Non si può abbattere il capitalismo senza essere violenti

In copertina: frame del film How to blow up a pipeline, tratto dall’omonimo libro di Andreas Malm

 

La crisi sistemica nella quale è immerso l’uomo dell’Antropocene richiede risposte sempre più urgenti. Andreas Malm invita i propri lettori a considerare la violenza a scopo di protesta un mezzo non solo auspicabile, ma ormai necessario. 

di Fabio Ciancone


 

Mentre il sindaco di Firenze Dario Nardella definisce in favore di telecamera Piazza della Signoria “il più grande museo a cielo aperto”, alle sue spalle un militante di Ultima Generazione sta spruzzando vernice arancione su Palazzo Vecchio. Nardella, dopo essersene accorto, corre a braccare il manifestante. Il video della protesta ha provocato la condanna pressoché unanime della politica parlamentare e di gran parte dell’establishment mediatico ai militanti: «L’attacco all’arte, la cultura e la bellezza, che sono inermi davanti alla violenza e che nascono per il bene dell’umanità non può mai giustificare la battaglia per una causa, anche la più condivisibile», ha scritto su Twitter Nardella, sintetizzando il pensiero collettivo. Questa critica, tuttavia, mette l’accento su una questione che trovo del tutto secondaria rispetto alla crisi climatica, come in tutti i casi in cui, nei musei o davanti ai monumenti, è stato usato lo stesso metodo di protesta (per molti altri intanto da quel giorno Nardella è il più grande pagliaccio – nel codice memetico – d’Italia, con la sua faccia disperata di bravo e ricco padre di famiglia che pulisce la piazza di quartiere la domenica contro il degrado).

Contemporaneamente e per molte settimane a venire, in Francia, una coalizione di persone appartenenti alle più disparate categorie di lavoratrici protestava per le strade insieme alle studentesse contro la riforma delle pensioni del governo Macron. Il livello della tensione di quelle manifestazioni era, e continua a essere, molto alto: i media hanno immortalato edifici e cassonetti incendiati, vetrine spaccate, immondizia lasciata marcire in strada dagli addetti. La risposta delle istituzioni non è stata molto diversa da quella italiana: «L’opposizione è legittima, le manifestazioni sono legittime, il caos o i disordini no» ha detto il ministro dell’Interno francese Darmanin.

Il campo semantico a cui ricorrono più spesso i media e gli opinionisti nei loro commenti, per indebolire e condannare i gesti di protesta, è quello della guerra: gli attivisti climatici fanno «blitz», «attaccano» l’arte e il patrimonio «indifesi» e «inermi»; in strada in Francia si perpetra una «guerriglia urbana», è iniziata una «stagione di rivolta». Se guerra deve essere, allora, le istituzioni reagiscono reprimendo, con le leggi o con la forza, le azioni dei manifestanti. Ultimo esempio di questo fenomeno, la denuncia ai danni delle attiviste di Non Una Di Meno da parte della Ministra Roccella dopo la protesta delle donne durante il Salone del Libro di Torino. Da questa evidenza nasce una domanda: in un sistema opprimente la violenza a scopo di protesta è necessaria?

Su questo si è interrogato Andreas Malm, attivista climatico e professore universitario, nel pamphlet Come far saltare un oleodotto. Malm sostiene l’ineludibile necessità di ricorrere a gesti violenti per manifestare contro politiche energetiche e produttive dannose per l’uomo e per l’ambiente. L’autore racconta in circa 250 pagine di essersi reso protagonista di azioni di disobbedienza civile: sgonfiare le ruote dei Suv, rompere le vetrine dei negozi, danneggiare o sabotare centrali di produzione di energia elettrica attive o in costruzione. Alla componente autobiografica, che funge quasi da exemplum per dimostrare quanto questi gesti siano efficaci per sensibilizzare l’opinione pubblica – o per danneggiare un sistema produttivo che l’autore ritiene iniquo e dannoso –, Malm affianca un vero e proprio testo teorico sulla militanza e sull’attivismo, in un’efficace compenetrazione di personale e politico: 

 

Inserirvi alcuni racconti tratti dalla mia esperienza non sarà stata la procedura perfetta, ma l’ho fatto per ravvivare il testo e abbozzare una traiettoria possibile: dalla disobbedienza civile interamente pacifica della COP1 (1995) allo sgonfiaggio dei SUV nei quartieri ricchi (2007) all’assalto di una centrale a carbone (2016) e così via.

 

Secondo Malm l’azione violenta ai danni del sistema vigente non è solo necessaria, ma anche la più efficace. Per avallare le sue posizioni ricorre a esempi storici di proteste violente e fruttuose: a partire dalla rivoluzione antischiavista negli Stati Uniti, Malm scrive una breve storia contemporanea della violenza a scopo civile, raccontando, tra i vari episodi, la disobbedienza delle suffragette, che spaccavano i vetri del palazzo e dell’auto di Churchill, davano fuoco alle cassette delle lettere e danneggiavano negozi; le vicende delle Black Panthers, che con la loro azione armata hanno fatto da scudo istituzionale alle posizioni più moderate di Martin Luther King, rendendole più accettabili agli occhi dell’opinione pubblica, come sostiene la cosiddetta “teoria dell’effetto dell’ala radicale” citata da Malm; e ancora le proteste contro l’Apartheid in Sudafrica e quelle in Egitto del 2011. 

L’argomentazione dell’autore svedese sposta quindi l’attenzione sul presente e sulle pratiche adottate oggi dai movimenti ambientalisti. È da specificare che, quando il libro è uscito, non era ancora iniziato l’ultimo ciclo di proteste di Ultima Generazione, che probabilmente è quanto più si avvicina, anche se non completamente, all’idea di militanza proposta da Malm. Il termine “ciclo” è usato dallo stesso Malm, che suddivide in fasi storiche il movimento ambientalista, partendo dagli anni Ottanta e Novanta, per arrivare alle proteste delle COP di Parigi e Copenaghen, fino ai Fridays For Future e alle manifestazioni di XR. I movimenti ambientalisti, dice lui, hanno avuto un grande limite: non aver abbracciato la violenza come metodo, al contrario di quanto accaduto con altri movimenti rivoluzionari del passato. Il movimento ambientalista, finora, non possiede un’ala radicale, qualcuno che, con la propria azione sovversiva, sposti il cosiddetto “centro” verso posizioni politiche largamente condivise che tutelino l’ambiente. 

 

Le ricerche secondo cui abbiamo forse già superato certi punti di svolta – ad esempio, e soprattutto, lo scioglimento della calotta nell’Antartide Occidentale – non fanno che indicare la necessità di tattiche d’emergenza; se ne supereremo altri, la necessità aumenterà ancora, fino a che, nel caso peggiore, verrà il tempo di Varsavia.

 

È evidente, dice Malm, che la lotta ambientalista debba a tutti i costi prevedere una modifica radicale anche dello status quo economico, minando alla base le radici del capitalismo, che ha in sé e non fuori da sé le cause della crisi climatica. Fare militanza non violenta genera inevitabilmente delle contraddizioni, poiché non è esistita protesta che non abbia contenuto una dose di violenza, anche non agita nei confronti di esseri umani: «Il Muro di Berlino? Mica cadde a forza di carezze». 

L’argomentazione dell’autore procede per esempi e per confutazione delle posizioni contrarie alla propria, riportando dati scientifici e esponendo i fatti con chiarezza e con un linguaggio immediato e comprensibile. Dopo aver preso consapevolezza del disastro imminente, le strade percorribili sono diverse: Malm cita le posizioni di chi sostiene, come il saggista Roy Scranton nel saggio Learning to Die in the Anthropocene: Reflections on the End of a Civilization (2015), che è necessario lasciarsi morire asceticamente perché non ci resta più nulla da fare, o di chi, come Jonathan Franzen in The End of the End of the Earth (2018), crede, in virtù della propria posizione di privilegio, che un adattamento alle nuove condizioni sia possibile. L’autore, dal canto suo, invita a lottare davvero per cambiare il sistema, fino al giorno in cui «l’abbattimento di qualche cancellata sembrerà un’infrazione molto lieve».

 

Pochi processi generano tanta disperazione quanto il riscaldamento globale. Immaginiamo che, un giorno, l’emozione – accumulata per lo più nel Sud globale – trovi sbocco. Il gandhismo del movimento climatico ha fatto il suo tempo; forse arriva quello del fanonismo.

 

Cosa resta del testo di Malm a chi lotta per altre cause? Fino a che punto possiamo usare la violenza quando in ballo c’è la riforma delle pensioni e non la possibile estinzione del genere umano? Fino a che punto la violenza può considerarsi un mezzo di sopravvivenza e fino a quanto siamo disposti a sentire sulla nostra pelle l’estrema urgenza di una causa? Per rispondere a queste domande dobbiamo, per prima cosa, estendere il più possibile il concetto di violenza: un atto violento non è soltanto un’azione contro un essere umano, ma anche un’azione contro un bene, contro un oggetto, o un semplice gesto che contraddice le norme di costume. A quel punto si comprenderà che per sovvertire lo status quo bisogna necessariamente compiere un’azione in qualche modo violenta. La stessa violenza che le istituzioni usano, in modo repressivo e non sovversivo, per mantenere quello status quo. Manganellare, denunciare o considerare socialmente pericolosi i manifestanti sono atti estremamente violenti, che minano la libertà di chi prova a opporsi allo stato delle cose. Bisognerebbe forse soltanto riconoscere e accettare l’esistenza e la naturalità del conflitto, e la sua perpetrazione come strumento di cambiamento. E poi anche comprendere che ritenere violento l’attacco a un bene materiale privato è una forma di privilegio.

La vicenda dell’anarchico Alfredo Cospito, detenuto in sciopero della fame per protestare contro il regime carcerario del 41bis, riassume probabilmente più di ogni caso recente tutta la possibile efficacia e tutta la brutalità del conflitto violento. Cospito, dopo essere stato accusato di terrorismo per aver fatto esplodere una centrale dei Carabinieri senza provocare vittime, ha causato con estrema violenza un’ingente quantità di danni a sé stesso: è in sedia a rotelle e probabilmente ha perso in modo irreversibile l’uso di un piede. Dall’altra parte, lo Stato lo ha condannato a un regime iniquo al limite della tortura e ha lasciato, con la forza della noncuranza e delle leggi, che i danni fisici a Cospito si perpetrassero senza appello. Anche chi ha tentato dall’estero di prendere una posizione si è ritrovato a sublimare questa violenza – tragica nel senso classico del termine, senza apparente soluzione – e l’ha accolta come parte integrante di questo conflitto (non siamo stati forse tutti convinti, almeno per un momento, che la sua morte fosse necessaria alla causa?). 

Ciò che importa qui non è la vicenda di Cospito in sé, perché come questa se ne potrebbero citare tantissime, proprio perché il fenomeno che cerco di inquadrare non è episodico ma sistemico e come ogni fatto strutturale ha innumerevoli manifestazioni particolari. Sull’esempio di Cospito, invece, occorre leggere la realtà sotto la lente del conflitto, pensare che ogni tentativo di cambiamento o ogni azione per il mantenimento di un diritto ha bisogno di uno spostamento del baricentro politico o di un rafforzamento difensivo di ciò che ci resta. 

 

Rispondi