In copertina: Domus Tiberiana
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di Sara Ponzo
Come doveva apparire il palazzo imperiale agli occhi di un cittadino romano? Come doveva sentirsi l’imperatore all’interno di quella sconfinata residenza che si ergeva al di sopra della piazza del Foro, brulicante di persone e di idee? Ora possiamo immaginarlo visitando il primo palazzo imperiale di Roma: la Domus Tiberiana, e passeggiare lentamente tra i suoi resti come un viaggiatore del Grand Tour agli inizi del XIX sec. A quasi cinquant’anni dalla sua chiusura, il 21 settembre di quest’anno, ha riaperto al pubblico uno dei siti più iconici del Parco Archeologico del Colosseo, con le sue imponenti arcate che si stagliano sulle rovine del Foro Romano. Con la riapertura del palazzo viene, infatti, ripristinata la circolarità dei percorsi tra Foro Romano e Palatino attraverso la Rampa di Domiziano e i cinquecenteschi Horti Farnesiani.
Si riscopre, così, una continuità degli spazi tra le residenze palatine e i luoghi delle attività politiche, economiche e religiose del Foro sottostante. Si potrà riaccedere all’antico cammino che percorreva l’imperatore per raggiungere la sua residenza privata, entrare nel suo palazzo camminando per il Clivo della Vittoria e affacciarsi sugli ambienti interni di epoca adrianea, in cui è allestita la mostra permanente “Imago Imperii” – a cura di Alfonsina Russo, Maria Grazia Filetici, Martina Almonte e Fulvio Coletti – che racconta, attraverso diversi reperti archeologici, la vita del palazzo e della sua corte nel corso dei secoli. Dunque, il nostro percorso di visita si snoda nelle viscere della reggia tra sale espositive e multimediali, in cui si trova anche un’interessante ricostruzione oleografica del monumento e in cui, i reperti qui esposti diventano parte integrante del palazzo, il quale sembra quasi volersi rivelare al visitatore attraverso piccoli preziosi frammenti di vita antica rimasti nascosti per secoli. La mostra “Imago Imperii” si presenta oggi come il punto di arrivo degli ultimi anni di scavo e restauro del sito, e parte essenziale di questo. Un museo dentro a un museo. D’altronde, per Maria Antonietta Tomei, già l’archeologo Pietro Rosa, alla fine del XIX sec., “arrivò a concepire l’area archeologica come un grande museo di se stessa”, quasi anticipando la contemporanea idea di museo diffuso. La Domus Tiberiana si delinea come lo spazio espositivo più idoneo per ospitare la nuova mostra; il palazzo imperiale ne è la cornice perfetta. Ma perché chiamiamo la Domus Tiberiana, “palazzo”? Il termine deriva etimologicamente dal toponimo Palatium, ovvero il colle Palatino dove appunto si svilupparono i palazzi imperiali, anche se il monte, luogo simbolo della nascita di Roma secondo il mito, era da sempre il luogo privilegiato delle famiglie aristocratiche che qui avevano eretto le loro dimore già in epoca repubblicana. Estesa per circa quattro ettari, la Domus Tiberiana, però, è la prima vera e propria residenza imperiale e si erge sul versante nord occidentale del colle. Sebbene la denominazione “tiberiana” faccia riferimento a Tiberio, secondo recenti ricerche, la prima fase costruttiva si data all’epoca neroniana, contestualmente all’edificazione della Domus Aurea, ovvero all’indomani dell’incendio del 64 d.C. Ampliata sotto Domiziano (81-96 d.C.) e Adriano (117-137 d.C.) sappiamo che continuò ad essere in uso fino ad epoca tarda, tanto che fonti medievali, come il Liber Pontificalis, attestano che la domus fu scelta da papa Giovanni VII come sede pontificia nel VII sec. Dopo secoli di abbandono, le rovine del palazzo divennero, in parte, le sostruzioni dei nuovi Horti Farnesiani, voluti dal cardinale Alessandro Farnese a metà Cinquecento, e poi di nuovo dimenticate. Ma qual era lo stile di vita del palazzo? Quali sono gli oggetti che sono passati tra le mani dell’imperatore, dei servitori o dei membri della corte? La riscoperta del cd. “immondezzaio” in uno degli ambienti recentemente scavati, ha permesso il ritrovamento di anfore – alcune con il loro contenuto all’interno- , ceramiche di uso comune, resti animali, lucerne e qualche moneta, pertinenti a un periodo che va dal V sec d.C. all’Alto Medioevo. Questo ci permette di capire quali erano le merci richieste dalle élite che frequentavano il palazzo, quali erano gli scambi commerciali e soprattutto il fatto che queste attività si siano prolungate fino alla seconda metà del VII sec. quando la domus venne scelta come sede apostolica prima del trasferimento al Laterano. Le piccole monete di bronzo, inoltre, ben si inseriscono nel quadro delle attività commerciali e produttive connesse alla vita e all’approvvigionamento della residenza imperiale. Data la vicinanza alla Domus di tabernae, magazzini, uffici e abitazioni, non è da escludere che le monete qui ritrovate possano essere state utilizzate da coloro che svolgevano attività nei pressi del palazzo: artigiani, mercanti, impiegati in attività amministrative, personale di servizio. A questi ritrovamenti si affiancano reperti più antichi , di tarda età repubblicana, che ci confermano la presenza di residenze aristocratiche nella zona, prima della costruzione della Domus, e statuette e lucerne a tema isiaco, dionisiaco e mitraico data la presenza nel palazzo di piccoli luoghi di culto per i riti misterici, molto in voga soprattutto a corte. Sembra quasi di vederli i burocrati indaffarati, camminare velocemente per i criptoportici, le ricche matrone con i loro cosmetici, i rampolli della famiglia imperiale mentre studiano seguiti dai loro precettori greci. Sembra quasi di toccare le esotiche merci provenienti da terre lontane, le spezie, la seta o le eleganti opere d’arte del mondo ellenico, giunte a Roma per adornare i ricchi ambienti. E se non riusciamo a cogliere le sfumature quotidiane di un mondo ormai lontano, proviamo almeno a immaginare lo sfarzo lasciato dalle architetture imperiali nel loro antico splendore. È, forse, il linguaggio architettonico della Domus che più rappresenta la realtà grandiosa degli imperatori e Domiziano più di tutti, creerà, secondo Francesca Caprioli, una “vera grammatica palaziale”, fatta di imponenti strutture, stucchi, giochi di luci ed ombre e splendidi marmi. Il maestro marmorario del palazzo fa qui leva su due concetti dell’architettura antica: il decor, per cui gli elementi architettonici sono sia statici che decorativi, e lo splendor, che indica la capacità del marmo di riflettere la luce nello spazio circostante. L’intento è quello di generare stupor, per la Caprioli: “un senso di istupidimento piacevole, e contemporaneamente, di esaltazione subliminale del suo committente”. In sostanza, una potentissima espressione di potere. D’ altronde Svetonio, nella sua opera “Vita dei Cesari”, ci ricorda che Domiziano amava mostrarsi al pubblico come dominus et deus, e quale miglior modo di apparire divino se non vivere in un palazzo dove preziosissimi marmi potessero scintillare in enormi ambienti luminosi in cui magnificenza e potere si mescolavano alla perfezione? Anche se quei marmi oggi non ci sono più, la Domus Tiberiana è stata restituita alla collettività grazie ad un incessante lavoro di scavi, restauri e ricerche che si susseguono da quando, negli anni settanta del Novecento, vennero identificati gravi rischi di crollo dovuti a progressive fasi di abbandono e degrado, dissesti ambientali, danni causati dagli antichi terremoti, trasformazioni edilizie avvenute nel tempo e, soprattutto, a variazioni d’acqua nel terreno che hanno provocato lo scivolamento della struttura verso valle. Alcuni lavori di scavo erano già iniziati nell’Ottocento sotto la supervisione dell’archeologo Pietro Rosa, che permise la riapertura del Clivo della Vittoria, fino ad allora rimasto sepolto da quindici metri di terra. Seguirono altri lavori di consolidamento e monitoraggio delle strutture gravemente danneggiate, portati avanti negli anni cinquanta del secolo scorso e infine la complessa attività di restauro iniziata nel 2006, sotto la direzione dell’architetto Maria Grazia Filetici, completata nel 2023. L’impiego di materiali rispettosi delle strutture antiche, il consolidamento delle volte, le soluzioni antisismiche, insomma un corretto dialogo tra le antichità e l’uso delle ultime tecnologie d’avanguardia, hanno riconsegnato a Roma e al mondo un sito imponente, meraviglioso e unico nel suo genere, reinserendolo nel suo contesto all’interno della millenaria stratificazione del parco archeologico.