Do what you want ‘cause a pirate is free!

In copertina: Wallpaper di Skull and Bones

 

Fare i pirati nel terzo millennio.

di Stefano Vernamonti


I pirati hanno suscitato sempre reazioni ambivalenti nel corso della storia. Tra gli antichi greci, che vivevano di mare, essi godevano di buona reputazione. Tucidide, nella Guerra del Peloponneso, li ritrae “in cerca di guadagno per sé e di nutrimento per i più deboli” (I, 4-5). Nelle Metamorfosi di Ovidio, il giovane pirata Acete difende Dioniso bambino dalle violenze di altri pirati. È dunque una figura che detiene anche connotazioni positive. Nell’Odissea Ulisse spiega che, nonostante la codardia evidente dei loro saccheggi, i pirati, di fatto, con i bottini potevano elevare il loro status sociale (XIV, 267-273).

Almeno a partire dalla Grecia arcaica di Omero (VIII – V secolo a.C.) la pirateria emerge come un fenomeno dai tratti definiti, sulla base dell’importanza che riveste nella vita quotidiana degli insediamenti costieri del Mediterraneo centrale e orientale. È a quest’epoca che si riferisce Montesquieu quando nello Spirito delle leggi sentenzia: “gli antichi greci erano tutti pirati”.

Già qualche secolo più tardi, la cosiddetta Grecia classica, con le sue reti commerciali, comincia a nutrire con la pirateria un rapporto meno sereno. Ma è con i Romani, scrive Philip de Souza in Piracy in the Graeco-Roman World, che la figura del pirata viene stigmatizzata nell’immaginario collettivo. La storia ci ha consegnato numerose campagne militari romane contro i pirati, nel tentativo di rendere il Mediterraneo sicuro da quello che Cicerone chiamava nel De Officiis “il nemico del genere umano” (III, 107). Due millenni di alterne vicende piratesche non hanno modificato lo stigma in modo sostanziale. 

Ciò nonostante, il nostro immaginario collettivo tiene in grande considerazione la figura del pirata, oggetto di una romanticizzazione che coinvolge numerosi strati della nostra esperienza: film, serie tv, libri, pagine di divulgazione. La figura del pirata sembra avere sempre qualcosa di nuovo da dirci, e spesso può risultare una chiave per meglio comprendere alcuni fenomeni della contemporaneità, come ad esempio il rapporto che instauriamo con il fenomeno della violenza.

È il 2021 e Andreas Malm, attivista e professore svedese, pubblica Come far saltare un oleodotto: un’analisi trasversale degli ultimi trent’anni di attivismo climatico, in cui l’autore registra la progressiva scomparsa di strategie violente come strumento di lotta. La radicalità del terzo millennio, questa la conclusione, sembra aver abbandonato la violenza come spazio legittimo di rivendicazione: per questo motivo gran parte delle istanze ambientaliste è rimasta inascoltata. La proposta di Malm è, invece, di recuperarla.

Farlo richiede però una riflessione sulla legittimità, teorica e pratica, della violenza, ed è questo l’argomento che prova a dipanare il libro di Franco Palazzi, La politica della rabbia. Per una balistica filosofica, uno dei contributi più recenti sul tema. L’autore si domanda perché la rabbia degli oppressi venga considerata una “vergognosa escrescenza” sociale, inutile ai fini di rivendicazioni sociali e politiche, e se la risposta rabbiosa alle ingiustizie debba essere necessariamente violenta.

Prima ancora di provare ad abbozzare una risposta, non si può non notare come il tema della violenza venga abitualmente posto, negli stati cosiddetti liberaldemocratici, in una sorta di campo minato ideologico. Da un lato l’avvento e il mantenimento della liberaldemocrazia hanno richiesto storicamente l’impiego di quantità anche notevoli di violenza; dall’altro, tale regime tende a essere ritenuto una sorta di punto di non ritorno, un assetto istituzionale ormai estraneo al ricorso alla violenza”.

Così Palazzi nelle battute iniziali del libro. La sua linea argomentativa conduce a ristabilire un valore positivo di carattere strutturale alla rabbia e di carattere contingente alla violenza: in parole più semplici, abbiamo il diritto di essere arrabbiati sempre; violenti solo se necessario. Per far ciò, l’autore riconsidera alcuni tratti salienti della pratica filosofica del cinismo, sviluppatasi nell’Antica Grecia e promotrice di uno stile di vita semplice e autentico, della rinuncia ai desideri materiali e della libertà dall’attaccamento alle convenzioni sociali. L’atteggiamento battagliero, l’irriverenza nei confronti dell’ordine costituito, la critica dei vizi e del lusso, tipici dell’atteggiamento cinico, sono per Palazzi un buona base di partenza per l’elaborazione di una filosofia politica della rabbia: “il cinico portava il proprio granitico esempio di vita, il suo messaggio secondo cui l’esistenza più felice è quella perfettamente padrona di se stessa, dove ce n’era più bisogno; attaccava con coraggio l’ottusità, le ipocrisie, il desiderio di prevaricazione sugli altri che è la causa di ogni sopruso e ingiustizia”.

I cinici, uomini ligi al vivere “secondo natura”, sempre padroni di se stessi, sembrano avere davvero poco a che fare con i pirati, ubriaconi senza appello, innamorati di rum, risse e arrembaggi. Bisogna notare però che, quando si fa e si scrive di politica, l’appeal del soggetto del discorso ha un ruolo fondamentale. La politica ha bisogno di figure di riferimento archetipiche catalizzatrici di principi, che rappresentino un comune denominatore per le forme più radicali di rivendicazione politica, da Non Una Di Meno a Extinction Rebellion. Palazzi riscontra questo vuoto e lo riempie con un soggetto valido, che riesce a far dialogare tra loro figure diverse come Malcolm X, Audre Lorde e Valerie Solanas, ma di luce fioca: i cinici appunto, una figura di nicchia nel panorama filosofico, già di per sé ristretto, non di facile accesso. Proseguendo la sua metafora balistica, bisogna solo ricalibrare leggermente il tiro: non è sufficiente il lanternino di Diogene; abbiamo bisogno delle fiaccole infuocate dei pirati. Questi ultimi, ben più famosi dei cinici, condividono numerosi dei tratti evidenziati da Palazzi. Lo scopo di questa analogia è di utilizzare una figura più facilmente identificabile, più presente nell’immaginario collettivo rispetto al filosofo cinico, che ne condivida le caratteristiche essenziali ma risulti di più efficace presa psicologica. Per farlo, confronteremo gli aspetti evidenziati da Palazzi con quelli descritti a proposito dei pirati da Marcus Rediker nel suo libro Canaglie di tutto il mondo.

La forte componente biografica è il primo tratto cinico che emerge. L’adagio “sei quello che fai e non quello che dici” trova senza dubbio nei filosofi cinici i più esemplari rappresentanti: la loro esistenza randagia, il loro rifiuto delle norme sociali e di qualsiasi imposizione esterna non sono stati cesellati in scritti eruditi; essi riposano invece negli aneddoti sulla loro vita giunti fino a noi, come quello dell’incontro tra Alessandro Magno e Diogene di Sinope il quale, alla domanda di Alessandro su cosa desiderasse, rispose “spostati, mi copri il sole”. I pirati, proprio come i cinici, teatralizzavano il pensiero, lo portavano in scena: sfregio vivente delle norme sociali, il pirata conduceva la stessa vita randagia del cinico, e come lui aveva un carattere estremamente bellicoso. La vita dissoluta piratesca non è di ostacolo in questa analogia, poiché il cinismo non deve di necessità essere associato ad una vita di ascesi e rinunce; semmai ad una inflessibile coerenza, figlia di un processo osmotico tra convinzioni e comportamenti, che apre la strada alla seconda caratteristica. I cinici, scrive Palazzi, sottoponevano “al vaglio critico ogni singolo aspetto dell’esperienza umana, senza esclusioni: i vizi che essi contrastavano includevano abitudini, modi di fare, leggi, organizzazioni politiche o convenzioni sociali”.

Questo modus operandi appartiene anche all’odierna intersezionalità delle lotte, ovvero ad ogni forma di rivendicazione che tenga conto delle altre modalità strutturali di ingiustizia alle quali non si riferisca direttamente. Stupirà forse venire a conoscenza del fatto che i pirati, seppur in forma più ingenua dei cinici (ed eredi contemporanee e contemporanei), la praticavano. B. R. Burg, nel suo libro Pirati e sodomia, spiega come i rapporti omosessuali non fossero tra loro solo tollerati, ma considerati assolutamente normali. Inoltre, la profonda misoginia della vita marinara era attenuata in alcune sue forme a bordo delle navi pirata: le donne potevano arruolarsi nelle ciurme, quelle che lo diventavano non erano maltrattate e spesso partecipavano agli arrembaggi i quali, contrariamente a quanto si pensa, erano un diritto riservato solo ai membri più audaci e rispettati dell’equipaggio. Il nuovo concetto borghese di femminilità, nato agli inizi del diciannovesimo secolo, soffocò questa eredità, ma non è un caso che le femministe di quel secolo utilizzassero spesso l’esempio delle donne soldato e marinaio per mettere in discussione l’idea dominante dell’innata debolezza fisica e mentale della donna.

Questa disciplina sulle navi, così come altri aspetti, era regolata dal codice piratesco, il quale prevedeva accordi scritti, straordinariamente uniformi tra diversi equipaggi, che regolavano tutti gli aspetti della vita marinara, come la spartizione del bottino, l’elezione del capitano, le norme della disciplina. Spicca, in questo codice, un’elevata sensibilità nei confronti dell’infortunio “sul luogo di lavoro”: uno degli articoli stabiliva infatti che una parte del bottino fosse destinata a un «fondo comune» a disposizione di coloro che avevano riportato ferite di effetto duraturo, ad esempio la perdita di un occhio o di un arto. I pirati avevano ben chiaro chi fossero i soggetti deboli della vita marinara: non solo loro stessi, l’equipaggio, ma anche le donne, i mutilati. Si tratta quasi di un esempio di welfare state ante litteram ma, essendo in mare, ci accontenteremo di welfare ship.

Un terzo aspetto da affrontare è la conciliazione della rabbia con una disposizione d’animo che non debba essere frustrata. Il senso del dovere spesso sotteso alla ribellione ad un sistema di regole oppressive deve ribaltarne i tratti moralistici, e quindi catalizzare gioia e ottimismo. Militanza non è martirio, ma indaffarato ottimismo. La predisposizione cinica all’ironia, allo sberleffo nei confronti del potere costituito, è un esempio di questa condotta, ma i pirati sono decisamente i maestri indiscussi di questa way of life. Felici, sempre ubriachi, sbeffeggiavano i capitani delle navi con punizioni davvero divertenti, prima di rilasciarli: una di queste è the sweat (la sudata): sul ponte centrale circa venticinque uomini si dispongono attorno al capitano con punte di spada, temperini, compassi, forchette; il violino suona un allegro motivo, e quello deve correre in mezzo per circa dieci minuti, mentre ognuno con il suo strumento lo colpisce nel posteriore. 

I pirati accettavano consapevolmente una vita breve, precaria ma felice, totalmente libera da qualsiasi costrizione, e si dedicavano con sollecitudine alla liberazione di tanti marinai dalle condizioni schiavistiche delle navi; tutto ciò nonostante lo spettro del cappio, che in qualsiasi momento avrebbe potuto cingere  loro il collo. Questa era, per i pirati, “l’unica vita per un qualche uomo di valore”. Da cittadino dei mari più che del mondo, ma Diogene l’avrebbe sicuramente approvato.

Nel capitolo di Palazzi su Audre Lorde, poetessa statunitense, si lascia spazio all’idea cardinale della creazione, all’interno dei movimenti di opposizione, di ecosistemi solidi a sufficienza da contemplare manifestazioni di rabbia intesa come momento di autoformazione. Un esempio calzante: segnalare con forza, all’interno di un gruppo, la riproposizione inconscia di dinamiche di potere che si combattono all’esterno. Questo chiama in causa il quarto tratto saliente del cinico: l’inflessibile coerenza sui principi d’azione. Applicato al presente, questo comportamento prevede che un “gruppo che si batte per una maggior inclusività delle istituzioni statali farà bene a non avere un’organizzazione leaderistica al proprio interno, così come non dovrebbe riprodurre le asimmetrie di potere che giustamente critica in un certo ambito (poniamo il genere) lungo altri assi arbitrari di differenziazione sociale (per esempio l’età)”.

Anche in questo caso, i nostri amici dall’occhio bendato sono dei soggetti perfetti da accostare a questa pratica: in primo luogo, il capitano e il capomastro, le uniche due figure di comando pirata, erano eletti da un consiglio generale composto da tutta la ciurma, ed erano cariche sempre revocabili. Spesso, nelle ciurme numerose, moltissimi ruoli erano elettivi e quello del capitano, peraltro, aveva una valenza effettiva solo nei momenti di arrembaggio. In secondo luogo, la rabbia era una possibile manifestazione per segnalare un allontanamento dai principi condivisi di uguaglianza e solidarietà: esisteva, ad esempio, una codifica rituale del duello tra i pirati per risolvere i conflitti interni; inoltre, chiunque rubasse o prendesse per sé quote di bottino superiori al dovuto poteva essere abbandonato su un’isola in mezzo al mare; più in generale, il consiglio dei pirati decideva l’entità delle punizioni per chiunque violasse i principi pirateschi. Va da sé che niente di tutto questo avveniva di consuetudine sulle navi. Le soluzioni adottate, che oggi ovviamente si possono considerare estreme, riflettono un utilizzo della rabbia funzionale a creare e ricreare una cultura piratesca che nei suoi caratteri basilari si opponesse a quella “regolare” marinara.

C’è un ultimo punto da evidenziare, che emerge in un’intervista di Palazzi al Tascabile e che riassume bene quanto affrontato finora. La rabbia, come ricordato, non deve di necessità essere violenta, poiché questa è solo una sua contingente manifestazione; tuttavia, laddove assume questa forma, va sempre indirizzata verso le istituzioni sociali rappresentanti di un’ingiustizia e non la persona specifica che di volta in volta le incarna.

La categoria di odio di classe – spesso citata ma curiosamente quasi mai concettualmente sviluppata in profondità – è internamente contraddittoria perché proprio nel pensiero marxista e marxiano forse più che di odio sarebbe opportuno parlare, appunto, di rabbia, cioè di qualcosa che si rivolge ai ruoli sociali con cui abbiamo a che fare”.

A tal proposito, è bene riconsiderare un luogo comune sui pirati e sottolineare che la loro rabbia violenta incarnava esattamente quella descritta da Palazzi: i capitani delle navi arrembate venivano (a volte) uccisi non in quanto capitani, ma in quanto artefici, perpetratori di un sistema violento di sfruttamento su quel mondo in miniatura che è, da sempre, la nave; infatti, nel caso in cui il capitano, dopo un’attenta consultazione tra i sottoposti della sua ciurma e i pirati, fosse stato considerato uomo buono, veniva liberato; in alcuni casi gli veniva persino restituita la nave. Per tutta risposta, una volta rientrati a terra, i capitani si rimettevano immediatamente in mare, andando a caccia degli stessi pirati da cui erano stati graziati. La polarizzazione rabbia (pirata) – odio (capitano) non potrebbe essere più evidente: il soggetto che odia, afferma Palazzi, si rappresenta l’oggetto del suo odio come immutabile e così l’unica soluzione politica di tale sentimento è lo scontro e l’annientamento di una delle due parti.

In conclusione, la rabbia sembra essere una delle poche isole non ancora soggette al capitalismo di consumo, un’area di significato, teorico e pratico, che intrinsecamente non si presta a quella riduzione a merce di scambio che Jean Baudrillard sottolineava a proposito della tolleranza nel suo libro La società dei consumi:

“Il fatto che oggi nemici una volta mortali si parlino, che le ideologie più ferocemente opposte «dialoghino» […], non significa affatto un progresso «umanistico» nelle relazioni umane, una maggior comprensione dei problemi, e altre simili insulsaggini. Tutto ciò significa che le ideologie, le opinioni, le virtù e i vizi non sono più che un materiale di scambio e di consumo. In questo contesto la tolleranza non è più né un tratto psicologico, né una virtù: è una modalità del sistema stesso”.

Il capitalismo ha inglobato la tolleranza, autodefinendosi una società pluralistica; ha assorbito l’arte, trasformandosi in società dello spettacolo; ha persino tentato di monopolizzare la rabbia e la violenza attraverso il sistema statuale, ma è rimasto uno scarto irriducibile. Per questo, forse più di qualsiasi altra area, esse si prestano ad essere spina nel fianco della società capitalistica. Ristabilire la loro legittimità è imperativo, affinché non rimangano appannaggio della sfera statuale.

Alcuni studiosi sostengono, in virtù di quanto messo in luce fin qui, che la nave pirata sia stata il prototipo dell’organizzazione di un soggetto collettivo che sia “contro”. E allora, perché non salire a bordo? Bisogna essere realisti: storicamente, l’arco temporale dell’età d’oro della pirateria non copre più di cinquant’anni, per non parlare del fatto che la maggior parte dei pirati finì impiccata nelle piazze delle città portuali inglesi, a monito presente e futuro. Eppure – scrive David Graeber nel suo libro Utopia politica di Libertalia – “ovunque nel mondo la gente non ha mai smesso di tramandare le storie dei pirati e delle loro utopie […] il bucaniere sdentato o con la gamba di legno che sventola la sua bandiera di sfida in faccia al mondo […] rappresenta una visione profondamente proletaria della liberazione, necessariamente violenta ed effimera”, dato che proprio sulle navi, secondo l’autore, nacque la rigida disciplina capitalistica. E allora, “fintanto che quelle forme di disciplinamento, o le loro più subdole e insidiose incarnazioni contemporanee, continueranno a irreggimentare le nostre vite lavorative, noi continueremo a fantasticare sui bucanieri”.

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