Chi vieta di dire la verità ridendo?

In copertina: Francesco Vezzoli, Self-portrait as Emperor Hadrian Loving Antinous, 2012, busto di Antinoo in marmo di Carrara (XVIII secolo d.C.), busto di Adriano in marmo statuario. MUSEION, Museo di arte moderna e contemporanea, Collezione Enea Righi. Ph. Sebastiano Pellion Di Persano.

Paura (della morte) e desiderio (della fama) nella post-produzione artistica di Francesco Vezzoli

di Vittoria Brachi


Siamo a cena, in una villa sontuosa della Napoli di epoca romana; i camerieri cantano e si muovono al suono di cetre e violini, come in una delle migliori feste della Marchesa Casati, una donna dandy veneziana degli anni Cinquanta, la cui abitazione era un punto d’incontro per i più famosi ed eccentrici artisti del tempo. Le portate iniziano ad arrivare, diventano sempre più elaborate e sorprendentemente artistiche e ci si chiede chi mai possa scialacquare con così tanta naturalezza beni ed energie. Siamo nella casa di un noto liberto, Trimalcione, il personaggio più famoso del Satyricon di Petronio, forse più dei suoi protagonisti Ascilto ed Encolpio. Di questo uomo, che è entrato nelle alte sfere società romana dal niente, ci interessa la capacità di modificare la percezione che noi abbiamo della nostra esistenza: Trimalcione e la sua cena sono metafora di quanto, ancora oggi, la memoria e l’immaginario collettivo siano oggetto di deformazioni e inconsce rielaborazioni da parte di tutti gli individui, che portano a ricercare nella fama, non nel ricordo, nel senso in cui queste parole sono usate da Seneca nelle Lettere a Lucilio, la via di scampo all’oblio della morte. Trimalcione, che in questo senso ha una funzione universale, tenta di fuggire dalla tenaglia della morte mostrando le sue ricchezze, l’opulenza di una vita vissuta come un’opera d’arte totale. Il microcosmo del banchetto abbraccia al suo interno vari personaggi, ma è la dialettica tra gli oggetti esposti e i presenti, che garantisce, attraverso la loro meraviglia riversata su questa opulenza oggettificata, che la cena diventi uno spettacolo degno di essere raccontato; gli stessi Ascilto ed Encolpio sono inermi spettatori di questa “opera nell’opera” e non sanno bene a cosa stanno partecipando. Noi, in “VITA DVLCIS”, mostra di Francesco Vezzoli, artista audiovisivo milanese famoso per i suoi progetti “camaleontici” che uniscono arte, cinema e televisione, dalla video arte alle installazioni site-specific, siamo esattamente come i due protagonisti del Satyricon. Vezzoli è il Trimalcione che ci ha invitati all’interno delle sue sontuose sale.

La mostra, che ha avuto luogo a Palazzo delle Esposizioni fino alla fine di agosto, si articola in sette sale, all’interno del primo piano dell’edificio. L’allestimento presenta una quantità molto ampia di materiali: audiovisivi, statue, doni agli dei e lapidi mortuarie. La statuaria presenta alcuni dei più importanti reperti archeologici: torsi di guerrieri come quello di Achille nella prima sala e teste di gorgoni gigantesche che dialogano con altrettanto enormi volti di dee come Atena e Venere, urne votive in terracotta a forma di utero, lapidi, resti di colonne e capitelli poggiati come cadaveri su piedistalli, in dialogo con statue settecentesche, innestati ad altre opere del XX secolo – come la testa dechirichiana presente in una delle sale. Una disposizione che trasmette un senso di straniamento, un’atmosfera a tratti soffocante. Queste opere, alla stregua di oggetti da catalogo, circondano e anticipano i grandi teleri su cui vengono proiettati frammenti di film di vari generi, tutti riguardanti uno degli aspetti che hanno reso la città di Roma antica un modello da trasporre in modo inerte su uno schermo, a fare da sfondo al trionfo della guerra, dell’amore, della perdita, della violenza e della comicità spicciola in circoli di grandi e ricchi possidenti; i suoni provenienti dai diversi ambienti si sovrappongono – ahimè, un utilizzo imperfetto delle sale e del medium audiovisivo, nonostante la videoarte sia usata nelle mostre da più di cinquant’anni: dal violento scontro di lame della prima sala, si passa alle tranquille mura di una nobile casa romana, in un momento intimo e silenzioso, se non fosse per il clamore – il fracasso di un banchetto – che proviene dalla sezione successiva, dedicata al potere femminile. 

Vezzoli ha affermato che ciò che lo ha portato alla realizzazione di questa mostra è il fascino che l’antica Roma tutt’ora esercita sulla società contemporanea in un dialogo tra arte, archeologia e cinema (quest’ultima in particolare è l’arte da cui trae più ispirazione, avendo da sempre lavorato strettamente a contatto con il medium video, attraverso la trasposizione di opere cinematografiche e televisive in videoarte). Il materiale spazia dai film peplum al block-buster del Gladiatore, ma è presente anche il trailer di un film fittizio sulla vita dell’imperatore Caligola su modello di quello di Gore Vidal, utilizzando attori hollywoodiani.

L’archeologia, in questa mostra, funge da scienza dell’occulto, che scava nella profondità della terra per portare alla luce quanto è rimasto di una grande civiltà scomparsa. Questi resti vengono trattati come lari, feticci che servono a esorcizzare la paura individuale della morte e dell’oblio, provando che è sempre possibile far riaffiorare e raccontare una storia. Se questa prospettiva sulla storia di Roma sia accettabile, è assolutamente da discutere. L’idea di Roma e della sua cultura che è stata tramandata fino ai giorni nostri, ha chiaramente degli argomenti coerenti nel tempo, ma quanto ancora questa narrazione può ispirare la nostra cultura, dal momento che ne siamo sempre più lontani? Sebbene l’artista volesse rivolgere l’attenzione dello spettatore principalmente al rapporto interno ai vari oggetti presenti in ogni sala e all’interazione tra le sale stesse, in spazi affastellati da statue, oggetti votivi e riproduzioni contemporanee tra il kitsch e il pop (Jeff Koons sarebbe geloso o entusiasta di questo), è la componente audiovisiva ad attirare l’attenzione dello spettatore come fosse la vera protagonista della mostra. Il luogo che riassume l’allestimento è la sala RIDENTEM DICERE VERVM dedicata alla cena di Trimalcione, proiettata per frammenti nelle due versioni cinematografiche di Gian Luigi Polidoro e Federico Fellini, a cui fanno da contorno resti archeologici di statue rielaborate visivamente e dal punto di vista semiotico dall’artista e in aperto dialogo tra di loro e con lo spettatore. Questa sala è il motivo per cui, in questo articolo, analizzerò l’idea di memoria che emerge nell’esposizione di Vezzoli.

Vezzoli ridipinge resti di statue da lui stesso possedute, spesso acquistate all’asta, con pittura acrilica – contro la falsa usanza dell’epoca neoclassica di credere che le statue fossero bianche – peraltro meglio di quanto abbiano fatto le ricostruzioni a computer di pur esperti restauratori nei primi anni del Duemila, con risultati esilaranti e inquietanti allo stesso tempo. La ridipintura di Vezzoli, così come la rielaborazione o la riproduzione in serie di statue antiche, però, non sono finalizzate alla rievocazione fedele (come se fossimo a una fiera medievale di paese) dell’aspetto della statua nel momento della sua conclusione. Sarebbe come truccare un cadavere per far vedere quanto la sua cera fosse buona prima che lasciasse questo mondo. Vezzoli anzi si fa attore immerso nel teatro dell’allestimento che, con i suoi spazi neri e l’illuminazione “di scena”, ci aiuta a cogliere somiglianze e differenze con il teatro della vita. Ognuno dei pezzi esposti diventa una divinità protettrice della memoria del passato, che cerca di rassicurare attraverso uno spettacolo. 

Del resto, lo stesso artista, in un’intervista rilasciata per FlashArt nel trimestrale estivo di quest’anno, ha affermato che una delle sue più importanti matrici per l’ispirazione sia proprio la Pop Art, maestro indiscusso tra tutti: Andy Warhol. La riproduzione in scala ridotta di alcune opere, come ad esempio la statua classica che raffigura Antinoo, amato dall’imperatore Adriano, messa in dialogo più avanti con la raffigurazione dello stesso Vezzoli nelle vesti dell’imperatore, rimandano sia alla riproduzione in serie di copie della stessa opera tipica della Pop Art novecentesca, sia alla (divertente?) esperienza dell’artista, raffigurato come uno degli uomini più potenti del mondo antico. Ma a cosa serve tutto questo teatro? La spettacolarizzazione della propria vita è l’obiettivo dell’esteta dandy per eccellenza, e sembra essere anche l’obiettivo di Vezzoli-Trimalcione, espediente quanto mai banale e trito. Questo ha il sapore delle Gazing Balls di Jeff Koons – statue che riproducono in modo industriale opere classiche decorate da palle blu metallizzate, su cui lo spettatore e lo spazio circostante si riflettono, entrando nell’opera stessa. Una classicità chiccosa che cerca di creare quanti più doppi possibili nella speranza che almeno uno di essi salvi dall’oblio sé stesso e chi l’ha prodotto. Non è un tentativo di giocare al ribasso con il valore dell’opera d’arte. Non è un espediente, dunque, che porta in primo piano la serialità di un antico esemplare per dimostrare come, nel presente, grazie alla possibilità di una riproduzione pressappoco infinita di qualunque oggetto, anche artistico, si possa portare alla svalutazione di quest’ultimo, come monito contro il consumismo, la ricerca del nuovo e dell’immacolato, l’assuefazione data dall’abitudine di vedere, per doppio o per immagine riprodotta (Benjamin), l’oggetto artistico; non è nemmeno un richiamo alla tradizione che dimostrava, sessant’anni fa, che qualunque cosa potesse diventare qualcos’altro. È una questione di sopravvivenza: più sono le copie, maggiore è la probabilità che qualcosa rimanga nel tempo. In particolare, ciò che mostrano tutti i personaggi che ho finora citato – elemento richiamato istintivamente anche nelle sale precedenti e nelle due successive – riguarda il rapporto che l’uomo moderno, incarnato da Vezzoli, ha con la morte di Roma, città che si incarna nel divo Antinoo. Riportare alla luce elementi che fanno parte di un glorioso passato, però, non ci solleva dalla responsabilità di fare i conti con il presente in cui si mostra ciò che di questo passato riteniamo importante.

Queste opere diventano dei veri e propri feticci, ovvero degli oggetti che, come afferma lo studioso di immagini e cultura visuale W.T.J. Mitchell nel saggio What Do Pictures Want?, sono dotati di poteri magici. Nel caso di questa mostra, il loro scopo è quello di aiutare l’artista a mantenere in vita l’idea, o l’immagine, di Roma secondo determinati elementi che ne glorifichino la sua esistenza. Fungono da feticci le statue di marmo che raffigurano i grandi imperatori e condottieri e le lapidi “dies manibus” per coloro che abitavano i Campi Elisi. All’interno del corridoio centrale del Palazzo, inoltre, lo spettatore osserva enormi light box alte circa tre metri, ognuna delle quali rappresenta una figura femminile antica a cui l’artista ha innestato la testa di una diva del cinema, Afrodite Sosandra e Sharon Stone, la Menade danzante e Michelle Williams, grandi come moderne cariatidi, la cui grandezza conferisce loro, allo stesso tempo, importanza quasi divina. A occupare circa un terzo dei volti di queste figure ci sono dei rettangoli, ognuno dei quali raffigura gli occhi della madre di Vezzoli, a creare un collegamento che quindi richiama l’archetipo della figura materna. Questo lavoro di collage è appositamente creato per essere spiazzante, ma, come ben sappiamo, una volta che l’opera arriva nelle mani del fruitore l’interpretazione che egli ne fa non sempre corrisponde ai nostri desideri: l’effetto, per quanto mi riguarda, ricorda Il ritorno nel magico mondo di Oz, quando Dorothy si reca nel palazzo della principessa Mombi che ha una collezione di teste che cambia periodicamente. L’opera d’arte ritorna depositaria di un messaggio superiore, comunica con noi in quanto oggetto di superstizione. Sotto questo aspetto Vezzoli accosta al paradigma puramente estetico dell’opera quello divinatorio: in certi casi, cerca di aggiustare ciò che ci viene mostrato, ma, allo stesso tempo, lo presenta come risposta alla domanda su come possiamo preservare il fascino dell’antica Roma. 

Durante la cena di Trimalcione uno scheletro d’argento viene fatto camminare, ballare, muovere in mezzo ai tavoli imbanditi, un rituale scaramantico risalente all’antico Egitto. L’ennesimo spettacolo inscenato da colui che, per quanto ricco, rimane pur sempre un parvenu che basa la sua fama sul proprio lusso sfrenato, circondato da leccapiedi che ne idolatrano ogni gesto poiché non tanto diversi da lui, bisognosi della sua presenza in quanto riparo dalla società esterna, dalla loro vera natura. Trimalcione è la metafora di una società ripiegata su se stessa, senza vincolo di uscita dalle pareti in cui si è segregata, attanagliata dallo scheletro argenteo del tempo che passa e di cui si vede, in lontananza, solo una cosa per certa: l’uguaglianza di fronte alla morte. Trimalcione stesso in molti dei passi di questo episodio del Satyricon sottolinea l’egual destino di ogni uomo, libero o schiavo che sia, al suo banchetto: “Com’è nulla l’intero omuncolo! Così saremo tutti noi, dopo che l’Orco ci avrà rapiti. Dunque, viviamo, finché possiamo ancora spassarcela”. Eppure, il ricco mercante è consapevole della cultura da cui è stato adottato e onora le tradizioni romane: l’utilizzo di uno scheletro in mezzo alle feste dei banchetti è un rito romano, la “larva convivialis” con cui si invitava a cena la morte per ricordare della brevità e caducità dell’esistenza. Questo allestimento è un rito apotropaico anche per Vezzoli, lo scheletro che l’artista fa ballare intorno agli invitati grazie alle sue presenze ancillari e che ritualizza lo spettacolo della morte per averne meno paura.

Che cosa guardano gli invitati alla sala RIDENTEM DICERE VERVM? Ogni testa delle sculture disposte a formare un cerchio all’interno della stanza osserva con occhi sgranati un ermafrodito dormiente, come dei fedeli che assistono al corteo funebre di un morto, osservandolo per l’ultima volta. Una sorta di feticcio-oracolo che ci ricorda che Roma è ancora quel ricordo lontano di una civiltà che ha prodotto grandi cose e che noi siamo i custodi dei cimiteri che la conservano. Questo tipo di visione della romanità antica, peraltro molto affine alla falsa immagine imperialista che di Roma diedero gli Stati Uniti per giustificare l’imperialismo proprio, si fonda principalmente sulla paura della morte e dell’oblio. Proprio per questo uno dei frammenti dei film scelti per l’esposizione riguarda il liberto Trimalcione che inscena per gli ospiti il suo funerale perché ha paura della morte, che simboleggia l’impotenza dei suoi immensi beni materiali di fronte a una fine comune a tutti gli esseri viventi. Arrivato a metà della cena l’uomo descrive l’aspetto che dovrà avere la sua tomba, un grande edificio sotterraneo adornato da una sua statua con una cagnetta dipinta ad accompagnarlo, pieno di frutti e piante di ogni genere “che è un vero assurdo disporre soltanto da vivi di case ben arredate, e non curarsi di quelle dove ci è forza di abitare più a lungo”. L’esposizione presenta proprio questo: da una parte un insieme di reperti, disposti tutti insieme in una serie di spazi circondati dal nero delle pareti, adagiati su piedistalli ad altezza d’uomo in modo che ogni visitatore possa osservarli senza problemi, dall’altra statue che hanno un significato poeticamente connesso all’irraggiungibilità del divino, sia esso la guerra o l’amore, poiché poste più in alto, in modo da osservarle mantenendo sempre per esse una posizione di subalternità.

L’opulenza di Roma si riflette così negli oggetti presentati, nell’allestimento e nelle opere che rielaborano in serie manufatti antichi. L’opulenza romana che invoca Vezzoli non ha a che fare con immense ricchezze derivanti dal possesso di metalli preziosi e terre e un’efficiente e solida amministrazione. Vezzoli ci mostra anche che Roma la si domina intellettualmente e socialmente da lontano, come Trimalcione da Napoli (o Vezzoli da Milano, la sua città di origine), attraverso la cultura artistica. La possibilità di entrare in possesso di opere d’arte, diritti d’autore su filmati che rappresentano grandi momenti della storia del cinema corrisponde alle portate che Trimalcione offre ai suoi ospiti: dato che si tratta, in tutti i casi, di frammenti di filmato o anteprime, i commensali-osservatori credono di essere stati imbrogliati dal padrone di casa che sembra offrire poco e niente. Le sorprese culinarie, nel Satyricon, colpiscono Encolpio e Ascilto man mano che la cena prosegue: dalle uova di gallina che contengono all’interno del tuorlo dei beccafichi, al mitico piatto astrologico che, anticipando la microcucina degli chef stellati, presenta per ogni segno zodiacale un cibo simbolico. Tutto sembra estremamente al di sotto delle aspettative: le statue dipinte saranno sicuramente dei falsi, le copie degli antichi col loro candore rimandano più a un polistirolo ben fatto o al gesso, piuttosto che alla pietra o, addirittura al marmo. Eppure, le didascalie non mentono: marmo rosa del Portogallo, bronzo, terracotta. Si assemblano, in certi casi, pezzi diversi per creare un corpo nuovo, quindi, si incolla, oppure si trapana e si avvitano tra di loro opere diverse. 

Il vero potere, attualmente, la memoria che rimane ancorata alla storia dell’uomo contemporaneo, risiede in questo: la capacità di modificare la rovina, il reperto antico, dandogli non solo nuovo significato grazie a un riutilizzo o una ricollocazione, ma assemblandolo ad altri pezzi, di diverso materiale e di diversa epoca, al fine di creare un racconto che vuole lasciare traccia di sé nella storia e narrare una propria versione dei fatti – che è ben diverso dagli utilizzi di reperti di spolio della storia tardoantica o medievale. Si crea un Frankenstein in colui che decide di fare questo? Unendo pezzi diversi provenienti da cadaveri di diverse persone si vuole arrivare alla creazione di un nuovo uomo del passato? Che questo sia mostro, ibrido, gorgone o semplicemente una nuova creatura sta a noi deciderlo. Roma viene continuamente riassemblata nel suo passato, nel tentativo di tenerlo in vita e di poterlo sfruttare nelle nostre narrazioni contemporanee. Ogni tanto decidiamo che è giunto il momento del congedo e la accompagniamo con cantilene e cortei verso la sua futura tomba.

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