Ispirazioni passate e visioni future. Per un approccio trasversale al presente

Intervista a Jeffrey Schnapp, fondatore del metaLab di Harvard

di Daniela Macrì


 

La cultura nella contemporaneità sembra non accontentarsi più delle grandi narrazioni frutto di specializzazioni settoriali e monotematiche. Il terreno su cui si muovono i cambiamenti in atto, di linguaggio, relazionali, geopolitici, ambientali, è fluido e interconnesso, pluritematico e problematico. La sua comprensione, tutt’altro che immediata, avrebbe bisogno di quell’ approccio particolare e quanto mai sfumato, spesso invocato soprattutto dal mondo accademico, ma nella pratica forse ancora non del tutto compreso e messo in atto: la trasversalità. Un’attitudine interdisciplinare, che si manifesta nella capacità di fare ricerca, superando quest’ultima in una sintesi di saperi e discipline. Una competenza eterogenea, intesa come l’abilità di estendere i confini della conoscenza oltre la propria individualità.

Trasversale è l’occhio con cui, soprattutto dopo la pandemia, si è guardato al mondo dei musei, alla loro capacità di generare nuova conoscenza, al rapporto integrato tra il digitale e il patrimonio culturale che culmina in uno scontro-convergenza tra i calcoli e le ricerche nel settore umanistico. Trasversale è l’approccio all’innovazione quando le tecnologie e la creatività si incontrano nella stessa stanza, alla ricerca di nuove visioni e spazi di conoscenza che possano aderire alla complessità del presente. Così come trasversale è la riflessione che interessa il tema divisivo e dominante dell’intelligenza artificiale generativa, tra pericoli e opportunità.  

Questa è la sintesi di una chiacchierata generosa, colma di aneddoti, spunti e intuizioni su questi temi, con Jeffrey Schnapp, designer della conoscenza e pioniere delle digital humanities, fondatore nel 2011 del Metalab di Harvard, uno dei principali centri di ricerca al mondo in cui si prova a integrare cultura umanistica e dimensione digitale. Designer e storico, dantista e curatore. Già nel 1999 aveva avviato lo Stanford Humanities Lab a San Francisco, con l’ambizione di creare un ponte tra i fermenti tecnologici della Silicon Valley e l’area delle scienze umane. Jeffrey Schnapp è considerato un precursore in vari campi di ricerca transdisciplinare, tra cui l’umanistica digitale che approda al concetto di design della conoscenza. Trasversale è la parola che forse tiene insieme la sua personalità. Eclettica, sperimentale, eccentrica.

Che vuol dire incrociare i saperi in modo trasversale? Da dove è iniziato il tuo percorso?

Ti rispondo con una sottolineatura della parola trasversalità. È un termine che mi sta a cuore, perché è una componente di base del mio percorso, è una parola che spesso si sostituisce a molte altre invocate a proposito della rivoluzione digitale, legate all’idea di un sapere universale o al concetto di nuovo umanesimo. Non amo queste ultime espressioni, perché tendono ad immaginare un momento del passato in cui tutti i saperi potevano coesistere in un’unica attività del singolo. Penso al mito del genio di Leonardo, che ha combinato scienze naturali, umane, creatività artistica. Malgrado casi eccezionali come quello, non sono affatto sicuro che quel modello sia mai esistito, o mai esisterà. Semplicemente perché non può applicarsi alla realtà attuale, complessa, sfaccettata, fatta di tante forme di sapere specialistico impossibili da riunire sotto un unico ombrello. Il concetto di trasversalità rende meglio, perché si ricollega alla parola approfondimento. Per come la vedo io, la trasversalità è quella cosa che incide sulla qualità dei risultati delle ricerche e degli esperimenti, ed è sempre radicata in qualche realtà disciplinare, connessa ad un elevato grado di specializzazione. Questo mi aiuta a rispondere alla tua domanda. Sono nato come studioso di letteratura, filologia romanza, poi mi sono spostato a letterature comparate con un’enfasi sul Medioevo e ho sempre oscillato tra quell’epoca e il Novecento. Ma durante questo tempo non ho mai rinunciato ad altre passioni. Ci è voluto un lungo percorso prima che tutti quegli interessi si trovassero nella stessa stanza.

Studiare il Medioevo per me è stato una specie di laboratorio. Approfondire la conoscenza di un’epoca remota richiede non solo di conoscere bene diverse lingue (alcune estinte), ma anche una forte preparazione filologica e storica. L’oggetto di studio non è a portata di mano. Avere a che fare con un codice è un’operazione artigianale che richiede concentrazione e impone modestia. Lavorare su un passato che esiste in uno stadio frammentario, dove i dati sono pochi, diventa una sfida per chi decide di spostarsi nel presente, dove i dati al contrario sovrabbondano.

Dal Medioevo alla Silicon Valley. Non hai mai percepito contrapposizione tra queste due aree, umanistica e informatica?

No, non ho mai riscontrato attrito tra l’avere una formazione storica, e il lavoro nel campo del contemporaneo. Ho sempre avuto un forte interesse per l’informatica da una parte, e il design e l’attività artistica dall’altra. Nella metà degli anni ‘80 mi sono trovato a Stanford, nel pieno dell’esplosione della Silicon Valley, in un contesto stimolante, dove la rete stava emergendo pian piano come nuovo spazio pubblico, civico, luogo di relazione. Mi sentivo impaziente, in quel mondo c’era molto fermento, ma erano assenti le scienze umane, e a poco a poco (ho anche fatto l’artista visivo negli anni tra laurea e dottorato) mi sono avvicinato ai circoli sia tecnologici che creativi di San Francisco. In quel momento è nato il sogno di creare una connessione tra i fermenti tecnologici della Silicon Valley e l’area delle arti e delle scienze umane. È così che nel 1999 è nato lo Stanford Humanities Lab, un istituto di ricerca all’interno dell’università che fungeva da ponte tra la facoltà di Arti e Scienze e la facoltà di Ingegneria, che a Stanford era il fulcro del rapporto tra la Silicon Valley e il mondo accademico. In quel periodo abbiamo sperimentato nuove forme di ricerca, comunicazione, insegnamento e didattica. A Stanford, nel 1999 solo due o tre tra i miei colleghi delle scienze umane pensavano che un laboratorio del genere fosse una buona idea. Noi “tecno-umanisti” come alcuni ci chiamavano eravamo in pochi.

In una tua recente intervista affermi: in questo paesaggio di fermento tecnologico sentivo la necessità e la mancanza delle scienze umane.  Da una costa all’altra, prima lo Stanford Humanities Lab, poi il MetaLab di Harvard. Qual è il dna di queste due realtà? E con quale approccio vi muovete?

Lo Stanford Humanities Lab nel 1999 e poi il metaLab di Harvard nel 2011 sono nati da stimoli diversi intrecciati a casualità. Nel 1985 mi trovavo al Dartmouth College come assistant professor. Fu la prima università americana a diventare un campus digitale in senso integrale. Il suo presidente, John Kemeny era un visionario. Fu lui ad inventare il linguaggio di programmazione BASIC e a organizzare l’incontro in cui nacque il concetto di “intelligenza artificiale”. Creò un’infrastruttura digitale di comunicazione sconosciuta all’epoca, uno dei primi sistemi di mail integrato nelle strutture amministrative del campus. Io ero solo un giovane dantista, con l’ambizione di creare un database che contenesse sei secoli di commenti della Divina Commedia, dalla morte di Dante fino al presente. Un po’ per fortuna, un po’ per caso, ero l’unico umanista che aveva delle competenze in campo informatico. Per due anni ho guidato quel progetto a fianco al collega di Princeton Robert Hollander, l’ideatore del Dartmouth Dante Project ed ho consolidato in quell’occasione la mia convinzione di quanto sia fondamentale, in un progetto complesso, il lavoro di squadra. Servono competenze specialistiche messe a sistema con le altre. A Stanford, qualche anno dopo ho sentito la necessità di sperimentare un dialogo a livello scientifico tra l’informatica e il settore artistico-umanistico, ma volevo anche andare oltre quel modello individuale/artigianale di produzione del sapere, spostandomi verso un piano più laboratoriale. In questo contesto è nato lo Stanford Humanities Lab, una piattaforma dove il modello progettuale abbraccia design e nuove tecnologie con una modalità hands-on. L’idea di base era che ognuno imparasse a parlare il linguaggio dell’altro “sporcandosi le mani” ossia lavorando in modo collaborativo su progetti concreti: progetti con scadenze, deliverables, sviluppati in modo autonomo o per “clienti” come musei, archivi, enti pubblici, o in collaborazione con start ups nel settore del software. Così il programmatore si siede accanto al filologo, o allo storico, o al designer non in un dialogo teorico su forme di collaborazione ipotetica, ma come una collettività di operatori e praticanti. Dialogo, convergenza e collisione tra forme di conoscenza, sperimentazione, produzione: credo che siano queste le basi dei veri laboratori, e non quelli dove ognuno continua a operare da solo o opera senza modificare le sue abitudini disciplinarie. All’epoca nel mio gruppo si speculava sui Big Humanities (sul modello di Big Science), sul fare e fabbricare come forma di produzione critica, sulla contaminazione tra teoria e pratica e su modelli di imprenditorialità interni alle strutture universitarie. Avevo diversi modelli in testa, tra cui le scriptoria medievali e i laboratori della modernità come il Bauhaus. Si trattava di contaminare i saperi, facendoli entrare in dialogo se non addirittura in conflitto, per vedere che cosa ne potesse scaturire. Le parole “collaborazione” e “interdisciplinarietà” sembrano poco problematiche, ma in verità collaborare o essere interdisciplinare in senso profondo ci impone di andare oltre le nostre abitudini mentali, sacrificando certi valori per assumerne altri, ampliando il raggio delle nostre conoscenze e competenze. Tre spin-offs sono nati allo Stanford Humanities Lab durante il suo decennio di attività e nessuno è sopravvissuto oltre un paio di anni, ma è stata una bella avventura lo stesso.

Nel 2015 nasce l’azienda Piaggio Fast Forward che la Piaggio ha fondato negli USA dove tu svolgi attualmente il ruolo di Chief Visionary Officer. PFF ha ricevuto importanti riconoscimenti per l’attività svolta in campo robotico, tra i quali, nel 2017, il premio Disruptive Genius Company per essersi distinta “in un pensiero innovativo non convenzionale, aver esplorato per prima nuove frontiere e per aver promosso con il proprio operato l’economia dell’innovazione”. La vostra attività comprende lo sviluppo di soluzioni e tecnologie innovative nel settore della mobilità e dei trasporti come il robot-trasportatore Gitaã. Come si combinano le scienze umane e la tecnologia in un progetto di questo tipo?

A volte possono trovare terreno fertile anche nella casualità combinata alle passioni personali. Il contatto tra alcuni manager della Piaggio e me è nato da una coincidenza. Ogni anno al metaLab organizziamo delle giornate aperte, dove invitiamo i colleghi dell’MIT Media Lab, artisti e i creativi dell’area di Boston a partecipare ad un evento in cui presentiamo progetti in via di sviluppo. Non immaginarti un congresso, lo definirei più un mix tra showcase e festa. Uno dei futuri manager del Gruppo Piaggio, si trovava alla Harvard Business School per un seminario in compagnia di un mio conoscente svizzero. Era il 2011 ed entrambi hanno assistito all’openLAB di quell’anno. Non potevo sapere che due anni dopo uno di loro sarebbe entrato nel Gruppo Piaggio e avrebbe pensato a me. Già allora discutevano della necessità di immaginare nuovi prodotti che superassero la mobilità del ventesimo secolo, per andare incontro a quella del ventunesimo ancora tutta da definire. Sapevano dei miei rapporti professionali decennali con l’Italia, e inoltre si ricordavano del fatto che ero, e ancora sono, un motociclista agguerrito, con quindici anni di competizioni motociclistiche alle spalle includendo una partecipazione all’Aprilia Cup. (Dal 2004, l’Aprilia entra a far parte del Gruppo Piaggio). Si sommavano una serie di coincidenze. Da lì in poi hanno cominciato a pensare ai nomi di chi coinvolgere nella creazione di un think tank sulla mobilità futura, costituito da persone non necessariamente connesse al mondo dei motori ma in grado di affrontare le sfide del presente e al futuro della mobilità in modo trasversale. Qualche tempo dopo, superato l’iniziale modello think tank, si sono definiti i confini e le ambizioni di questa impresa che oggi costituisce l’azienda Piaggio Fast Forward, di cui io e l’architetto Greg Lynn (ndr. nel 2008 ha vinto il Leone d’oro alla Biennale di Architettura a Venezia) siamo i co-fondatori con Roberto e Michele Colaninno.

Ci venne subito chiesto di non perfezionare i veicoli del passato, ma di inventare nuove forme di mobilità. Una sfida complessa, anche perché, quando nel 2015 la nostra azienda è nata, non si parlava d’altro che di veicoli al 100% a guida autonoma. In quel dibattito, il ruolo degli esseri umani nella mobilità futura era ridotto quasi a zero. Nonostante formazioni diverse, io e Greg abbiamo sempre avuto punti di vista convergenti nell’importanza del fattore umano. Ci siamo posti la domanda di come ampliare e supportare la mobilità umana, intesa come attività e non come passività. Da quel momento in poi abbiamo elaborato concept alternativi, sviluppando una gamma di prodotti innovativi, con l’obiettivo di ampliare il raggio, la qualità e la quantità della mobilità in un’ottica “human centered”.  Proprio per questo motivo il motto di Piaggio Fast Forward è stato e continua a essere autonomy for humans.

Cosa prova uno storico di formazione a lavorare per un gruppo industriale come Piaggio?

Da storico, non potevo non essere ispirato dall’oggetto che incarna un percorso lungo ormai 138 anni: la Vespa. La Vespa non è mai stato un mero veicolo, è uno stile di vita. È funzionale certo, ma spicca perché ha sempre avuto una forte connotazione sociale. Gli oggetti che riescono ad imporsi in tal modo negli anni possiedono qualcosa che fa riflettere sulla complessità e la centralità di quello che chiamiamo mobilità. Non si tratta solo di una questione pratica, c’è molto di più in ballo: è una forma nuova di pensare il mondo. Durante le mie ricerche, mi sono imbattuto per caso in una pubblicità degli anni ‘60 in cui si parlava di “movibilità” e non di “mobilità”. Quella parola mi è rimasta impressa. Nella movibilità c’è il fattore umano: muoversi è un fatto culturale, non solo funzionale, è una questione soggettiva, psicologica, fa parte del benessere umano; è il segno della vita stessa, come ha constatato Aristotele. Ha a che fare con il piacere di interazione sociale in cui il muoversi congiunge il sé all’altro. Dalla mobilità alla movibilità c’è un passaggio tra due visioni, una meccanica, l’altra dinamica, con uno sguardo più ampio, emotivo, interamente rivolto verso l’uomo.

A proposito di fattore umano, c’è un tema dominante, quello dell’intelligenza artificiale. Una questione che meriterebbe di essere affrontata senza pregiudizi e senza isterismi. Se per alcuni è fonte di ricchezza in termini di abbattimento di costi e tempi, per altri è un terreno scivoloso, addirittura un baratro, dove non ci saranno più contenuti e informazioni attendibili. Come ti poni rispetto alle paure e alle chiusure? (per qualche mese in Italia è stato sospeso l’utilizzo di Chat-gpt).

Non credo che l’intelligenza artificiale sia così “intelligente” come si tende a pensare. Lavoro spesso con le intelligenze artificiali generative, e nonostante questo le trovo ancora uno strumento delimitato, divertente ma a volte elementare.

L’AI avrà un considerevole impatto su molti settori, questo è certo. Ma proviamo a separare le cose: circola molto nel dibattito l’idea di un’intelligenza artificiale generale, che rischia di prendere in mano tutti i sistemi. Una super intelligenza, come sostiene il filosofo Nick Bostrom, che metterà in pericolo il mondo, l’essere umano, la società, la verità delle cose. Non sono d’accordo, qui il tema è politico, non tecnico. L’intelligenza artificiale è uno strumento e come tutti gli strumenti va regolamentato. Occorrono leggi chiare che impongano una disciplina che ne limiti gli usi impropri, e che prescriva forme di trasparenza nell’utilizzo. Il mio pessimismo semmai riguarda le istituzioni politiche e la loro incapacità di gestire certi cambiamenti. Ne consegue una chiusura su più livelli. Bisogna conoscere gli strumenti, intuirne i limiti e le potenzialità. In fondo si tratta anche di un esercizio di eccezionale interesse per il futuro della creatività umana. Chiudere le porte e bloccare tutto non serve a nulla. È la formazione ad essere necessaria, perché sblocca delle dinamiche e ne suggerisce altre in un continuo scontro e scambio di visioni. Eccola di nuovo la collisione di cui ti parlavo prima!

Esporre questioni, fare leva sui problemi, creare nuove visioni. Questa formula aderisce ad alte situazioni e luoghi creativi dove centrale è il ruolo dell’individuo e delle comunità. Penso ai musei (JS è un curatore, con diverse collaborazioni in Italia, come la Triennale di Milano) e ai loro potenziali inespressi: i depositi.

Il museo è un luogo di produzione e diffusione della cultura. Nessuno lo nega, ma non basta più! Occorre trasformare quella visione top down in una visione bottom up, dove si pensa al museo come luogo di creazione di nuove conoscenze, presidio di formazione, officina di produzione. Una specie di laboratorio dove si sperimenta e si produce, non solo un posto sacro dove esporre il passato glorioso. Occorre sporcarsi le mani e risolvere problemi, facendo delle ricerche sul campo. I depositi dei musei sono pieni di stimoli, non solo per gli addetti ai lavori. Bisogna usare questo potenziale, rendendo i materiali vivi e accessibili, arrivando ad un modello di museo laboratoriale dove la formazione consiste anche nella trasformazione dei problemi in opportunità, per il museo, per i curatori, per gli storici dell’arte, per gli archeologi, per tutte le professionalità coinvolte. E per qualunque visitatore ci entri.

Inviti spesso i curatori a innescare connessioni tra le opere d’arte e il pubblico. L’attivazione degli oggetti, e il racconto della storia dietro ogni pezzo che un museo custodisce connettono il visitatore con il posto in cui si trova. L’opera d’arte, può essere un pretesto per un’esperienza più profonda all’interno di un luogo che nasconde altro, o dove avviene altro. Come un aeroporto: fino all’agosto del 2023 al terminal 1 di Fiumicino, è stato esposto il Salvator Mundi di Bernini (1679.) Molti hanno gridato allo scandalo perché l’aeroporto è un non luogo, per altri l’operazione è stata funzionale all’opera d’arte e al suo scopo: significa posizionarla dove io e te, correndo con un trolley, abbiamo la possibilità di imbatterci per caso in un capolavoro. Da quel terminal passano quasi sei milioni di persone all’anno. Non so dirti al contrario, in quanti siano entrati in un anno nella Chiesa di San Sebastiano fuori le mura, a Roma, dove l’opera è rientrata.

Sono del tutto favorevole all’idea che le collezioni vengano sdoganate. A patto che non si producano banalità. Dobbiamo andare oltre i confini del museo inteso come roccaforte che protegge la cultura del passato contro il presente. L’idea che un aeroporto non possa essere uno spazio espositivo mi pare assurda.

La vera domanda è: come possiamo usare la molteplicità di luoghi espositivi potenziali in modo intelligente, creativo, critico?  Sarebbe interessante esplorare quali sono gli argomenti o le collezioni che si prestano ad un’esperienza aeroportuale e che invece non si troverebbero in una galleria tradizionale del Settecento. I progetti più soddisfacenti di curatela su cui ho lavorato, sono stati quelli dove il sito condizionava potentemente le scelte curatoriali: penso alle Gallerie di Piedicastello a Trento, due gallerie dismesse di autostrada inaugurate con una mostra dedicata alla Grande Guerra (2009) a cui sono succedute eventi espositivi per più di un decennio. La sfida è quella di immaginare forme espositive che corrispondano alla fisicità di certi luoghi, alcuni belli, altri suggestivi, altri ancora non convenzionali, come può essere stato in questo caso due gallerie autostradali in disuso. Certo, in quel luogo non avrei mai esposto un Caravaggio. Vivacizzare e attivare il patrimonio culturale in senso lato: questo secondo me è il focus del discorso.

C’è un luogo in Italia, un museo, una collezione, una galleria, un posto di cui subisci il fascino e dove ti piacerebbe sperimentare nuovi linguaggi?

Mi viene in mente subito il Museo Archeologico di Napoli che trovo straordinario. La ricchezza quantitativa e qualitativa delle collezioni promettono di più rispetto a quello che finora la gestione ha comunque fatto molto bene. Anche in quel caso, la sperimentazione unita alla fitta collaborazione con l’università Federico II ha premiato in termini di nuovi campi di indagine che hanno reso l’archeologia sempre più contemporanea. Ma sono processi che dobbiamo sviluppare ulteriormente e spingere oltre i limiti attuali.

Subisco un forte fascino per i musei che hanno delle collezioni difficili, penso al settore delle arti decorative, oppure ai musei della moda. Ho sempre desiderato realizzare un progetto sperimentale che cambiasse profondamente il modo di interagire del pubblico con i capi storici. Osservi un abito, una scarpa, un mantello, e poi cosa rimane? Mi piacerebbe esplorare il processo di creazione di un oggetto, capire come ha vissuto, come ha circolato nella società di una certa epoca storica, come ha cambiato gli usi e le dinamiche relazionali, ma anche renderlo palpabile ossia ripristinare la sua multisensorialità. Anche in questo caso, si tratta in fondo di approfondire l’esperienza analogica anche attraverso nuovi supporti digitali. Ecco, purtroppo finora i modelli espositivi e allestitivi di cui sono a conoscenza mi sembrano piuttosto passivi.

La mostra di Karl Lagerfeld A Line of Beauty (al Metropolitan Museum of Art aperta fino allo scorso 16 luglio) è stata spettacolare, ambiziosa, colma di capi superbi. Però poi, si esce dal museo senza alcun approfondimento. La percezione resta solo visiva. Tutto spettacolo, niente arrosto. Non siamo fatti solo di occhi, nel caso di un capo è fondamentale sentirne il profumo, la qualità materiale. Esistono molti modi che permettono di animare un oggetto storico e comprensibile negli aspetti che vanno oltre la visione dietro il vetro di una teca. Ho divagato, non sono sicuro di averti risposto…

E invece lo hai fatto, tra il concreto e il desiderio. Te ne sono grata.

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