del dramma, in cui lo scienziato, ormai vecchio e immalinconito, costretto a vivere sotto lo stretto controllo della Chiesa, riceve l’ultima visita di Andrea Sarti, uno dei suoi discepoli. Galileo gli consegna una copia dei Discorsi sulle nuove scienze da portare all’estero e a quel punto Andrea è pronto a ricredersi sul vecchio maestro che aveva disprezzato nel momento dell’abiura; Sarti adotta un giudizio simile a quello brechtiano della prima stesura: sopravvivendo Galileo ha potuto portare avanti le sue ricerche ed è questo ciò che conta. «La scienza non ha che un imperativo: contribuire alla scienza», dice Andrea, sottintendendo che quindi ogni compromesso è accettabile se fatto in nome della conoscenza, perché, dice, le mani sono «meglio sporche che vuote».
Ma Galileo ora intuisce i pericoli di un simile pragmatismo. La nuova scienza avrebbe dovuto combattere «due battaglie»: quella per la «misurabilità dei cieli», ma anche quella per migliorare le condizioni dell’umanità. «Io credo che la scienza abbia come unico scopo quello di alleviare la fatica dell’esistenza umana», dice Galileo, affermando un nobile impegno morale sapendo di non esserne stato all’altezza. Se così non è, se «gli uomini di scienza, intimiditi dai potenti egoisti, si limitano ad accumulare sapere per sapere», allora «la scienza può rimanere fiaccata per sempre, e le vostre nuove macchine non saranno fonte che di nuovi triboli per l’uomo». Nel momento in cui la scienza smette di preoccuparsi degli esseri umani, di combattere la “battaglia” per il loro benessere, allora inizia un processo di distanziamento dall’umanità che può avere conseguenze pericolose come Galileo, continuando, profetizza: «E quando, coll’andare del tempo, avrete scoperto tutto lo scopribile, il vostro progresso non sarà che un progressivo allontanamento dall’umanità. Tra voi e l’umanità può scavarsi un abisso così grande, che, un giorno a ogni vostro eureka rischierebbe di rispondere un grido di dolore universale».
Galileo sa che certe degenerazioni non sono intrinseche alla scienza, che la storia avrebbe potuto prendere una piega diversa: «Se io avessi resistito, i naturalisti avrebbero potuto sviluppare qualcosa di simile a ciò che per i medici è il giuramento d’Ippocrate: il voto di far uso della scienza a esclusivo vantaggio dell’umanità!». Quello che Galileo si rammarica di non aver dato, anche a costo di sacrificare sé stesso, è l’esempio di un impegno etico esplicito da parte di chi maneggia una materia insieme preziosa e pericolosa come la scienza. Senza quell’impegno è come se gli scienziati di disumanizzassero e dunque «il massimo in cui si può sperare è una progenie di gnomi inventivi, pronti a farsi assoldare per qualsiasi scopo». Non lavorando per l’umanità gli scienziati finiscono a lavorare per il migliore offerente; non facendosi carico della propria responsabilità individuale cedono il controllo del sapere accumulato ai potenti di turno che potranno «usarlo, non usarlo o abusarne a seconda dei loro fini», si tratti di tenere il popolo in una ignoranza funzionale al mantenimento dello status quo, come ai tempi di Galileo, o di costruire “l’arma risolutiva”.
Il villain
Della «progenie di gnomi inventivi» preannunciata da Galileo, potrebbe essere eletto rappresentante ideale il professor Felix Hoenniker, personaggio centrale di Ghiaccio-nove, romanzo di fantascienza di Kurt Vonnegut pubblicato nel 1963. Nella finzione Hoenniker è un fisico premio Nobel che ha dato un contributo fondamentale per lo sviluppo della bomba atomica. Qualche anno dopo la sua morte, all’inizio del romanzo, troviamo il narratore impegnato a raccogliere informazioni sullo scienziato per un libro che sta scrivendo. La prima parte del romanzo finisce così per diventare un suo ritratto attraverso le testimonianze di chi l’ha conosciuto.
Hoenniker condivide con il Galileo brechtiano la curiosità insaziabile e la passione per la conoscenza intesa come qualunque verità a cui si può pervenire attraverso lo studio scientifico. Tutta la vita del fisico pare consacrata all’«accumulare sapere per sapere». Ma a differenza del Galileo della Vita, gaudente e anche troppo umano, capace di soffrire tutto il peso morale delle sue decisioni, in Hoenniker il «progressivo allontanamento dall’umanità» ha ormai prodotto una definitiva estraneità. L’altro lato della sua passione totalizzante per la conoscenza scientifica è una indifferenza altrettanto totale per tutto il resto, esseri umani compresi. «Era uno degli esseri umani più corazzati che siano mai esistiti. La gente non riusciva a sfiorarlo, perché la gente non gli interessava proprio», dice Newt, il figlio minore di Hoenniker e prima persona che il narratore interroga. «Non ho mai conosciuto un uomo meno interessato alla vita di lui», aggiunge un altro personaggio, Marvin Breed, un concittadino del fisico che non nasconde di nutrire per lui una forte antipatia.
L’aridità di Hoenniker risulta però addolcita perché il suo modo di approcciarsi al mondo ha qualcosa di infantile. Lo stupore e la curiosità che lo spingono a indagare la realtà sono descritti come decisamente fanciulleschi. Lui stesso, nel discorso per il Nobel, afferma: «Se mi trovo davanti a voi adesso è perché non ho mai smesso di gingillarmi come un bambino di otto anni che sta andando a scuola in un mattino di primavera. Qualunque cosa può farmi fermare per guardare e meravigliarmi, e talvolta imparare». In un certo senso questo infantilismo rende adorabile anche la sua inettitudine nelle pratiche quotidiane della vita (un aspetto questo, del resto, comune a tante rappresentazioni bonarie degli uomini di scienza, reali o fittizi). Ma Hoenniker non è solo come un bambino, è come un bambino viziato, che non riesce a concepire altre ragioni al di là del soddisfacimento dei propri desideri. «Crepa se ha mai fatto una cosa che non aveva voglia di fare, crepa se non ha sempre ottenuto tutto quello che voleva», dice ancora Marvin Breed. La sua volontà di dedicarsi esclusivamente allo studio passa sopra tutto e tutti: prima causa indirettamente la morte della moglie, poi fa sì che i tre figli crescano trascurati e infelici; soprattutto la maggiore, Angela, che dopo la morte della madre è costretta dal padre ad abbandonare la scuola per occuparsi di lui e dei fratelli minori.
Ma soprattutto Hoenniker, come un bambino, è amorale. Non immorale, perché in lui non c’è la scelta cosciente di rifiutare o sovvertire certi valori. Semplicemente in lui la questione di ciò che è morale, di ciò che è bene o male, di cosa è giusto o sbagliato, neanche si pone e forse non è neppure concepibile. Siamo oltre anche al dottor Graham del racconto di Brown: lui aveva elaborato una giustificazione per lavarsi la coscienza dal male che poteva derivare dalle sue scoperte; Hoenniker invece non sente il bisogno di giustificare nulla perché il male che potrebbe causare non è neppure capace di prenderlo in considerazione; si potrebbe dire che non deve lavarsi la coscienza perché una coscienza non ce l’ha. «La sa la storia di papà, del giorno di cui fecero il primo test atomico ad Almagordo?», racconta il figlio Newt, «Dopo che l’ordigno esplose, dopo che fu accertato che l’America poteva spazzare via un’intera città con una sola bomba, uno scienziato si rivolse a papà e gli disse: “La scienza adesso conosce il peccato”. E lo sa cosa disse mio padre? “Cos’è il peccato?”».
Se questa indifferenza morale significa anche e soprattutto una indifferenza a come le sue scoperte verranno usate, allora una simile figura si presta a diventare senza resistenze una pedina degli interessi altrui. La profezia finale di Galileo per cui gli scienziati si sarebbero ritrovati a mettere il loro sapere «a disposizione dei potenti» affinché lo usassero o ne abusassero «secondo i loro fini», qui è perfettamente realizzata. Hoenniker si mette al servizio dell’esercito degli Stati Uniti; i militari, viene detto, «lo consideravano una specie di mago che poteva rendere invincibile l’America con un colpo di bacchetta magica». E lo scienziato si mostra sempre pronto a soddisfarne le richieste con ottusa diligenza, spinto esclusivamente dalla voglia di risolvere le sfide che i suoi committenti gli pongono.
Questo significa prima impegnarsi nella realizzazione della bomba atomica, poi – e qui ci addentriamo nella parte fantascientifica del romanzo di Vonnegut – nella creazione di quel “ghiaccio-nove” che dà il titolo al libro. Il ghiaccio-nove è una sostanza in grado di congelare istantaneamente qualunque liquido, inventata da Hoenikker solo per rispondere all’assurda richiesta di un generale che aveva chiesto al professore un modo per risolvere il problema del fango in cui i suoi marine si ritrovano spesso a marciare e a combattere. Ma il ghiaccio-nove è anche una invenzione pericolosa, i cui effetti sono potenzialmente apocalittici (potenzialità che puntualmente si realizzano entro la fine del romanzo).
Agli occhi di un uomo comune come il narratore il ghiaccio-nove appare immediatamente come una minaccia terrificante, eppure Hoenikker lo teorizza e lo crea come se risolvesse uno stimolante gioco enigmistico, senza che alcuno scrupolo o riflessione che vada oltre le difficoltà pratiche dell’impresa si manifesti in lui. Né ci si aspetterebbe il contrario: se lo scienziato si è ormai distaccato dall’uomo, l’estinzione dell’umanità non è un problema che lo riguarda; se «contribuire alla scienza» è l’unico imperativo, allora anche la fine del mondo è una obiezione non pertinente.
L’eroe
La differenza tra Hoenniker e Galileo è che il secondo sceglie: il momento culminante del dramma di Brecht è appunto una scelta, anche se sbagliata, quella di abiurare; Hoenniker invece non prende mai nessuna decisione, fa le cose soltanto perché può farle: perché essere senza morale significa appunto non scegliere mai, agire sempre e solo sulla spinta dei propri desideri o delle imposizioni esterne. Allontanandosi dall’umanità la scienza smette di fare scelte; il modo con cui può ricucire quella distanza è per l’appunto ricominciando a farle. In La scomparsa di Majorana, saggio narrativo (oggi diremmo una non-fiction) del 1975, Leonardo Sciascia traccia intorno a Ettore Majorana i contorni dell’eroe proprio perché compie la scelta che le menti dietro alla bomba non fecero: rifiutarsi. La sua storia, così come la ricostruisce Sciascia, è quella di una piena presa in carico delle proprie responsabilità.
Nonostante il libro sia il frutto di un rigoroso studio dei documenti, anche il Majorana di Sciascia, come il Galileo di Brecht, non è solo un personaggio storico ma anche una figura paradigmatica. Sul finale lo scrittore arriva a ipotizzare che lo stesso Majorana, mettendo in scena la sua scomparsa, «prefigurasse, avesse coscienza di prefigurare, un mito: il mito del rifiuto della scienza». Sciascia inizia a costruire il suo ritratto del fisico siciliano dalla alterità rispetto a chi lo circonda: Majorana è «un uomo inadatto», che si sforza di adattarsi; Laura Fermi lo descrive come «eccessivamente timido e chiuso in sé», e in generale, ci fa sapere Sciascia, «non uno di coloro che lo conobbero e gli furono vicini, e poi ne scrissero o ne parlarono, lo ricorda altrimenti che strano. E lo era veramente: stranio, estraneo». Estraneo in particolar modo rispetto agli altri fisici, a partire dai “ragazzi di via Panisperna”, con cui lavora: «Qualcosa c’era, in Fermi e nel suo gruppo, che suscitava in Majorana un senso di estraneità, se non addirittura di diffidenza, che a volte arrivava ad accendersi in antagonismo. […] non era portato a far gruppo, a stabilire solidarietà e a stabilirvisi». Ma è anche un genio puro, che ha con la scienza (anche suo malgrado) un rapporto molto più intimo degli altri studiosi: «Tra il gruppo dei “ragazzi di via Panisperna” e lui, c’era una differenza profonda: che Fermi e i “ragazzi” cercavano, mentre lui semplicemente trovava. Per quelli la scienza era un fatto di volontà, per lui di natura. Quelli l’amavano, volevano raggiungerla e possederla; Majorana, forse senza amarla, “la portava”».
Il Majorana che vediamo nelle pagine della Scomparsa è quindi il genio riluttante, che la mattina in tram scribacchia formule rivoluzionarie su un pacchetto di sigarette per poi buttare tutto in un cestino. Che mette realmente a frutto le sue capacità soltanto sotto le pressioni dei suoi colleghi, e comunque lo fa «come per scherzo, per scommessa. Con leggerezza, con ironia». Non c’è in lui quella totalizzante passione per la conoscenza che abbiamo visto in Galileo e in Hoenniker, piuttosto c’è il desiderio di smarcarsene.
Majorana scompare nel 1938 e il caso verrà archiviato come suicidio, nonostante le incongruenze che Sciascia diligentemente raccoglie. La tesi del libro è questa: il giovane fisico decise di sparire (forse ritirandosi in un qualche monastero nel Sud Italia) perché prima di tutti aveva intuito che lo sviluppo della fisica stava conducendo a qualcosa come la bomba atomica e non voleva rischiare di contribuirvi. Leggiamo: «la sorella Maria ricorda che Ettore, in quegli anni, frequentemente diceva: la fisica è su una strada sbagliata o (non ricorda esattamente) i fisici sono su una strada sbagliata». Majorana è lo scienziato che recupera la consapevolezza morale nel momento in cui è in grado di riconoscere la «strada sbagliata» come tale; diventa eroico nel momento in cui sceglie di non percorrerla. È l’esatto opposto degli «gnomi inventivi, pronti a farsi assoldare per qualsiasi scopo», come invece forse sono i suoi colleghi, “ragazzi di via Panisperna” compresi.
Certo, altre eccezioni non mancarono. Nel capitolo centrale il libro si sofferma sulla figura del fisico tedesco Werner Heisenberg, che Majorana conosce durante un soggiorno di studio a Lipsia, un incontro che Sciascia definisce «il più significativo, il più importante che Majorana abbia fatto nella sua vita: e più sul piano umano che su quello della ricerca scientifica». Heisenberg è qui quasi una controfigura di Majorana. Un altro scienziato che sceglie in base a criteri morali e si rifiuta di seguire la «strada sbagliata». Infatti «tra quelli che avrebbero potuto fare per Hitler la bomba atomica, Werner Heisenberg era senz’altro il più importante. […] Ma Heisenberg non solo non aveva avviato il progetto della bomba atomica (lasciamo stare se poteva o non arrivare a farla: progettarla sicuramente poteva), ma aveva passato gli anni della guerra nella dolorosa apprensione che gli altri, dall’altra parte stessero per farla […]. E cercò, anche se maldestramente, di far sapere a quegli altri che lui e i fisici rimasti in Germania non avevano l’intenzione, né sarebbero stati in grado di farla».
Heisenberg non lavorando per l’atomica compie una scelta di responsabilità individuale, in questo si comporta da uomo libero, nonostante viva sotto la tirannia nazista; non fu così per gli scienziati dall’altra parte. Dunque, sottolinea Sciascia, «si comportarono liberamente, cioè da uomini liberi, gli scienziati che per condizioni oggettive erano schiavi; e si comportarono da schiavi, furono schiavi, coloro che invece godevano di un’oggettiva condizione di libertà». Insomma, conclude Sciascia la lunga digressione, «in un mondo più umano, più attento e più giusto nella scelta dei suoi valori, dei suoi miti, la figura di Heisenberg più dovrebbe e nobilmente aver spicco di altre nel campo della fisica nucleare che operarono negli stessi suoi anni – più di coloro che la bomba la fecero, la consegnarono, con esultanza accolsero la notizia degli effetti e soltanto dopo (ma non tutti) ne ebbero smarrimento e rimorso». Ciò che lo scrittore siciliano denuncia è, insomma, una inversione dei valori: quella che porta a glorificare un Fermi o un Oppenheimer (il cui dramma «non ci commuove affatto», postilla Sciascia) e dimenticare l’eroismo di un Heisenberg. La stessa inversione che fa sì che Majorana, pur facendo la scelta più umana, finisca per essere ricordato come l’uomo «strano», privo del «semplice buon senso» – così lo descrisse Enrico Fermi – quando forse era l’unico a esserne dotato.