Un posto che non ti vuole: decostruire la restanza

In copertina: Il Treno sta arrivando di Frits Thaulow

 

Cosa vuol dire crescere in un’area interna: non tutti possono essere quelli che restano.

di Ludovica Salvi


Di recente si è cominciato a parlare di restanza nell’accezione del termine coniata da Vito Teti, che la definisce “Non un pigro e inconsapevole stare fermi, un attendere muti e rassegnati. Indica, al contrario, un movimento, una tensione, un’attenzione. Richiede pienezza di essere, persuasione, scelta, passione. Un sentirsi in viaggio camminando, una ricerca continua del proprio luogo, sempre in atteggiamento di attesa: sempre pronti allo spaesamento, disponibili al cambiamento e alla condivisione dei luoghi che ci sono affidati. – Una scelta che comporta responsabilità e pazienza, quindi. Che permetta, in qualche modo, di alterare la sorte del luogo in cui si sceglie di rimanere – […] comporta riscoprire la bellezza della sosta, della lentezza, del silenzio.” Senza però scadere nei cliché o, come dice Teti, in un  «idealismo utopistico del passato», ovvero senza perdere di vista il proprio obiettivo in virtù di una vita lenta che risulta, ormai, anacronistica; non deve essere infatti “un tentativo di proiettare nel passato l’ideale che non è vissuto nel presente”, ma la voglia di restare con la consapevolezza di poter riuscire a migliorare il luogo da cui si proviene.

Osannate da molti come loci amoeni, abbandonate da altri perché luoghi “senza futuro” ed effettivamente vissute da pochi, le aree interne sono la casa di circa 13,4 milioni di persone (22,7% della popolazione residente nel 2021 – secondo openpolis); alle aree interne vanno aggiunte, e spesso si sovrappongono, le cosiddette zone depresse, ovvero luoghi dove sono esistite in precedenza, a distanza di una o due generazioni al massimo, condizioni economiche normali o di prosperità che, però, a causa di trasformazioni di ordine economico, interno o internazionale,sono oggi caratterizzate da un basso reddito e da una diminuzione del patrimonio preesistente. Crescere in questi luoghi è una sfida. Vuol dire saper riconoscere, prima di tutto, che se hai delle aspettative, dovrai andare via. E non è sempre facile.

Il libro Voglia di restare, Indagine sui giovani nell’Italia dei paesi curato da Membretti, Leone, Lucatelli, Storti e Urso, racconta storie di giovani che non solo restano, ma decidono di tornare come cittadini attivi. Restare e tornare non sono concetti che si equivalgono: si può tornare solo dopo aver acquisito altrove gli strumenti adatti a farlo, sia economici (aver lavorato per anni lontano da casa o all’estero e aver accumulato un capitale abbastanza grande che permette di tornare), che culturali (aver studiato in una città lontana da casa, spesso fuori regione, o all’estero). Restare vuol dire, invece, avere la possibilità di acquisire in loco gli strumenti adatti per crearsi un futuro nel posto da cui si proviene.

Crescere in un luogo vuol dire metterci delle radici, conoscerne le tradizioni, la storia, parlarne il dialetto; in sintesi, significa possedere un’identità geografica e umana, necessaria a ogni individuo, che lo fa sentire parte di una comunità. Le radici, perciò, sono la garanzia di avere un posto in cui tornare, in cui sentirsi effettivamente a casa. Per questo chi torna non va condannato, ma neanche osannato. Tornare è una scelta d’amore, ma è pur sempre una scelta, ben diversa dall’avere diritto a restare. Tutti vogliono restare, ma non in un posto che non permette loro un qualche tipo di soddisfazione personale, lavorativa o intellettuale. Le persone che se ne vanno sono soprattutto giovani e le storie che possono raccontare sono tante e andrebbero ascoltate tutte, perché chi se ne va ha sempre qualcosa da dire. L’immobilità economica e culturale è un problema che le piccole realtà stentano a risolvere, spesso non se ne occupano affatto e tutto rimane sospeso e incastrato tra tante iniziative inconcludenti.

Lorenzo ha affrontato questo problema andando a studiare fuori, a Bologna. Si è allontanato ancora di più, facendo un anno di erasmus in Germania. Ha 22 anni, viene da un paese vicino Roma ed è cresciuto a Terni, una realtà che “si spopola, perché non ha niente da offrire”. Ha parlato anche del concetto di aree interne, definendolo fuorviante “perché dà al problema una dimensione geografica; ma il problema non è geografico, è politico: le cose sono state messe lontane da noi, non siamo noi ad essere lontani dalle cose.” Di conseguenza, si tende a spostarsi in centri culturali ed economici più attivi; in generale, città più grandi e meno isolate. Non ci sono grandi iniziative culturali in città piccole come Terni: il teatro Verdi, uno dei teatri più grandi dell’Umbria, è chiuso da anni. E non serve andare così tanto indietro per ricordare una Terni completamente diversa. Fino agli anni 80 la vita culturale, politica ed economica in città era vibrante. Ad oggi è ridotta al minimo e di questo rimane simbolo il teatro, di cui hanno rifatto solo la facciata. I più anziani ricordano una città “in cui era bello vivere”, come hanno detto i nonni di Lorenzo. “Io questa cosa non la vivrò e non avrò neanche la possibilità di viverla, a meno che chi ha delle radici forti, che io non ho, decida di tornare, o più raramente di rimanere, come atto d’amore per la città. Altrimenti bisogna andarsene, non c’è niente che ti aspetta lì. I discorsi emozionali sono gli unici che reggono. Le persone, se tornano, lo fanno dopo aver fatto altro: non c’è restanza, c’è chi torna.” Inizia ad essere lecito chiedersi, già da ora, se è davvero possibile restare. Lorenzo è nato a Fiano Romano, realtà molto diversa da Terni, che però, secondo lui, ha subito la stessa sorte: “non era bello viverci: non c’era più niente, era solo un paese-dormitorio per chi lavorava a Roma, ci sono un sacco di ecomostri e basta – il tono con cui chiude il discorso è polemico – una buona fetta di persone che parla delle aree interne non le ha effettivamente vissute.” Lorenzo pone l’accento su quella che Teti non considera restanza, ma una forma di idealismo che non porta a cambiare le sorti dei luoghi che si vivono, ovvero quella di ricordare un passato, neanche troppo lontano, in cui si poteva restare. Se è l’amore per i luoghi che ci sono affidati a tenerci da qualche parte, allora è vero quello che dice Lorenzo: bisogna affidarsi soltanto a chi questi luoghi li ama, e sperare che sia in grado di cambiare qualcosa.

Il discorso che mi ha fatto Emanuele, 23 anni, originario di Giovinazzo (Bari) sul perché ha scelto di andare via è simile a quello di Lorenzo, ma pone problemi diversi: quello dell’attaccamento alla famiglia e della reale possibiltà di andarsene; vivere fuori, per quanto necessario nella maggior parte dei casi, e anche nel suo, non è qualcosa che tutti possono permettersi: rimane un costo oneroso per molte famiglie. Emanuele ha frequentato prima l’università a Molfetta, dove ha studiato filosofia, poi ha continuato il suo percorso di studi a Roma, all’università Lateranense dove sta per laurearsi in Teologia. “La mia è stata una scelta di coraggio, ho lasciato la mia famiglia – che per me è stata sempre essenziale – e mi sono dovuto rendere conto del fatto che per conoscere gente diversa da me ed avere delle opportunità, non solo a livello culturale e lavorativo, ma anche a livello sociale, mi sarei dovuto spostare” In sintesi, si è sentito obbligato ad andarsene. Gli ho chiesto com’è la vita di chi ha scelto di restare, e lui mi ha risposto che un sacco di persone non si spostano perché non hanno i soldi,  “vivere fuori costa, è comunque una forma di privilegio. Delle persone che conosco, nessuna ha desiderio di tornare. Una ragazza soltanto ha deciso di tornare dopo aver studiato: si è trovata a rivalutare il suo percorso di studi fino a considerarlo completamente sbagliato.” Ha  parlato anche di come, in alcuni casi, l’attaccamento alla famiglia sia un po’ troppo: “Altre persone che restano si accontentano, fanno una scelta di comodo. La comfort zone piace a tutti. Ritardano molto il diventare adulti, sono mammoni: i genitori sono i primi che non vogliono mandare via i figli”.

Secondo ISTAT la percentuale di giovani tra i 18 e i 34 anni che vive in famiglia in Italia è del 69,4% al 2022, questo dato conferma “una tendenza in atto a procrastinare le transizioni familiari.” Inoltre, il processo risulta ancora più evidente fra le componenti giovanili del Mezzogiorno, dove i 18-34enni presentano una più diffusa propensione alla permanenza nella famiglia d’origine, soprattutto fra i maschi che sono il 79,4%, mentre le femmine si attestano al 65,9%; il dato è più alto sia rispetto alle precedenti generazioni di coetanei degli stessi territori, sia rispetto al Centro e soprattutto al Nord Italia. Quasi il 70% dei giovani tra i 18 e i 34 anni rimane a casa e sarebbe, in questo caso, una scelta di comodo considerarli tutti “mammoni”, escludendo a priori tutta un’altra serie di fattori che complicano lo spostamento, che non solo solo di natura economica, ma anche di natura sociale. Andarsene non è mai facile e comporta, almeno in un primo momento, uno spaesamento ed una confusione, che portano a sentirsi soli. La solitudine è un sentimento comunissimo per i fuorisede, ma non sempre è un fatto di nostalgia. Spesso e volentieri c’è un fortissimo senso di colpa. Non tutti riescono a mettere radici nel posto in cui nascono e, spostandosi, faticano a metterle nel posto in cui arrivano. La restanza, quindi, non può basarsi soltanto sul desiderio di voler restare in virtù dell’attaccamento, perché non tutti si sentono vicini al proprio luogo d’origine, che li fa sentire schiacciati. Nessuno dovrebbe sentirsi oppresso, o solo, nel posto che dovrebbe chiamare “casa”. “Non puoi restare in un posto che non ti vuole. Soprattutto, se andarsene viene considerato un capriccio e uno spreco di soldi, non puoi neanche tornarci”. Questo è quello che mi ha detto Debora, 20 anni, di Vico Equense (Napoli), che prima di trasferirsi a Roma ha fatto il liceo da pendolare, a Sorrento. Ogni mattina impiegava circa un’ora e mezza ad arrivare a scuola, anche se il tragitto in macchina si sarebbe potuto tranquillamente compiere in meno di mezz’ora. La circumvesuviana non funziona, non ha coincidenze, e i 15 minuti di treno di Debora si prolungavano in lunghe attese e tragitti a piedi: “Ho scelto di venire a Roma per smettere di fare la pendolare, sarebbe stato troppo stressante, anche perché i mezzi da me non funzionano: avrebbe limitato anche la mia vita sociale. Avrei speso quasi tutto il mio tempo libero sui treni.” Debora ha fatto un discorso che ho sentito fare molte volte, da tantissimi fuorisede: “Inizialmente mi sono trovata molto bene: mi piaceva fare tutto, trovavo bello essere autonoma e responsabile di me stessa. – poi, dopo essersi ambientata, l’abitudine ha dato spazio a quella solitudine che chiunque abbia lasciato casa si è trovato ad affrontare – mi sono abbattuta, mi sentivo sola anche con gli altri, soprattutto con i miei familiari: quando tornavo mi sentivo fuori luogo, e molte persone hanno criticato la mia scelta di andare via. In un luogo chiuso come il mio paese, scegliere di essere fuori sede è considerato un capriccio, non una scelta coraggiosa. Le uniche persone che mi hanno sempre supportato sono i miei genitori. Andarsene, secondo le persone del mio paese, è un po’ come dire che non apprezziamo i sacrifici che fanno per noi i nostri genitori; la gente ti guarda come a dire «Qui avevi tutto, perché vuoi far spendere tutti questi soldi alla tua famiglia?». Per il resto non ho niente che mi lega emotivamente a casa mia, non mi sento legata al territorio. Non ho neanche amici per cui sarebbe valsa la pena restare, o ritornare nel fine settimana». Debora ha fatto presente anche che molte persone che, come lei, sono venute via, poi sono tornate, perché sentivano nostalgia di casa, rinunciando agli studi. Restare per amore, per bisogno della propria casa, è una scelta coraggiosa come andare via, però non può e non deve essere il motivo per cui si smette di studiare.

Nonostante tutto, andarsene rimane una scelta valida, in alcuni casi necessaria, o forzata; altre volte diventa un andare contro tutti, nella speranza che, prima o poi, riuscirai a dimostrare che hai fatto la cosa giusta. Restare, invece, è una scelta-conseguenza: o si ha il lusso di avere la strada spianata, o non si può andare via; in un ipotetico terzo caso, si sceglie “per amore”. Nessuno vuole essere pigramente e inconsapevolmente fermo, come dice Teti, vuole solo poter stare a casa sua; purtroppo, non a tutti è concesso. I sentimenti che, secondo il professore, provocano la restanza, in ultima istanza, sono in realtà i sentimenti che si provano tornando a casa dopo tanto tempo: il concetto, estremamente romantico, della vita lenta, che significa mezzi che non passano, la bellezza della sosta ovvero l’assenza di strade asfaltate che possono condurre a casa; il silenzio è quello imbarazzante che si prova ogni volta che qualcuno chiede «perché non torni?». Una ricerca continua del proprio luogo è la fatica continua di ricostruirsi una casa lontano da casa; pienezza di essere, persuasione, scelta, passione sono i sentimenti che accompagnano chi si rende conto, a malincuore, di non poter restare. Altrimenti, se restare fosse stata davvero soltanto una scelta, l’avremmo fatta tutti.

2 Comments

  1. Complimenti, una sacrosanta verità descritta anche nei minimi particolari con grande passione e precisione.

  2. L’alisi attenta di una realtà che interessa gran parte del nostro bel paese.Scritto bene e comprensibile a tutti

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