Un viaggio in Libano fra arte e crisi economica
“Hai davanti la più grande chiesa in Libano per numero di mosaici” mi dice Paolo Favret.
È il primo di quindici giorni trascorsi ad Harissa, luogo sacro ai cattolici che si trova su un’altura a circa mezz’ora di macchina da Beirut. St. Paul Cathedral è la basilica dei missionari paolisti: sono preti, vescovi e seminaristi che vivono lì accanto, nel convento. Ci ospitano, parlano e lavorano con noi.
Quel pomeriggio lo trascorro con Favret, mosaicista a capo di un importante laboratorio artistico di Pietrasanta. Nel guardare le iconografie sacre e gli arabeschi capricciosi, non si preoccupa di trattenere un certo orgoglio, e di fatti aggiunge: “La mia famiglia segue questo progetto dagli anni Ottanta. Mio nonno ha iniziato dall’abside. Ha continuato mio padre. Io finirò l’ultima parte della navata, verso l’ingresso”.
Visito l’interno della basilica: parliamo di metri e metri quadrati di mosaici, un mare di sfacciata ricchezza che soffoca ogni più piccolo spazio vuoto, un trionfo dell’horror vacui. Davvero tutto, dall’abside ai sott’archi più nascosti, è ricoperto da tessere dorate della dimensione di un’unghia.
Potrebbe essere un’altra Monreale.
L’esterno invece si presenta come un ammasso di cupole e archetti, tra le quali svetta qualche torretta. I costoloni bianchi spiccano sui colori aranciati e gialli della muratura, conferendo ritmo all’architettura.
Qui ci ricordiamo che siamo in Medio Oriente, e ci troviamo a fare i conti con la realtà: in uno Stato in cui si distribuiscono solo due ore al giorno di energia elettrica, il ceto medio è ridotto a un’invenzione e la popolazione si divide fra l’estremo ricco e l’estremo povero. Dove gli sceicchi possono permettersi di illuminare privatamente le loro ville con piscina, ho visto molti negozianti vendere le sigarette di contrabbando facendo luce con una torcia a pile. Dato un simile scenario, tra il 2019 e il 2020 Beirut è diventata teatro di proteste, e da allora il centro storico è chiuso al pubblico, costantemente sorvegliato da accampamenti di uomini armati.
Non sono preposti ad una semplice sorveglianza: ogni sera si esercitano e i loro spari turbano il silenzio della notte di un paese ufficialmente non in guerra. Ingenuamente, Favret ed io pensiamo ai fuochi d’artificio.
Ma il Libano confina con Siria ed Israele, per cui “bisogna essere pronti ad ogni evenienza. Qui non siamo in Italia”, ci tiene a sottolineare Abouna Nayef, uno dei padri del convento (“abouna”, in arabo, significa “padre”).
In quei giorni dovevo aiutare Favret a ricoprire il transetto di St. Paul con le icone di Zaccaria, Elisabetta con il piccolo Giovanni Battista, da un lato, e quelle di Gioacchino e della Vergine Maria dall’altro.
Ai piedi delle figure, in greco, “dono di Mikael e Antonios Ioakeim 2020”: quei quaranta metri di mosaico venivano donati da una sola famiglia.
E mentre queste figure si componevano davanti ai nostri occhi prendeva forma nelle nostre coscienze qualcosa di più ingombrante e impossibile da ignorare: la messa a fuoco del vero Libano contemporaneo, un panorama che dimentica i mosaici, fatto di persone sfollate, strade dissestate e sorvegliate militarmente, edifici nei pressi del porto ancora senza finestre dall’esplosione nel 2020.
Eppure il terzo giorno mi ritrovo a cena seduta accanto al patriarca Béchara Boutros al Raï.
Siamo a Bkerké, la residenza del patriarca maronita: l’occasione è il sinodo, per il quale è stato chiamato il catering del più famoso ristorante di Beirut. Le portate, servite rigorosamente prima al patriarca, erano infinite proposte di pesce, cucinato in qualsiasi modalità possa venire in mente. Non si beveva vino, ma solo acqua.
Chiedo se posso fare una foto al banchetto. Mi viene risposto negativamente: non potevo testimoniare la ricchezza di quella tavola. Dopo gli otto dessert, il cardinale fa tintinnare il calice con il cucchiaio: ci presenta agli altri ospiti dandoci il benvenuto, ringrazia e annuncia una nuova commissione artistica a un centinaio di uomini vestiti in casule nere. Ovviamente ero l’unica donna. Illustra il nuovo progetto per Saydet al Mantara, una chiesa che si trova nel sud del Paese: sarà una grande icona a mosaico raffigurante San Maron, il monaco siriaco da cui nasceva la congregazione monastica-spirituale del Libano.
Prima di salutarci, Béchara al Raï ci ospita nel suo studio, ridefinisce il progetto con Favret e nel privato del suo appartamento ci offre amari e grappe, bevendo con noi.
Le opere di cui parliamo vengono preparate a Pietrasanta, in provincia di Lucca: il patriarca ha scelto un laboratorio che lavora oro, marmo lunense, vetri smaltati. Ne escono opere preziose sia per materiali che per tecnica: dal bozzetto all’assemblaggio, dal trasporto via mare all’allestimento in loco, il procedimento è lungo e costoso, il risultato ammaliante.
In due settimane ho capito quanto numerose potessero essere le commissioni non solo di ordini religiosi, come quella del patriarca libanese, ma anche di privati e di famiglie devote, come era stato il caso di Ioakeim per St. Paul.
Dopo nove giorni trascorsi ad Harissa, infatti, incontriamo la famiglia Awad. Ci portano in gita sul Monte Libano: visitiamo le loro due residenze estive, piene zeppe di lampadari in cristallo veneziani, arazzi e suppellettili di età napoleonica.
Gli Awad ci offrono la cena in una tavola calda, ad Hasroun. Poco distante c’è una chiesa, St. Anne, per la quale viene discusso il progetto: l’ingegnere Awad, il capofamiglia, vorrebbe ricoprire la parete destra dell’altare e commissiona a Favret un mosaico a fondo oro con icona centrale, forse Padre Pio. È molto importante, per loro, il rivestimento in vera foglia d’oro a ventiquattro carati.
Quando arriva l’’ultima domenica del nostro viaggio, un taxi ci aspetta fuori dal convento. Viene per conto di un altro committente di Beirut, Habib Sayegh, che ci invita al pranzo domenicale di famiglia nella residenza estiva tra le montagne, a Faq’ra.
Immersa in un roseto c’è una grande villa, il giardino così perfetto e curato che sembrava il set di uno di quegli spot pubblicitari di antipulci per cani, che infatti sono tre, ovviamente di razza. Il pranzo è un simposio, le portate arrivano su vassoi d’argento, i domestici filippini ci versano acqua in continuazione.
Già anni prima la famiglia aveva commissionato al laboratorio di Favret un paio di icone: tessere sottili e preziose per una Madonna col Bambino da destinare a una fruizione del tutto privata. Per esporle lo sceicco aveva fatto costruire in giardino una cappella di famiglia. Ci conduce a vederla e, già che c’è, ordina un nuovo mosaico.
Quello tra Pietrasanta e Libano è un commercio più proficuo di quanto si possa immaginare, e parla solo di ricchezza e benessere.
I mosaici ci abbagliano nascondendo pareti più grezze: accolgono testi greci e arabi su un supporto di manifattura italiana, ostentando un’armonia tra culture diverse, ricercata ma superficiale. Al di là delle chiese imbarocchite, infatti, il Libano rimane quello descritto prima: uno Stato piccolissimo e tormentato da contraddizioni stridenti che pure si cerca di ammorbidire. Ad Harissa, per esempio, Abouna George, mi raccontava degli incontri organizzati dai paolisti. Un’occasione coraggiosa di comunicazione aperta ai filosofi e teologi islamici e cristiani, nel tentativo del perseguimento di un felice incontro delle due culture. Ma l’iniziativa ha chiuso per mancanza di partecipanti e, si capisce, soprattutto di fondi.
L’ultimo giorno, Abouna Marwan, padre reggente di Harissa, ci accompagna all’aeroporto di Beirut: durante il tragitto parliamo con soddisfazione di quanto il lavoro sia uscito bene. La parete è stata ripulita dagli ultimi residui di cemento e colla di farina. La superficie è piana e riflettente; i marmi, i lapislazzuli e l’oro rifulgono intensamente.
Intanto guardo fuori dal finestrino, cercando di raccogliere le ultime immagini di Beirut: due bambini di circa dieci anni stavano intorno ai cassonetti dell’immondizia. Erano scalzi.