Una triplice lettura di Le margheritine di Vera Chytilova
Delle immagini d’archivio ci mostrano degli aerei da guerra che sganciano bombe sull’Oceano Pacifico. Una macchina per la filatura gira incessantemente, in effetti molto simile alla bobina cinematografica che gira frenetica sul suo rullo. Due ragazze, Marie I e Marie II, una bionda e una mora, sono sedute su un asciugamano a scacchi bianco e nero mentre prendono il sole. Marie I s’infila un dito nel naso, mentre Marie II tira fuori una tromba e prova a suonarla senza successo. Guardano dritte in camera, mentre dicono:
“Non so fare neanche questo”
“Cosa sappiamo fare?”
“Non sappiamo fare niente”
Si muovono attraverso gesti meccanici, come fossero delle bambole di porcellana catapultate in un film slapstick. Le due protagoniste ci confessano che “se il mondo è cattivo, allora anche noi diventeremo cattive”.
Così Vera Chytilova apre Le Margheritine (1966), film culto della Nová Vlna, la cosiddetta nouvelle vague cecoslovacca, che si impose nel panorama nazionale ed europeo tra fine anni ‘50 e la Primavera di Praga del ‘68. Se in Francia il fermento culturale ruotava attorno alla rivista de Les Cahiers du Cinéma, in Cecoslovacchia i futuri autori ronzavano intorno all’alveare autoriale della scuola FAMU di Praga. Oltre a Vera Chytilova, unica donna mai stata ammessa alla scuola, i più importanti esponenti furono Evald Schorm, Jan Nerec e, soprattutto, Milos Forman, regista pluripremiato naturalizzato americano. L’obiettivo era creare un nuovo linguaggio cinematografico, slegarsi dalla cultura dominante e sperimentare.
Come scrive Lino Micciché nel suo studio sul nuovo cinema degli anni ‘60, le varie nouvelle vague non nascono come teorie unitarie e rivoluzionarie, ma come un momento storico con elementi assimilabili nonostante il diverso contesto geografico. Il rifiuto dell’intreccio romanzesco tradizionale e dell’approfondimento psicologico dei personaggi va incontro a forme narrative frammentate, determinando “un’alogica struttura ad infilzamento”. La camera non era più invisibile, ma voleva essere disvelata, prendere spazio e darsi forma, introducendosi come un nuovo elemento dialettico e sottolineando il carattere fenomenologico del narrato. Non si limitavano ad intervenire sul linguaggio cinematografico, ma coinvolgono anche il rapporto tra industria e politica autoriale, allontanandosi dalla funzione merceologica del cinema.
Nel caso della Nová Vlna la situazione era un po’ diversa: dopo l’esperienza del gruppo d’avanguardia dada Devetsil negli anni ‘20, influenzato dal realismo magico e dall’arte proletaria, il movimento si spegne rapidamente ma lascia le sue tracce. Nel periodo di destalinizzazione degli anni ‘50, gli studenti della FAMU decidono di aprirsi verso una sperimentazione formale creando una contestazione poetica più radicale e che passi attraverso più voci. A differenza della nouvelle vague francese, gli autori cecoslovacchi ebbero non poche difficoltà ad esprimere il loro dissenso, politico e intellettuale, a causa di una censura totalizzante. Ogni film doveva essere supervisionato in tutto il processo produttivo: dalla lettura della sceneggiatura alla visione integrale del film finito, così anche Le Margheritine. La regista è stata costretta ad aggirare la censura attraverso un linguaggio implicito e simbolico proprio perché la sceneggiatura era stata respinta più volte.
Film surreale, gioioso e nichilista racconta la storia di due sorelle dallo stesso nome, che decidono di corrompersi a un mondo ormai corrotto. Le vediamo abbuffarsi di cibo, rubare soldi, ingannare vecchi solo per il gusto di farlo. Sono personaggi a cui la regista non vuole dare spessore psicologico, ma farci godere del caos dei loro movimenti, dei loro giochi, delle loro fantasie.
In una delle prime sequenze vediamo Marie I schiaffeggiare Marie II, facendola cadere all’indietro, per poi atterrare in un prato fiorito attraverso un taglio di montaggio inaspettato e frustrante. Ghirlande di fiori in testa, le vediamo ruotare attorno a un albero pieno di mele, evidente allusione al giardino dell’Eden e all’origine simbolica della corruzione stessa. Sullo schermo vedremo altre mele verdi, morse sempre più voracemente, in un climax di distruzione e vizio. La regista ci fa immergere fin da subito in uno spazio-tempo alterato, nel quale i raccordi di montaggio sono pensati come relazioni associative dadaiste e non come conseguenze logiche. Chytilova abbandona il realismo socialista che aveva dominato il cinema cecoslovaccco fino a metà degli anni ‘50, nel quale l’eroe positivo doveva superare una serie di ostacoli con l’obiettivo di combattere antagonisti ideologici e creare una coscienza politica delle masse. Il cinema di propaganda sovietico, in un certo senso più simile a quello Hollywoodiano per struttura e lieto fine, viene frammentato e sostituito da un linguaggio multiforme.
Le ragazze si muovono libere nello schermo, mostrando una forza distruttiva reale e simbolica. Danno spettacolo inscenando dei piccoli teatrini e giochi di ruolo in giro per la città, si fanno offrire golose cene dai loro sugar daddy, per poi abbandonarli prima di qualunque atto sessuale; le vediamo ubriacarsi in una balera per poi essere cacciate. Il momento più interessante è quando la regista decide di fondere linguaggio e forma in un collage dadaista: le due ragazze prendono un paio di forbici e iniziano a dissezionarsi il corpo a vicenda. Prima si tagliano un braccio, poi il busto, infine vediamo le loro due teste fluttuare nell’inquadratura come fossero in un collage di Max Ernst degli anni ‘20. Nel movimento surrealista il corpo femminile era destinato ad essere solo guardato e sezionato dallo sguardo maschile, in questa sequenza sono le protagoniste stesse a decidere di fare questo gioco. Creano dei nuovi corpi, smembrati e instabili, che vogliono sicuramente mettere in discussione le rappresentazioni canoniche del femminile. Un ribaltamento non solo di sguardo, ma anche di azione.
In una delle ultime scene vediamo le due ragazze intrufolarsi in un enorme banchetto e iniziare a ingozzarsi di cibo. La sequenza non è grottesca, non ricorda la suicida abbuffata diretta da Marco Ferreri, ma è una scena stranamente gioiosa. Le due ragazze non cercano altro che abbondanza e gioco. Una delle due stacca una tenda e se la mette in testa a mo’ di velo da sposa, mentre l’altra inizia uno spogliarello. Anche qui, Chytilova sembra prendersi gioco della visione stereotipata della donna, o sposa o puttana, facendole sfilare insieme sopra la lunga tavolata come se fosse una passerella di alta moda. L’euforia viene spezzata dalla punizione: le ragazze affondano in un fiume nero, mentre una voce fuori campo dice “poteva solo finire così, sarebbe possibile sistemare quello che è stato distrutto?”. Le due si ritrovano nuovamente nella stanza del banchetto con scopa e paletta per rimettere tutto a posto. Ci lasciano con un discorso surreale:
“Sarà tutto pulito”
“Saremo brave, buone e diligenti” […]
“Stiamo fingendo?”
“No, siamo veramente felici”
“È importante?”
“No, non è importante”
Le protagoniste è come se tornassero alla condizione di bambole iniziale. La loro avventura gioiosa sembra essere spezzata da un moralismo controllante superiore. Nell’ultima scena un enorme lampadario cade addosso alle due ragazze e con un rapido taglio di montaggio torniamo alle sequenze del prologo con bombardamenti e palazzi definitivamente distrutti. In una chiusura del cerchio che allude alla forza degenerativa di Marie I e Marie II.
Ai tempi fu criticato aspramente dal governo sovietico per l’ingente spreco di cibo, inoltre fu catalogato come un film senza ideologia che si avvicinava pericolosamente al consumismo borghese. Il film fu ostacolato nella distribuzione cinematografica e alla regista fu impedito di fare film dal ‘70 fino al ‘76. La sua ultima opera della stagione delle grandi lotte politiche fu Il frutto del paradiso.
Lino Micciché definì il cinema degli anni ‘60 di Chytilova “moraleggiante” e perfino Godard la criticò per l’elogio dei valori borghesi, ignorando la complessità del film. Era proprio questa la grande differenza tra le due nouvelle vague: quella francese era intrinsecamente borghese nel suo dichiararsi marxista, mentre quella cecoslovacca era ironicamente disillusa e nichilista, consapevole delle contraddizioni dello stato comunista. Questa incomunicabilità contestuale creò una frattura nel nuovo cinema di quegli anni.
Il film fa ironia dei cliché borghesi e interseca una triplice critica: allo sfruttamento patriarcale, al realismo socialista e alla censura controllante dello stato. Vera Chytilova decide di presentarci due figure femminili, senza spessore psicologico né linguistico. Le vediamo muoversi come se fossero bambole o burattini, condizione sottolineata da un sonoro scricchiolio degli ingranaggi. Utilizzano solo frasi fatte, un vocabolario ristretto che diventa una nenia musicale. La regista estremizza la proiezione della visione patriarcale della donna, volendola liberare dal decoro e dalla costrizione della sua stessa condizione. Attraverso la chiave satirica ridicolizza non le sue protagoniste, ma la rappresentazione statica del loro ruolo di genere. Al punto tale da farglielo distruggere: tagliandosi a pezzettini, non mutilano loro stesse, ma la funzione sociale che gli è stata cucito addosso dalla società.
Nella scena del banchetto finale sembra più pertinente credere che non sia la regista dall’alto della sua morale a punire le sue protagoniste. Più probabilmente è una rappresentazione comica dello sguardo maschile che vuole punire la libertà d’azione delle donne, per ricollocarle in una posizione di subordinazione. Le protagoniste non possono godere di quel simposio, che rimane un luogo di accesso solo maschile.
Chytilova si spinge ancora oltre, in una scena vediamo le due ragazze fare il bagno in una vasca piena di latte, mentre mangiano e intingono dei biscotti. C’è un dialogo nel quale si chiedono se esistono veramente, visto che non hanno né un lavoro né una residenza. La regista sembra alludere, tra un biscotto e l’altro, alla coincidenza necessaria tra esistenza e produttività cara allo stato comunista. Il dialogo, fulmineo ma spietato, critica lucidamente un sistema societario che non sa cosa sia il tempo libero dei suoi cittadini, anticipando le lotte politiche della Primavera di Praga di qualche anno dopo.
Vera Chytilova mischia registri artistici completamente diversi, il montaggio dada all’art nouvau, lenti deformanti e influsso artistico derivante dalle riviste pop anni ‘60. Un film libero a più livelli che riesce, attraverso meccanismi sottili e mediamente impliciti, a fare di un film apparentemente superficiale una feroce critica politica e sociale.