Lascio, quanto tempo e quanti sospiri ho sprecato.

In copertina: Medusa con la testa di Perseo di L. Garbati.

 

Chi ha paura dei Greci e dei Romani di Maurizio Bettini e Tutte storie di maschi bianchi morti di Alice Borgna.

di Greta Russo


Della storia, e con la storia, si parla sempre di meno. Quasi che il tempo avesse raggiunto il suo culmine e quindi non avesse più senso voltare indietro lo sguardo.

Nel suo ultimo lavoro, Chi ha paura dei Greci e dei Romani. Dialogo e cancel culture (Einaudi), Maurizio Bettini indaga la maniera in cui ci poniamo di fronte all’eredità greca e latina. Maurizio Bettini è professore emerito di Filologia del mondo antico a Siena. La sua ricerca si è sempre concentrata sullo studio antropologico della vita e del pensiero antico, tanto da avere fondato un centro studi. In anni relativamente recenti lo studioso si era già confrontato su alcuni dei temi affrontati nel libro, in particolare sul rapporto che i Greci e i Romani avevano con i migranti, quindi per estensione con l’altro, verteva il saggio del 2019 Homo sum. Essere “umani” nel mondo antico”.

Stavolta, però, il discorso si muove intorno al fenomeno della cosiddetta “cancel culture”, che Bettini definisce “quel movimento di area anglosassone che tende a rimuovere nomi, simboli, monumenti o tracce di un passato talmente «differente» rispetto alla visione del mondo condivisa oggi dalla cultura liberal (diritti, dignità, rifiuto di schiavitù e razzismo), da risultare inaccettabile. Si tratta di un processo di purificazione del tutto simile a quello che il politicamente corretto intende compiere a livello linguistico, eliminando termini, morfemi o espressioni in genere che appaiono lesive nei confronti di determinate persone. Salvo che ad essere sottoposti al setaccio, per lo stesso identico motivo, non sono elementi linguistici ma personaggi, avvenimenti, insomma «fatti» che appartengono alla storia passata.” Aggiunge, poi, che “Il movimento della cancel culture non e? venuto da solo. E? stato accompagnato da un altro, denominato decolonizing classics, sicuramente imparentato col precedente, che nelle universita? americane, cosi? come in generale in area anglosassone, sta crescendo a un ritmo assai vivace”.

Come contraltrare della cancel culture, dell’idea stessa dello spazzare via con un colpo di spugna, Bettini pone la pratica del dialogo (non a caso il sottotitolo del suo lavoro è proprio Dialogo e cancel culture). È questo un termine carico di significati, intorno al quale si costruisce la prima parte del saggio, che inizialmente si muove nel campo linguistico ed etimologico, poi analizza filosoficamente il significato fondamentale dato alla parola da Platone.

“Platone lo aveva già detto, la «comprensione» richiede in primo luogo una buona disposizione «naturale»: e ora questa disposizione la vediamo esprimersi, in modo piú definito, nella forma di un “atteggiamento” positivo, scevro di animosità o ostilità, che si mette in pratica al momento di discutere in gruppo su un determinato argomento.”

Da Platone passiamo al racconto di un corso tenuto dallo stesso Bettini qualche anno addietro in un’università americana, dove la pratica del dialogo come scambio aperto alle differenze di pensiero era esemplarmente messa in atto da studenti e studentesse. Proprio la parola “differenza” è un altro termine che ha valore centrale nel testo, che da qui in poi si avvia verso il nodo della questione: in primo luogo, la diversità tra noi abitanti del mondo moderno (con i suoi valori e le sue conquiste sociali e civili) e il mondo antico; in secondo luogo, i problemi che il rapporto tra i due pone. Tali problemi, nella loro forma più estrema, potrebbero sfociare nel desiderio di eliminare del tutto questo bagaglio culturale, cancellandolo.

Si parte dai classici, dunque, ma si arriva ben altrove. Partiti con l’autore da un’aula di un’università californiana, ci ritroviamo alla cerimonia di insediamento di Joe Biden, poi nel pieno di una riunione del Congresso degli Stati Uniti, poi, di nuovo, nel campus della città di Berkeley e, ancora, in un teatro romano ad assistere a una rappresentazione plautina. Ma le fila del discorso si riannodano: ciò che hanno in comune tutte queste esperienze e tutti gli esempi usati da Bettini è il fatto che ciascuno di essi problematizza qualcosa. Cioè, mette l’attenzione di volta in volta su una, o più di una, delle rivendicazioni sociali e civili di cui sono oggetto il nostro tempo e il nostro modo di vivere. Il passo successivo viene fatto, poi, nel momento in cui si incontrano tali rivendicazioni e i modelli di mondo e di vita proposti dai testi classici. E collidono. Capita che i valori portati dal mondo classico stridano alle nostre orecchie, sopratutto alle orecchie di chi vive in luoghi in cui il rapporto con esso è particolarmente ambiguo, perché lì la storia ha lasciato ferite non ancora rimarginate. Teatro della gran parte delle vicende che Bettini commenta e porta come esempio sono infatti gli Stati Uniti, dove il concetto di cancel culture ultimamente trova sostenitori anche a proposito dei classici, perfino tra gli intellettuali che se ne sono occupati per una vita, uno tra tutti Dan-el Padilla Peralta. Padilla Peralta! Chi era costui? Ci arriviamo. Ci si chiede dunque cosa farsene di questi classici, se studiarli e perché studiarli se le cose stanno così. Questo è dunque il grande problema che si pone il saggio, e con esso una parte relativamente ampia di studiose e studiosi: come porsi di fronte alle brutture e le ingiustizie che gli occhi e le orecchie moderne trovano nei testi classici. Come affrontare e se affrontare il tema della cancel culture relativamente ai classici è una questione spinosa, ma per Bettini il nodo principale è non chiudere la porta di comunicazione con il mondo antico, ma anzi spalancarla, lasciar entrare la luce tanto quanto i granelli di polvere che porta con sé. Certo, poi bisognerà spolverare, ma sarà valsa decisamente la pena.

“Con il passato, dunque, con la storia, si stenta a dialogare, cancellandola o mettendo a tacere la sua voce per sovrapporvi la nostra, quasi che stessimo re-incidendo un nastro che prima conteneva altro.” Il saggio di Bettini è, in realtà, meno conservatore e paternalistico di quanto si potrebbe temere considerate le premesse (la definizione che dà di cancel culture e uno studioso della sua generazione), e soprattutto meno di quanto lascino intendere la maggior parte delle recensioni che si trovano facilmente online, che spesso lo liquidano in poche righe, lasciando il dubbio che chi le scrive non abbia letto più che qualche pagina qua e là, giusto per cogliere qualche citazione altisonante e poi usarla come pretesto per portare avanti la propria propaganda.

Ciò nonostante, resto scettica su qualche punto che sembra un po’ forzato e inutilmente polemico, per esempio quanto Bettini afferma a proposito della tanto discussa traduzione della poetessa afroamericana Amanda Gorman. Inoltre, Bettini sa certo molto bene che paragonare l’attività di traduzione di un testo antico e di uno contemporaneo ha poco o nessun senso. O, ancora, mi lascia insoddisfatta la conclusione un po’ veloce data alla questione se cambiare o meno alcuni toponimi che dedicano luoghi e monumenti a personaggi il cui passato risulta non del tutto accettabile. Bettini fa riferimento a questo proposito all’università di Berkeley (la stessa in cui il nostro aveva tenuto il corso qualche anno addietro), intitolata a George Berkeley, “uno dei maggiori filosofi empiristi inglesi, assieme a John Locke e David Hume, ritenuto anzi un precursore della filosofia e della scienza contemporanee”. Lo stesso, però, aveva anche quel difettuccio colonialista di sfruttare schiavi nelle sue piantagioni e, come se non fosse abbastanza, battezzarli per renderli più civili. L’università a lui intitolata negli anni Sessanta è stata il teatro da cui è partita l’ondata di «free speech movement», di cui, mette in guardia Bettini, rischiamo di dimenticarci se le cambiamo nome. Eppure la Gallia non si chiama più in questo modo, ma non per questo abbiamo dimenticato il De bello Gallico. Bettini non nega i problemi sociali e le rivendicazioni sostenute dai presunti “avversari” del mondo classico, ma emerge una certa leggerezza nel modo in cui se ne occupa, come se dicesse che sì, è tutto giusto, ma sarebbe un peccato e una fatica inutile cambiare approccio. Il saggio di Bettini ha un respiro ampio, parla di qualcosa per parlare di tutt’altro. Alla fine il messaggio arriva, e non c’è dubbio su quale sia, ma nel percorso, tortuoso e pieno di curve, si perde un po’ della sua incisività. Giunti alla fine la soluzione proposta è tanto semplice da immaginare quanto difficile da mettere in pratica ma, soprattutto, splendida. Che farsene dei Greci e dei Romani, se sembra che questi veicolino messaggi intollerabili per la sensibilità di oggi sono (fortunatamente, viene da dire)? Continuare a leggerli e a studiarli, interrogarli ancora e ancora, ma nel farlo cercarvi dentro i problemi e analizzarli, senza coprirsi gli occhi, consapevoli che più li leggeremo, più passerà il tempo e più, probabilmente, ne troveremo, risponde Bettini. Sicuramente, però, non condannarli a priori e metterli da parte, ma tenere costantemente aperto il dialogo, quel dialogo di cui si parlava all’inizio, e si chiude così il cerchio, come nei migliori componimenti catulliani.

Tutto è bene quel che finisce bene, dunque. O così pare. Perché se la lettura di Bettini mi era risultata tutto sommato piacevole, lasciandomi tuttavia una non del tutto identificata sensazione di disagio, questa è venuta alla luce leggendo un altro saggio che si inserisce nel dibattito, uscito poco meno di un anno prima di quello di Bettini, uscito nell’ottobre 2022, Tutte storie di maschi bianchi morti di Alice Borgna, pubblicato da Laterza nella collana Fact-Checking: la Storia alla prova dei fatti. Anche stavolta siamo di fronte a una studiosa che affronta con familiarità il tema. Alice Borgna, infatti, si occupa della “democratizzazione degli studi classici”, insegna Lingua e Letteratura latina all’Università del Piemonte Orientale, oltre a essere co-direttrice di DigilibLT.

Il centro del dibattito è sempre la “cancel culture”, che Borgna definisce in modo assai diverso da Bettini “L’etichetta [cancel culture] indica, in senso spregiativo, il fenomeno per cui gruppi ultraprogressisti si scagliano contro persone o testi che giudicano offensivi verso persone di colore, minoranze etniche, donne o esponenti della galassia LGBTQIA+. Parte integrante del fenomeno è poi la sproporzione percepita tra l’entità dell’offesa e la punizione richiesta, ovvero la cancellazione: l’eliminazione dallo spazio pubblico reale e virtuale. Di conseguenza, quando si legge che qualcuno o qualcosa è finito nel mirino della cancel culture, di solito si sottintende che l’accusato sia vittima innocente di una censura irrazionale che non vuole sentir parlare di contesti o riconoscere attenuanti. […] In questo ambito, notevole interesse sta suscitando online la discussione che riguarda i Classics, l’antichità greco-latina, sentita come ultima preda del vittimismo armato della cancel culture, la quale agiterebbe le sue spugne contro tutte le storie di maschi bianchi morti, colpevoli non solo di rappresentare un concentrato velenoso di violenza, schiavitù, misoginia e razzismo, ma sopratutto di essere state celebrate da secoli di cultura dominante bianca come le vette più alte mai raggiunte dall’intelletto umano.” Borgna, però, aggiunge un altro tassello fondamentale, che Bettini aveva completamente lasciato da parte e che invece fa luce su tutta la faccenda.

“Il dibattito sulla decolonizzazione solo in minima parte riguarda i testi antichi e li vuole eliminare, mentre sul piatto c’è ben altro: le ragioni per cui questi testi vengono studiati, i modi con cui vengono studiati, i luoghi in cui vengono studiati e – cosa più sottile – l’identità di chi li studia.”

Il problema con Bettini è che non sembra prendere davvero in considerazione le cause della questione. Non che non le conosca, ma è come se si limitasse a constatarne l’esistenza, senza poi indagarle, e tralasciandone il nodo fondamentale. Il grande, immenso problema da risolvere non è tanto cosa succede dentro i testi, ma cosa succede fuori da essi. Cioè, non cosa dice Seneca in quanto tale, in quanto abitante della Roma del I secolo d.C. o Lucilio o Omero, il problema è come vengono usati Seneca, Lucilio e Omero e da chi. Cioè, ce lo spiega benissimo Borgna, chi ha la possibilità (ma vera, non solo sulla carta) di studiarli e usarli.

“L’antichistica del futuro, quindi, dovrà lavorare per mettere tutti sulla stessa linea di partenza e con la stessa dotazione tecnica”

Mettere tutti sulla stessa linea di partenza, questa è la questione fondamentale. Capita questa, non ci sembra più che Oltreoceano abbiano tutti e tutte perso il lume della ragione, arrivando a rinnegare ciò che per anni hanno amato, studiato, insegnato e ciò che, concretamente, ha dato loro un modo per pagare le bollette. Un esempio su tutti vale la pena di essere fatto, perché rende lampante il divario tra Bettini e Borgna, e anche perché è stato un episodio centrale del discorso, senza il quale resta confuso il discorso stesso e il nugolo di articoli, pensieri, parole, atti, opere e omissioni che vi ronzano intorno. Protagonista principale è quel Padilla Peralta a cui si accennava sopra, attualmente professore di Storia antica all’università di Princeton.

“Agli occhi di Padilla i classici, la loro letteratura, l’antichità greca e romana in genere, non possono piú essere considerati archetipo della nostra humanitas e incunabolo della civiltà occidentale, come spesso si è ritenuto e alcuni ritengono ancora. Al contrario, essi costituiscono la matrice di una cultura schiavista, suprematista bianca, sessista, colonialista, insomma uno strumento di oppressione non solo intellettuale. […] Durante un infiammato dibattito, poi divenuto celebre sul web, Padilla, replicando alle obiezioni di una collega che difendeva la tradizione degli studi classici, ha risposto: «Non voglio avere niente a che fare con tutto ciò. Spero che questo campo di studi, per come tu lo descrivi, muoia, e che muoia il prima possibile.”

Questo è quello che ci racconta Bettini e, in effetti, detta così viene da pensare che davvero sia uscito di senno. Senonchè Borgna aggiunge una cosa sorprendente: il contesto (curioso, tra l’altro, che proprio Bettini, studioso di antropologia, abbia deciso di trascurarlo). Il problema fondamentale messo alla luce dagli autori e autrici di questa rivendicazione, dice Borgna, non è di che colore fossero Omero e company, ma di come sono e sono stati usati costoro e da chi (qui gli esempi fioccano sia in Borgna che in Bettini, a cominciare da Mussolini e il suo mito dell’impero romano per finire con Trump). E poi, problema ancora maggiore, di quale colore sono le persone che li studiano e del perché, di come la prevalenza di (maschi) bianchi non fa che favorire una visione del mondo adatta quasi ai soli bianchi, per cui il circolo continua. Borgna questo lo spiega molto bene, e più volte nel corso del suo saggio, tant’è che ne troviamo una sintesi già dopo meno di una ventina di pagine, a cui segue il racconto dettagliato della discussione cinquanta pagine dopo. E leggendo questo si ha l’impressione di mettere i tasselli mancanti al puzzle di Bettini, perché molto di quanto lì era stato accennato qui è raccontato, con tanto di riferimenti precisi ad articoli, tweet, video dell’accaduto.

Allora Borgna ci riporta l’intera discussione, ci racconta dove siamo, chi ha parlato, cosa ha detto, quali erano stati i precedenti, ci dà perfino il link al video su youtube della conferenza. Il suo racconto giunge al momento in cui dal pubblico si alza la collega a cui faceva riferimento Bettini. Se quest’ultimo, tuttavia, l’aveva indicata come paladina degli studi classici, questa non si limita a difenderne la tradizione, ma aggiunge che i classici sono la civiltà occidentale. E la civiltà occidentale, attenta all’autodeterminazione, alla democrazia e alla libertà, va difesa. Il dibattito, al momento tra la donna e Sarah Bond, collega di Peralta e sostenitrice delle sue stesse idee, si scalda, e la prima finisce col dire, riferendosi a Peralta,“tu potresti aver ottenuto il lavoro perché sei nero, ma io preferisco pensare che tu labbia ottenuto per merito”.

Già. Padilla Peralta è nero, dettaglio non insignificante. Anzi, la sua biografia comincia con l’arrivo negli USA come ragazzino immigrato e irregolare, che finirà a essere insegnante in uno dei college più prestigiosi del paese, e possiede, come dice Bettini, “già tutte le caratteristiche per trasformarsi in un biopic”, conclusione e il compimento dell’autentico sogno americano. Sembra proprio il tipo di persona che sa esattamente di cosa parla quando parla di discriminazione. Ha più senso, adesso, la risposta di Padilla Peralta, che, tra l’altro, sottolinea “questo campo di studi, per come tu lo descrivi, muoia.” Il testo di Borgna racconta l’episodio nel dettaglio, riportando non solo quest’ultimo scambio ma anche buona parte dei discorsi precedenti, e poi racconta anche tutto quello che è successo dopo, dando inoltre riferimenti precisi per andare a reperire il video dell’evento e tutti gli articoli citati.

Ma Borgna non si ferma qui, e rispetta la promessa che aveva fatto già nel titolo, Tutte storie di maschi bianchi morti.

“quando si tratta – controvoglia – di assumere una persona di colore o una donna si va a scrutare il suo curriculum con la lente di ingrandimento, perché il maschio bianco cede il posto solo se ne vale veramente, ma veramente, la pena. Da secoli maschi bianchi mediocri sono ovunque e nessuno ha mai preso in considerazione l’idea di sostituirli in blocco con altre categorie. […] Non solo: una volta estorto il posto, l’esponente della minoranza dovrà poi mostrarsi sempre e comunque grato per essere giunto fin lì.”

Se infatti l’etnia costituisce da sempre un discrimen, un confine da superare, a questo si aggiunge e spesso si somma quello di genere, così che una donna non caucasica che studi il mondo greco e quello romano sembra un essere mitologico. Vale la pena, a questo proposito, andare a spulciare uno degli articoli che Borgna mette in nota, pubblicato da Yung In Chae sulla rivista online Eidolon nel 2018, intitolato White people explain classic to us. Epistemic Injustice in the Everyday Experiences of Racial Minorities. Non che la strada sia spianata per le donne caucasiche, è sottinteso. O almeno, può esserlo all’inizio, dice Borgna, saldamente supportata da statistiche e percentuali, ma arriverà un punto in cui “a partire da una parità di ingresso di ruolo, titoli e pubblicazioni, da una certa età in poi il gap di carriera tra uomo e donna si fa lentamente, ma inesorabilmente, più profondo”. È doveroso aggiungere che il saggio di Borgna non si esaurisce intorno a questo discorso, e sarebbe già comunque considerevole, ma in una seconda parte la studiosa analizza e prova a dare soluzioni e risposte, a quella domanda, più prosaica ma anche più pratica, che chiunque abbia scelto di intraprendere studi umanistici ha sentito farsi: a che serve? Borgna risponde calandosi nella realtà dei licei italiani, quasi un unicum assoluto per la popolarità che consentono di avere alla cultura classica, ma anche nel panorama accademico e lavorativo. Gran parte della questione centrale legata all’idea di “cancellare o eliminare, epurare qualcosa”, se non tutta quanta, se si scava bene a fondo, ruota intorno a una cosa sola, pragmatica e materiale, ctonia come le divinità arcaiche: il corpo. Tutte le discussioni, in fondo, si chiedono se i corpi che stanno dietro ai testi – dei protagonisti, degli autori, della moltitudine di studiosi e studiose, ma anche di tutte le persone che quei testi non li conoscono direttamente ma ne subiscono o ne hanno subito le conseguenze – contino. Si chiedono se possiamo astrarre la nostra fisicità, il nostro essere fatti di carne e ossa, dal pensiero.

Dalle due posizioni del tutto contrapposte, che danno vita a due modi di intendere e affrontare il discorso, dipende tutto: il corpo conta ed è fondamentale, oppure il corpo non conta e deve piuttosto diventare trasparente. Bettini su questo punto si sbilancia, e sostiene, in sintesi, di non fare caso al corpo di chi traduce, di chi scrive, di chi ha scritto; eppure, può farlo solo perché il suo è un corpo privilegiato. I due testi si sfiorano più volte, certo parlano a un pubblico che condivide gli interessi e, forse, alcuni presupposti. Tuttavia, le strade che prendono sono molto diverse, già a ragione della prospettiva da cui osservano il problema della discriminazione. Se si legge Borgna dopo Bettini – come ho fatto io, invertendo, mio malgrado, l’ordine di uscita – si ha la sensazione di non potere più fare a meno della prima. Perché Borgna sembra rendere chiare le situazioni a cui Bettini accenna soltanto, riempendo i buchi di trama che restavano e ti obbligavano a fidarti del tuo narratore. Certo, un saggio è un saggio e deve giustamente riferire l’opinione di chi lo scrive, ma fornire le premesse in modo parziale non dà veramente a chi legge l’opportunità di essere d’accordo o meno. Bettini parla alla pancia, Borgna alla testa. Inoltre, quest’ultima mette sul piatto qualcosa che Bettini non aveva considerato ma che è fondamentale: la spendibilità della materia (in particolare per chi proviene da una situazione che non è la più agiata e ha quindi necessità estrema di affrontare un percorso che sia remunerativo), ossia quante e quali opportunità lavorative offre, cosa che necessariamente esercita un’influenza al momento di fare una scelta. Ciò che resta indubbio per entrambi, pur partendo da considerazioni diverse e portando esempi diversi, è che il tema è ampio, difficile e una soluzione richiede tempo, impegno, fatica e che cancellare del tutto non fa mai bene a nessuno. *Il titolo è una citazione a memoria da un quaderno appartenuto a un qualche scolaro affaticato dallo studio del greco ed esposto nella bellissima mostra Alpha Beta. Apprendere il greco in Italia. 1360-1860, tenutasi presso la Biblioteca Braidense dal 9 settembre ’23 al 9 gennaio ’24.

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