In copertina: Nadia Lee Cohen, Future beach (2019)
L’immaginario derivativo e esploso di Nadia Lee Cohen
Vediamo due donne dalla pelle abbronzata, i cui possenti muscoli vengono messi in risalto dalla patina lucida della crema solare, custodita nel fianco dello slip della bionda in primo piano. L’imponenza statuaria dei corpi tonici viene rimarcata dalla posa – per nulla naturale – che sembra quasi rivestire le due figure femminili nel ruolo di Barbie Post-Human e Barbie Geneticamente Modificata. Tre seni sbucano, infatti, da ciascun bikini, al quale vengono abbinati sfarzosi gioielli diamantati, tacchi sgargianti e perfetta manicure. A rendere la scena grottesca ancora più inquietante è, senza dubbio, il sorriso forzato – falso come la scenografia pseudo-balneare che vi fa da sfondo – sui visi truccati di entrambe le donne, il cui sguardo vitreo è rivolto fuori campo.
Questo è solo uno degli scatti con cui Nadia Lee Cohen immortala gli eccentrici personaggi del suo mini-film per GCDS e Paper Magazine: Future Beach. C’è qualcosa di intrinsecamente attraente nella fotografia di questa giovane artista britannica. I soggetti fotografati sono volutamente caricaturali e i set in cui si muovono hanno un’atmosfera tesa e ostentatamente artificiosa. La fotografia di Cohen è un madido sogno delirante, un museo delle cere diretto da Lynch. Non a caso Cohen cita spesso il regista di Inland Empire come una delle sue principali fonti di ispirazione. Il senso del perturbante, che fa da leitmotiv a ogni opera dell’artista, accompagna lo spettatore in questa familiare realtà alternativa, sospesa tra ciò che – sebbene non venga mostrato – vi è insitamente raccontato e lo spietato scatto fotografico che freeza la scena, donandole un inquietante stato di calma perenne. La narrazione – o meglio, la serie di indizi di una potenziale narrazione – straripa dai limiti spazio-temporali della fotografia e prosegue nell’immaginario dello spettatore che, a prescindere dal proprio gusto personale, difficilmente rimane impassibile di fronte a questo tipo di opere.
Nadia Lee Cohen, classe ’92, è una fotografa e regista inglese. Nata e cresciuta nella campagna dell’Essex, decide di trasferirsi a Los Angeles, spinta dal richiamo della affascinante Hollywood. Questa aspettativa, forse un po’ troppo naif anche per un british, ha dovuto fare presto i conti con la molto meno allettante realtà losangelina. Le perfette e iconiche palme della Walk of Fame fanno da sfondo all’ineluttabile decadenza delle celebrità-meteora, allo sgretolamento del grande sogno americano e alla triste miseria di chi è costretto a vivere per le sporche strade di LA. Davanti agli occhi della fotografa britannica, la città diventa – sebbene lo sia a tutti gli effetti sempre stata – tutto a un tratto terrena, ma non per questo meno affascinante, anzi. È proprio il connubio tra lo stereotipo americano consumistico e ciò che brulica realmente sotto questa facciata – sostiene Cohen su AnOther Magazine – a convincerla definitivamente a scegliere questa paradossale città come sua “musa disfunzionale”. La “fiera della decadenza americana”, come la chiama l’artista, spodesta così il trito e ritrito cliché hollywoodiano ed è ora che, tra glamour e trash, prendono vita i bizzarri soggetti dei suoi scatti.
“It’s understood that Hollywood sells Californication” cantavano i Red Hot Chili Peppers nel 1999. Sicuramente Cohen non è né la prima né l’unica artista a lavorare – più o meno parodisticamente – sulla luccicante ipocrisia made in California. Mi vengono in mente le opere di David LaChapelle, in particolare Addicted to Diamonds del 2007, in cui troviamo la modella statunitense Amanda Lepore – con cui l’artista lavora spesso – nuda e con gli occhi ribaltati all’indietro, intenta ad aspirare strisce di diamanti da un vassoio specchiato; oppure lo scatto I Buy a Big Car for Shopping del 2002, che raffigura l’incidente frontale tra un SUV nero e una lattina di Coca-Cola dalle dimensioni spropositate, il tutto alle spalle di una elegantissima donna bionda, che – seppur sanguinante – non manca di posare, seria di fronte all’obiettivo, come se la strada fosse una passerella di alta moda. È evidente, infatti, l’influenza che le opere di questo fotografo, scoperto da Andy Warhol all’età di 17 anni e fatto da subito lavorare per Interview Magazine, hanno avuto sullo stile di Cohen, che riprende lo stesso melodrammatico linguaggio visivo, dai colori saturi ed elaborate messe-in-scena, e l’ossessione quasi mistica per la celebrity culture – basti guardare la quantità di ritratti di star americane e icone pop che definisce il lavoro di entrambi gli artisti.
Che sia per campagne di alta moda – come Gucci, Miu Miu o Schiaparelli, per cui Cohen ha fatto anche da modella; per spot pubblicitari – come quello realizzato per la collaborazione GCDSxBarilla nel mini-film con Sophia Loren; o per video musicali – il singolo Babushka Boi di A$AP Rocky ne è un esempio, non ha importanza. È l’accattivante estetica cinematografica con cui ritrae inquietanti immaginari onirici la firma di Nadia Lee Cohen, che tinge vividamente il tutto in technicolor.
Women è la sua prima monografia, nata da sei anni di lavoro tenuto inedito fino al 2020, anno in cui verrà pubblicato per IDEA, che racchiude fisicamente – in un cofanetto contenente tre flip-books – una serie di 100 ritratti intrinsecamente narrativi a cui fa da sfondo il grottesco paradiso losangelino. L’amore per il cinema della Cohen viene qui in particolar modo esplicitato dalla mise en scène di ciascuna fotografia. Inoltre, i set non fanno altro che amplificare il contrasto tra realtà e artificio che le sue bizzarre – e hitchcockiane – scene già di per sé comportano. Il tutto dialoga costantemente con la sospetta fallacia della città degli angeli. I soggetti, totalmente o parzialmente nudi, oltre a donare profonda drammaticità alla narrazione, vengono – paradossalmente – rivestiti di una certa forza. Non vediamo vulnerabilità nelle donne di Cohen, bensì ma emancipazione e fierezza. La ricerca del femminile, come sinonimo di forza, viene, per quanto eccentriche e sfarzose possano essere le circostanze della scenografia, molto naturalmente raffigurata attraverso la sua molteplicità. Le protagoniste di questa serie sono ritratte in tutte le età e le forme, una scelta estetica molto lontana rispetto a quella “a stampino” di Hollywood. Cohen le definisce, infatti, veri e propri “personaggi” in quanto rappresentazioni fittizie di un mondo alternativo, che non condivide gli stessi valori, canoni di bellezza e soprattutto le stesse censure del nostro.
Come vengono messe in scena? C’è una donna quasi totalmente nuda dai ricci capelli castani, il cui sguardo – incorniciato dal make-up anni ’60 – è rivolto allo spettatore, ovvero a noi. Il punto di vista è, tuttavia, dal basso, come se la macchina fotografica riprendesse la scena al di sotto di un pavimento di vetro, su cui la modella, Nadia Lee Cohen stessa, cammina. Questa inusuale prospettiva – per cui veniamo letteralmente calpestati dal tacco di Cohen – è enfatizzata da una posa altrettanto bizzarra: semi-accovacciata a gambe aperte, con le braccia alzate in segno di plausibile stupore – sebbene il volto non faccia trapelare alcuna emozione in particolare – verso lo spettatore-voyeur obbligato a guardare. Il colore rosso intenso dello slip di Cohen richiama la manicure squadrata e la borsetta laccata stretta nella mano destra, mentre tra l’indice e il medio della mano sinistra, ornata di gioielli, è tenuta una sigaretta. In secondo piano, alle sue spalle, vediamo un aereo volare nel cielo, probabilmente – vista la grandezza e, dunque, la vicinanza – intento al decollo o all’atterraggio. È questo elemento che rende ancora più evidente il riferimento alle opere della fotografa e video-maker americana Alex Prager, in particolare ad Alexandra del 2007 o alle più recenti Hazelwood #2 (after Steven Siegel) del 2014 e Big Valley del 2019. L’utilizzo dell’esagerato punto di vista dal basso o dall’alto, presente spesso negli scatti di Prager, vuole caricare di ulteriore drammaticità le scene già di per sé assurde, quasi distopiche, ponendo lo spettatore in attesa di un’eventuale catastrofe o sollecitandolo a contemplarne le curiose conseguenze, come per Sleep del 2022, in cui troviamo tutti i coloratissimi personaggi accasciati al suolo di un bivio stradale, senza apparente motivo. L’inconfondibile stile di Prager richiama così l’estetica cinematografica, in particolare i generi del thriller e del noir della Vecchia Hollywood, che spesso cita deliberatamente – come quello per la pellicola di Hitchcock del 1963 “The Birds” nello scatto di Eve (2008), una delle tragiche “eroine” vintage delle sue ipersature serie fotografiche dallo sfondo losangelino.
Tra tutte le influenze con cui gioca Cohen è impossibile non citare quella di Cindy Sherman, la maggiore esponente della Picture Generation, movimento di fine anni ‘70 basato sull’appropriazione di immagini provenienti da altre fonti – soprattutto mediali – con lo scopo di mettere in discussione, insieme agli stereotipi culturali, lo stesso concetto di autorialità. Tra il 1977 e il 1980, Sherman produce la sua celebre Untitled Film Still, serie di ritratti in bianco e nero che vedono l’artista stessa come unica protagonista, nelle vesti di stereotipati personaggi femminili dei B-Movie hollywoodiani anni ’40 e ’50. L’utilizzo apparentemente narcisistico dell’autoritratto, si trasforma paradossalmente, nelle opere di Sherman, in una negazione del proprio sé. La caratteristica peculiare della fotografa americana, infatti, è la completa alienazione dalla propria identità, che sottopone a laboriose metamorfosi al fine di un discorso più ampio. Le interpretazioni postmoderne, in particolare quella della critica cinematografica Laura Mulvey (espressa nell’articolo “A Phantasmagoria of the Female Body” del 1991), analizzeranno le opere di Sherman con una chiave di lettura femminista. Sebbene la fotografa abbia sempre evitato di esporre una personale teorizzazione riguardo al significato delle proprie opere, ma lasciato libera interpretazione, è difficile non ritrovare – nell’appropriazione dell’immaginario cinematografico e, più in particolare, della rappresentazione femminile – una deindividualizzazione delle donne, considerate in una società patriarcale unicamente come “immagini”, per lo più plasmate dal male gaze. Basti guardare gli scatti di Centrefolds (1981), la serie a colori di close-up orizzontali di sole figure femminili – tutte Sherman – che, sebbene vestite, trasmettono un forte senso di violazione, causato dall’occhio voyeuristico dello spettatore ed enfatizzato dalla rassegnata inespressività dello sguardo, spesso fuori campo, del soggetto paralizzato sul “paginone centrale” – la cui scelta stilistica richiama, appunto, le riviste pornografiche del tempo.
Ritroviamo questa denuncia degli stereotipi femminili, più o meno velatamente, in molte opere di Nadia Lee Cohen, in particolar modo nel satirico mini-film A Guide to Indulgence del 2017. Il disturbante video how to esplora i passaggi necessari per poter essere “la più bella”, sebbene i personaggi siano già una rappresentazione omologata di “bambole” perfette. Le indicazioni – che la voce robotica della protagonista stessa invita a seguire – sono poche e semplici. Learn a new language! L’unica frase che ti serve dire è: “Io sono bella, non mi lasciare”. Imparala in più lingue possibili. Clean! È importante avere la pelle estremamente purificata e antisettica, anche a costo di togliertela di dosso. Exercise! Dopo aver pulito per l’intera giornata, la sera potrai lucidare nuovamente il tutto per essere sicura di non aver lasciato aloni. Sempre se non ti bevi l’intero flacone di candeggina prima. Eat anything you like! Imbandisci la tavola con quante pietanze vuoi, ma assicurati di non toccare niente se vuoi essere tu il vero bocconcino. Dance like everyone is watching! Può esserci una sola reginetta, e sarai tu. Congratulazioni, sei la più bella. Il premio è venir pestata dalle altre donne.
Anche nella feticistica rappresentazione della bambola ritroviamo un’ulteriore citazione a Cindy Sherman, in particolare ai lavori della serie Sex Pictures (1992-1995), in cui l’artista americana si diletta a riprodurre perturbanti ritratti di iperrealistici manichini – a volte anche solo di alcune parti “mutilate” e riassemblate – in contorte pose pornografiche. Sappiamo che, con o senza l’utilizzo esplicito di fantocci, trucchi e grottesche caricature, ciò che diletta maggiormente Sherman è rendere sempre più sfumato il confine tra identità e maschera, facendo del proprio corpo – e della propria rappresentazione – altro.
Sarà, però, l’ultima collezione fotografica di Nadia Lee Cohen, HELLO My Name Is – pubblicata come edizione limitata nel 2021, sempre per IDEA – a eliminare qualsiasi eventuale dubbio riguardante l’affinità artistica tra la fotografa inglese e quella americana. La serie presenta 33 ritratti di personaggi immaginari – inventati e interpretati da Cohen – riusciti grazie anche a un attento lavoro di make-up e all’utilizzo di protesi, denti finti, parrucche e costumi. Passando in rassegna un personaggio dopo l’altro, sembra quasi di star sfogliando un annuario tipico delle high schools americane, solo decisamente più perturbante. Ogni ritratto fotografico è poi seguito da uno scatto di “natura morta”: un insieme – dalla composizione quasi wes-andersoniana – di everyday objects che ci racconta il personaggio in questione, il suo stile di vita, i suoi interessi e il contesto storico in cui vive. Tra la rappresentazione della caricatura e quella degli “effetti personali”, troviamo – a rafforzare ulteriormente la verosimiglianza narrativa – una pagina dedicata a una bizzarra citazione, personalizzata in base al carattere attribuito al soggetto in questione. Questo modello si ripete così per quasi tutto il libro, che si conclude con una serie di Polaroid behind-the-scenes che documentano il laborioso processo teatrale della trasformazione di Cohen per ogni personaggio.
Ma da dove nasce un’idea del genere? Qui, non si tratta di un’ironica ricerca delle molteplici sfaccettature dell’individuo o di una denuncia degli stereotipi. C’è, come è stato precedentemente analizzato per Sherman, un quasi totale annullamento del sé al fine di diventare strumento per una meticolosa creazione di personaggi a tutto tondo. Un processo creativo che risulta simile a quello che avviene per i characters cinematografici. Cohen stessa spiegherà in un’intervista di aver scelto per ciascuna caricatura non solo una particolare background story, ma anche una specifica “parlata” – una cadenza dialettale o un difetto di pronuncia – che utilizzava, conversando con gli operatori, e introiettava così, calandosi a pieno nella parte, prima di ogni scatto. Difficile, inoltre, non notare la forte attenzione della fotografa riguardo al linguaggio del corpo, che differenzia la posa di ciascun ritratto. Cohen, oltre a sottrarre, in primis, se stessa, deciderà di rinunciare anche ai suoi elaborati set per questi ritratti fotografici che, seppur privi di ambientazione, sembrano narrarci molto di loro stessi e del loro mondo.
Questo progetto nasce dall’ossessione dell’artista per i mercatini delle pulci – nei quali era solita andare con la madre – e in particolare dalla collezione di badge nominativi che Cohen comprava dalle bancarelle e accumulava morbosamente. Ogni name tag che trovava, spiega infatti l’artista, la faceva automaticamente fantasticare sull’ipotetica persona a cui poteva appartenere. Cohen decide, quindi, di rispondere – con questa curiosa serie – all’impellente desiderio di poter incontrare prima o poi i misteriosi proprietari. Chi era Jeff? Era un padre di famiglia? E quale marca di sigarette era solito fumare? Sicuramente aveva i baffi e indossava un cappello da cowboy. Jeff votava Nixon.