Inventare il futuro a partire dalla scrittura: da Pasolini a Black Tulips

In copertina: traffico di Lagos, Shutterstock

 

Un confronto stilistico tra il realismo di Trevisan e quello di Pasolini: nel parallelismo tra i due autori, quello che si perde è l’idea – la speranza – di andare oltre il dato oggettivo della scrittura per immaginare un mondo diverso.

di Fabio Ciancone


 

«Curioso fatto che io tenda ad identificarmi in uomini come Williams, o Orton, o Fassbinder, o Bacon, o Borroughs, al punto da farne dei modelli, oltre che artistici, anche di vita – vita che, per quanto mi riguarda, non è mai altro dall’opera, e intendo la mia non meno della loro; o la loro non più della mia». Vitaliano Trevisan, in questa pagina di Black Tulips, il romanzo pubblicato postumo, cita anche Pasolini, ma dichiara di non poterlo annoverare tra i suoi maestri: «I martiri, che spesso sembrano accettare i supplizi con mistica gioia, mi fanno impressione». Eppure, nel Ponte (2007) Trevisan fa riferimento esplicito alla critica sferzante ai valori del proprio tempo per cui ricordiamo lo scrittore friulano: 

 

Hai iniziato a leggere Pasolini? È tutto lì, avevo detto, tutto scritto lì. A un certo punto c’è stato un crollo, scrive Pasolini, un crollo totale del passato nel presente, cosa che naturalmente ha fato sì che anche il presente crollasse. Tutti quei valori nazionalizzati, e dunque falsificati, che erano essenzialmente gli stessi valori su cui si basava il fascismo […]. Pasolini fa coincidere il crollo con la scomparsa delle lucciole […]: crollo totale di tutti i valori, che erano comunque falsi, nel presente; sostituzione dei vecchi falsi valori con valori d’importazione, essenzialmente americana, altrettanto falsi, ma ben più potenti, perché avanzanti di pari passo a una violenta omologazione industriale che distruggeva e annientava, come oggi distrugge e annienta, ogni cultura particolare.

 

Trevisan si inserisce sulla scia di Pasolini in quanto mistificatore dei valori a lui contemporanei, oppositore e avversario della cultura di massa, del costume, dell’acritico sentire collettivo. Tuttavia, se Pasolini focalizza la propria critica sulla contrapposizione tra due sistemi prima di tutto economici e poi di conseguenza sociali (il capitalismo da una parte, il marxismo e la cultura sottoproletaria dall’altra), in Trevisan è assente lo spirito conservatore e contemporaneamente – o forse proprio per questo motivo – rivoluzionario del primo. Nei frammenti di Black Tulips intitolati Lo stigma, ad esempio, Trevisan rifiuta il moralismo di chi vede nella prostituzione qualcosa di eticamente esecrabile, ma non lo contesta, anzi quasi si arrende al dato di fatto: «E mentre sempre più il civile si fa religione, il che non è certo una novità, il risultato è che a essere stigmatizzati sono entrambi gli attori. Mi sembra giusto. Se sono marchiate loro, perché non dovrei esserlo anch’io?». 

Black Tulips è il racconto retrospettivo in prima persona di un viaggio in Nigeria compiuto da Trevisan su invito di Adesuwa, una prostituta che lo incita a «vedere con i propri occhi» il posto da cui proviene. 

 

You must c with your own eyes. Era una frase che ricorreva spesso quando mi parlava della Nigeria. Impossibile anche solo tentare di descrivere, tanto non avrei capito. Dovevo vedere con i miei occhi […]. C’è da dire poi che l’Africa, e la Nigeria in particolare, erano un argomento che mi interessava sempre, prima dopo e anche senza dunque. A forza di sentirla raccontare, vedendola al contempo incarnata, a un certo punto mi resi conto che, in qualche modo, era diventata un’ossessione.

 

Sul piano narrativo, il testo apre uno spazio laterale rispetto agli anni già raccontati dallo stesso autore in Works, il romanzo del 2016 in cui Trevisan racconta la sua vita lavorativa da quando era ragazzo fino al momento in cui è diventato scrittore: i fatti di Black Tulips si collocano nel periodo, agli inizi del Duemila, in cui Trevisan era portiere notturno in un albergo. Il protagonista non ha ancora pubblicato libri e va in Nigeria con l’obiettivo di avviare un traffico di parti di ricambio usate per automobili. Ade (questo il soprannome della ragazza) sarà la guida del protagonista assieme a suo cugino Amen e al suo amico Mudia in una sorta di catabasi nei gorghi dell’inferno contemporaneo, nella cruda realtà rappresentata da una parte del mondo radicalmente altra rispetto all’Occidente. 

 

Ora, appena sbarcato all’aeroporto Murtala Muhammed di Lagos, non mi ci vuole molto per rendermi conto che tutta la mia tecnica, qui, non servirà a nulla. […] Mi arriva spesso all’orecchio la parola oyibo. E l’oyibo sono io, visto che significa uomo bianco. In realtà non solo, perché, come lei mi aveva spiegato, anche un afroamericano e addirittura un nigeriano occidentalizzato si poteva considerare un oyibo. Ma in questo caso non c’era tanto da sottilizzare, si riferivano a me. 

 

La parola “tecnica” rimanda direttamente, con una connessione culturale molto profonda, alla techné greca, cioè all’arte, al mestiere, al saper dominare e controllare un oggetto, strumento non solo di possesso ma anche di dominio nel passato e nel presente coloniale delle grandi potenze del mondo. In una dimensione totalmente altra, la tecnica, cioè il portato colonialista dell’uomo bianco sugli schiavi non europei, non gli serve a nulla, perché in quel contesto è lui lo straniero. Trevisan ribalta magistralmente il concetto di dominio, tanto da rimuovere in larghi tratti del proprio racconto anche la dimensione fisica e percettiva. La Nigeria è un luogo talmente altro da non poter essere percepito nemmeno con i sensi. 

 

Saltiamo a piè pari tutta la questione fisica, l’aria che ti avvolge, la sua consistenza quasi solida, gli odori eccetera; e via anche i colori, e soprattutto via il colore. Al soggetto si addice il Bianco e il Nero. 

 

Il viaggio in Trevisan è l’occasione per elaborare un’ampia panoramica sulla società contemporanea, con riferimenti alla genitorialità, al moralismo della società dello spettacolo («di tutti gli ambienti che non fanno per me, il premio letterario è uno dei più ostici»), ai legami storici, sociali e economici tra Italia e Nigeria. Black Tulips è un libro molto irregolare, che contiene diversi generi testuali (racconto retrospettivo, saggio pseudo-sociologico, excursus storiografico), tenuti insieme dalla voce narrante, la quale, in uno stile franto fatto di frasi ancipiti, punteggiatura aspra, ellissi e excursus, tiene insieme tutti questi elementi attraverso un racconto fondato stilisticamente sul frammento. Black Tulips non è concluso per via del suicidio dell’autore, eppure, paradossalmente, potrebbe benissimo sembrare al lettore un’opera compiuta. 

È il frammento di per sé l’elemento costitutivo di un lavoro, impossibile definirlo romanzo, che mette in crisi l’idea di narrazione organica e lineare. Il racconto è affidato non alla registrazione diretta dei dati bensì alla memoria, che è allo stesso tempo ricordo delle impressioni vissute e memoria ri-creata, ovvero generazione di nuove sensazioni a partire dal ricordo. A una lettura immersiva si potrebbe dire che la disposizione degli eventi non sia affatto mediata; al contrario, si può leggere in questa operazione stilistica il tentativo lucidissimo di restituire al lettore la complessità e l’inafferrabilità del dato concreto:

 

I frammenti che seguono coprono non un arco, ma una superficie temporale corrispondente al tempo relativo al primo soggiorno all’Imperial Garden Hotel, ovvero circa quindici giorni. Per cercare di essere più chiaro: avendo rifiutato a priori ogni possibile «registrazione» degli eventi, esterni e interni, in tempo reale, la presente memoria non intende puntinare (geometricamente) un arco temporale fittizio su cui disporre i frammenti in ordine cronologico. Quel che è accaduto è accaduto. Se prima questo e poi quello non ricordo.

 

E anzi la mediazione è ancor più evidente lì dove lo scrittore prende le distanze dai fatti raccontati, li guarda di taglio, secondo una prospettiva obliqua e retrospettiva, inserendo riflessioni, commenti, note al testo che aprono la narrazione a dimensioni ulteriori. Facciamo un esempio: nella citazione che segue, il protagonista decide di inoltrarsi da solo nelle strade di Lagos contro il parere delle sue guide. Si imbatte in tre sconosciuti dall’aria poco raccomandabile:

 

Oyibo: Oyibo’s here. How now?

Pausa di perplessità. 

Approfitto per breve panoramica: 

Tutti e tre sui 20/25, altezza 170/80, peso 65/75, fisici asciutti.

Occhi su Seduto, che rimane seduto.

Istinto dice: Andasse male, scagliarsi su di lui. Poi si vedrà.

Oyibo: So? U no speak anymo’?

Seduto: resta seduto ma posizione cambia: prima semidisteso: gomito su serbatoio, testa appoggiata su mano; ora raddrizzato, gambe larghe, mani sulle cosce; mi guarda rilassato, pronto.

Così per tempo larghissimo, tre, forse addirittura cinque secondi. Un’eternità, vista la situazione. E così cado nel consueto errore. 

Perché sono qui?, penso. Stupido. Stupido stupido stupido. Fuori di me. Fuori di chi? no: fuori da chi? 

A don’t kno’!

Lie.

Dey didn’t do me noting. Fuck dem. Fuck dis fucking war.

2 late omo. We went to war. Ain’t no going back…and if it’s a lie, then we fight on the lie!

E qui, a salvarmi, l’arrivo di Ade e Amen.

Pessimo romanzo come ce ne sono tanti. Ma non è colpa mia se arrivarono appena in tempo per evitare il peggio. Realtà non è romanzo. Questo scritto nemmeno. Tutto quanto scritto nemmeno, e nessuna scrittura di nostra mano potrà mai essere stata ciò che non è mai stata. Non mio problema.

Amen e Ade parlano con gli okadas. Seduto è ora in piedi. Di tutto ciò che dicono poco o nulla capisco. Parole che riesco a isolare: oyibo (sic!) – oybo-go (sic-sic) – white man (strasxx) – dundee… Dundee United (???).

me (a Seduto, in piedi di fronte a me): A’m Vitt, omo, not «a negro».

negro scritto (pronuncia nigro); in realtà oyibo detto – scrittura rivela negativo; lettura anche – scrivere = leggere – scrivere è leggere (proposizione antistrofica – reciprocatio) – ascolto (di tutto) prima viene. 

 

L’andamento della narrazione è fortemente ellittico e frammentato, la scrittura rinuncia all’uso dei soggetti, dei verbi e delle connessioni tanto sintattiche quanto semantiche tra le parole e tra le frasi. Si alternano una voce narrante intradiegetica e una extradiegetica, ovvero la voce interiore di chi vive quel momento e quella di chi lo racconta ricostruendolo. A testimonianza dell’effetto di straniamento che questa tecnica produce, sta il ricorso del narratore prima al termine oyibo e poi al pronome “me” per indicare sé stesso, quasi egli osservasse la scena prima dalla prospettiva di un osservatore esterno – poco importa chi fosse – poi dalla propria. In alcuni passaggi del testo, il narratore, per parlare di sé, ricorre direttamente alla terza persona. Il ricorso al pidgin-english, poi, ha la funzione, quasi fosse una trascrizione fonetica dei dialoghi, di restituire al lettore in modo realistico la situazione. 

Tuttavia, dobbiamo tenere presente che il testo è una ricostruzione retrospettiva dei fatti, non una trascrizione in presa diretta. Perché Trevisan alterna scelte stilistiche così contrastanti? Da una parte, possiamo leggervi a mio parere la volontà di narrare non tanto dei fatti, quanto delle percezioni. Non importa cosa sia accaduto, importa come. Ambiguità, incertezze, mancanze e lacune della narrazione non vengono ricostruite in modo razionale, ma abbandonate a sé stesse sulla pagina, presentate per come sono, senza la pretesa di razionalizzare l’accaduto. Se la realtà non è un romanzo, allora chi la vive non ha il compito di mettere in ordine i fatti.

È anche per questo motivo che il protagonista avverte l’esigenza di dismettere i propri dispositivi di percezione della realtà, di privarsi di ogni familiarità con l’ambiente circostante. Oltre alla registrazione del dato sensibile e naturale, il viaggiatore rinuncia ai mezzi di conoscenza del reale culturalmente imposti: la visione prospettica, la tecnica, i propri mezzi da scrittore, le sue preconoscenze sul mondo, considerati persino superflui. 

Abbiamo definito Black Tulips una catabasi nell’inferno contemporaneo, e concentrandoci su questo aspetto è facile notare il collegamento con un’opera come la Divina mimesis di Pasolini, pubblicata nel 1975. La vicinanza tra Pasolini e Trevisan può essere cercata qui: nella spinta incoercibile a indagare e a tenere insieme il diverso e il multiforme, a far affiorare sulla pagina realtà sociali, linguistiche e culturali subalterne, a rappresentarne senza mediazioni la vita, riconoscendosi altro. Forse è questo l’aspetto più decisivo del confronto tra i due autori. Esistono, tuttavia, alcune differenze sostanziali. Cercherò di partire proprio dallo stile: al contrario di Pasolini, Trevisan adotta modi realistici di rappresentazione. Perché?

La risposta sta, a mio parere, nel diverso modo in cui Pasolini e Trevisan concepiscono la realtà e la Storia. Pasolini scrive, almeno fino alla metà degli anni ’60, nell’idea che la letteratura abbia il potere di plasmare la realtà. La scrittura (e gli scrittori) marxisti individuavano ancora un forte legame della propria opera con la Storia, con l’idea che esistesse un’idea di futuro a cui aggrapparsi e verso cui tendere. Trevisan, al contrario, è molto più velleitario di Pasolini, porta sulla pagina un sé stesso senza alcuna mediazione, senza intenzione di costruire qualcosa attorno a sé. La scrittura postmoderna, nel caso di Trevisan, rescinde i legami tra rappresentazione e Storia, e anche quando parla di colonialismo lo fa in modo fine a sé stesso.

Il dato autobiografico svolge un ruolo di primaria importanza negli scritti di entrambi gli autori: riprendendo una definizione di Paolo Zublena, i testi di Trevisan non sono altro che autobiografia selettiva. Al lettore di Pasolini verrà in mente, a questo proposito, l’uso marcatamente politico che lo scrittore friulano faceva della propria vita, dello stigma che gli era stato affibbiato dalla società civile, politica e intellettuale per via della sua omosessualità. Eppure, difficilmente Pasolini riesce a farsi personaggio nei suoi scritti, difficilmente si mette alla pari con il mondo sottoproletario che rappresenta nelle sue opere. Questo perché Pasolini sentiva il peso e il fastidio personale del suo essere borghese, ma anche perché, come scrive Walter Siti nei suoi saggi sull’autore friulano, «Pasolini è sempre sulla scena, è con lui che il lettore incessantemente si identifica, perché lo sente come qualcuno che non ha mai finito di fare i conti col mondo; è sempre lui che si giustifica, che mostra, che si incanta, che accusa. Per annullarsi in un personaggio bisogna essere stanchi di sé, sospendere il risentimento, in qualche misura rinunciare alla vita: mentre la “passione per la vita presente” è in Pasolini il fuoco che brucia tutto, che attraversa i testi e li dichiara inadeguati». Il ricorso all’allegoria, alla metafora, alla mediazione e alla trasfigurazione in Pasolini sono in realtà il mezzo, del tutto assente in Trevisan, per dire qualcosa di estremamente concreto e politico su ciò che gli sta intorno.

 

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