Il cinema organico di Phil Tippett

Mad God

In copertina: Mad God di Phil Tippett, 2021

 

Estinto dai dinosauri, poi resuscitato folle dio della stop-motion

di Franco Cimei


 

Nel momento stesso in cui comprende che Jurassic Park “fu lo sparo alla testa della stop-motion”, perché i suoi dinosauri furono le prime animazioni interamente digitali della storia del cinema, Phil Tippett, che aveva animato icone come Jabba The Hut e il drago a due teste di Willow, si pone una domanda esistenziale: “tutto ciò che sapevo non aveva più valore: e adesso?” Le citazioni sono estratte da un documentario realizzato da Vice in cui dopo aver pronunciato quest’ultima frase mima con la mano il gesto di puntarsi una pistola in bocca.

 

Phil Tippet estinto dai dinosauri

Fino a lì era stata una carriera incredibile. Phil Tippett nasce a Berkeley, California, nel 1951, rimane affascinato dalla visione di King Kong e dai suoi acerrimi nemici: i dinosauri che infestano Skull Island, le cui riproduzioni in miniatura erano state realizzate ed animate da Willis Harold O’Brien, padre putativo ad Hollywood della tecnica dello stop-motion – da noi passo uno – in cui, tramite una serie di scatti fotografici consecutivi, si può ottenere nel film l’illusione del movimento di oggetti inanimati. 

Comincia a sperimentare con dei piccoli modellini di creta e una videocamera amatoriale, qualche anno più tardi si farà fotografare accanto a Ray Harryhausen (The 7th Voyage of Sinbad – 1958, Jason and the Argonauts – 1963), allievo di O’Brien e l’uomo che porterà l’animazione stop-motion al suo massimo splendore in Clash of the Titans del 1981.

Si laurea in arte all’università della California e comincia a lavorare per Cascade Pictures, uno studio di animazione di Los Angeles; viene assunto da George Lucas nella sua Industrial Light & Magic per lavorare ad un ambizioso nuovo progetto: Star Wars. 

Qui nascono i suoi primi capolavori: insieme al suo gruppo di lavoro crea i costumi per alcuni personaggi di Star Wars tra cui la leggendaria Cantina’s Band e Jabba The Hutt (ispirato alla imponente figura del vecchio Orson Welles). Nel giro di pochi anni si occupa del piranha nell’omonimo film di Joe Dante, torna a lavorare con Lucas per il secondo Star Wars in cui anima i Camminatori e realizza il Tauntaun, la creatura aliena che Luke Skywalker cavalca nella scena di apertura; con il terzo film della saga vincerà l’Oscar per i migliori effetti speciali nel 1984.

Dopo il riconoscimento conseguito con questi film Tippett decide di prendersi una pausa dai ritmi estenuanti dello show business e lavorare ad un progetto personale. Fonda i Tippett Studios e gira un cortometraggio animato sulla preistoria: è un modo per confrontarsi finalmente con i dinosauri che lo avevano ossessionato fin da bambino; l’intenzione è di proporre poi il prodotto alle scuole per scopi educativi, ma questo viene reputato troppo spaventoso per un tale uso e rimane sostanzialmente un fallimento. Riuscirà soltanto a venderne alcune scene alla CBS per un documentario sulla preistoria.

Quando Spielberg, cinque anni più tardi, decide di dirigere un adattamento del romanzo di Crichton Jurassic Park, che richiede l’animazione dei dinosauri, il nome di Phil Tippett è

quello in cima alla lista. Ma qualcosa va storto: il regista non è soddisfatto dei provini e decide di rivolgersi a Stan Wiston (Terminator 1984, Aliens – Scontro finale 1986, Predator 1987), collaboratore storico di George Lucas e che nel frattempo lavorava già con tecniche di animazione digitale all’avanguardia per l’epoca.

Il digitale è meno laborioso e più duttile, presto il cinema lo adotterà estensivamente per la creazione degli effetti speciali decretando la sparizione definitiva della stop-motion dai blockbuster hollywoodiani. Eccoci quindi al punto dell’intervista in cui Tippett finge di puntarsi una pistola alla bocca.

Nel 1992 però l’animazione computerizzata è ancora una tecnica acerba e Tippett viene richiamato al lavoro dalla produzione di Spielberg per supervisionare le animazioni più complesse: costruisce un modellino dello scheletro del T-Rex con dei sensori inseriti nelle articolazioni, così muovendolo manualmente le informazioni vengono campionate dal computer a cui è collegato e la scena può essere poi riprodotta in digitale. È una piccola rivincita per Tippett, ma da quel momento il suo studio comincerà una lenta conversione verso la nuova tecnologia, portandolo comunque a risultati memorabili: gli insettoidi alieni di Starship Troopers, il drago di Dragonheart.

È proprio in questo periodo che Phil Tippett comincia a lavorare ad un nuovo progetto personale, realizzato questa volta esclusivamente in stop-motion e girato in 35mm, in cui un personaggio sconosciuto con indosso una maschera antigas esplora un oscuro mondo distopico. Questo progetto viene presto abbandonato: la storia è ancora confusa e mancano tempo e fondi per completarla, viene data priorità alle commissioni più remunerative che possono tenere in piedi lo studio, resta solo un nome: Mad God. 

La lunghissima gestazione si concluderà soltanto quando, dopo più di venti anni dai primi girati, nel 2013 la Tippett Studio inaugura una campagna su Kickstarter per finanziarne il completamento; è un successo e l’obiettivo iniziale di 40.000$ viene triplicato. 8 anni più tardi, il 5 agosto 2021, il film verrà presentato al festival di Locarno, i diritti saranno acquistati da Shudder, la piattaforma streaming americana specializzata in cinema horror, così da permetterne la distribuzione.

 

Mad God e l’estetica della peristalsi

Dopo l’uscita di Mad God Phil Tippett è stato spesso tacciato di misantropia nelle interviste a causa delle atmosfere iper-violente e disperate del suo film. Lui nega o dichiara di non esserne consapevole; le sue intenzioni erano di “prendere su di sé la responsabilità dei privilegi del vivere negli Stati Uniti, una nazione costruita sulla distruzione di molte altre persone”.

Il film non segue una narrazione lineare, le scene si alternano seguendo il percorso di strani fluidi corporei che vengono ingeriti ed espulsi, desolate figure aliene o mutanti che subiscono metamorfosi in una catena di assemblaggio e smembramento di corpi apparentemente senza conclusione né scopo. 

Mad God è la messa in scena di un processo digestivo che è possibile individuare su svariati livelli nell’esistenza umana: dall’invecchiamento sociale alla creazione artistica, dai meccanismi interni al sistema produttivo hollywoodiano fino all’elaborazione di un trauma psichico, quel che Erich Neumann, psicoanalista tedesco e allievo di Jung, descrive come “l’assimilazione di un contenuto inconscio da parte della coscienza”, concludendo “con ciò non diciamo molto di più di quel che è implicato nel simbolo del mangiare e del digerire”.

Il trauma subito durante la produzione di Jurassic Park sembra aver ispirato in Tippett una fenomenologia o, estremizzando, un’estetica della peristalsi, la contrazione dell’apparato digerente e dei dotti escretori al passaggio delle sostanze, che nel mondo di Mad God diviene il principio di ogni relazione sociale, di ogni possibile forma di società. “Il ritmo di essere e divenire dell’esistenza umana si addensa attorno alle funzioni del tratto digestivo” continua Neumann, e nell’universo creato da Tippett ogni individualità è un corpo fisico (sempre deforme e orrorifico) che va spremuto, munto o eviscerato per diventare nutrimento di altri corpi a loro volta ingranaggi organici di un gigantesco uroboro alimentare.

Tutto ciò che viene mangiato deve essere espulso e su questo punto il film innesta la sua riflessione più potente: la funzione dello scarto, dell’escremento associato alla tecnica dello stop-motion. Dal momento in cui è stata soppiantata dal digitale, questa tecnica ha esaurito il suo ciclo vitale divenendo per l’industria qualcosa di improduttivo, inutile, come la mente di un artista quando scopre che: “tutto ciò che sapevo non aveva più valore”.

L’ultimo tassello del ciclo digestivo è ovviamente occupato dall’escremento, quello che, in senso dispregiativo, viene generalmente definita merda (d’artista nel caso del Manzoni) e che incarna la negazione ultima di una società basata sulla produzione e lo sfruttamento: la sua inutilità intrinseca è inaccettabile, il suo collegamento diretto con il nutrimento che ci mantiene in vita la rende spregevole.

Proprio questo potere simbolico della merda ne ha fatto spesso la pietra filosofale della critica alla società capitalistica e borghese: dal già citato Piero Manzoni a Patti Smith (La Mer(de) terza ed ultima parte di Land dall’album Horses) fino all’indimenticabile Divine che in Pink Flamingos, il capolavoro trash di John Waters, si abbandona alla coprofagia di escrementi di cane.

Ma se guardiamo al passato e al di fuori dell’odierna società della produzione la sua connotazione è stata ben diversa, come avverte Alain Gheerbrant nel suo Dizionario dei Simboli: “Considerati ricettacoli di forza gli escrementi rappresentano la potenza biologica sacra che risiede nell’uomo e che, evacuata, potrebbe in certo modo, essere recuperata. Ciò che in apparenza è totalmente privo di valore, ne sarebbe al contrario carico: in molte tradizioni i significati dell’oro e degli escrementi sono collegati; alcuni radioestesisti pretendono addirittura che le loro vibrazioni siano equivalenti.” 

Anche tralasciando le conclusioni della radioestesia (la pratica di localizzare oggetti nascosti con l’utilizzo di bastoncini o penduli) e i parallelismi oro-escremento, è chiaro che l’intento di Tippett nel film è proprio quello di recuperare la potenza biologica della stop-motion, tecnica che ha dalla sua una fisicità materica inarrivabile dal digitale. Gli oggetti usati nelle scenografie sono spesso di recupero: suppellettili e chincaglierie raccattate dai rigattieri che il regista confessa di visitare settimanalmente; dai corpi dei personaggi emergono barre filettate e bottoni, lampadine a led che li fanno somigliare a organismi evolutisi da una discarica primordiale dopo la definitiva estinzione del genere umano.

 

Concimazioni futuribili

La digestione del trauma e l’alienazione dal presente sono i semi sui quali Tippett ha deciso di far germogliare il suo futuro artistico che, scavalcando il cinema, usa la stop-motion per proiettarsi verso l’immersività: nel 2016 durante la lavorazione del film, in collaborazione con Kaleidoscope VR, ha sviluppato un’esperienza in realtà virtuale che permette con un visore VR di immergersi nel mondo di Mad God: è la prima produzione di questo tipo ad usare la stop-motion.

Dalle luci dorate di Hollywood fino ai bassifondi del suo inconscio, la parabola artistica di Phil Tippett può essere presa come esemplare di quei ricorsi storici che portano una forma di espressione obsolescente a rinascere sotto forme nuove e impreviste; in questo caso necessariamente e ostinatamente lontano da sistemi produttivi normalizzanti e dai gusti di un pubblico-target generalista che infesta le maggiori piattaforme di streaming online.

Nella conclusione dell’intervista per Vice, parlando dell’idea di trasformare Mad God in un’esperienza immersiva, Phil Tippett ci dice: “è davvero quel mondo dei sogni in prima persona: è completamente sperimentale, così selvaggio; sai, lavorare per George [Lucas] o Steve [Spielberg] agli inizi, fare quello che vuoi, quello che hai già fatto centinaia di volte… posso capirli: per fare soldi, lo sappiamo, ma io non volevo andare in quella direzione, tipo sai cosa sarebbe davvero fantastico? Una roba di LSD e realtà virtuale, quella sarebbe davvero una figata”

Gheerbrant nel suo libro trascrive questo mito fondativo: “Così per gli indiani Caschinaua i primi uomini del mondo attuale sono apparsi, dopo il diluvio, sotto forma di vermi nati nei cadaveri dei giganti che formavano l’umanità precedente”.

Nutrimento, digestione, merda: concimazione del futuro.

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