Raccontare un lutto non riconosciuto

Ruoli di genere, interdizione sociale e simboli di rinascita nell’elaborazione del lutto perinatale in Pieces of a Woman (2020)

Yvette sta per nascere. Mamma Martha e papà Sean hanno già scelto il suo nome e hanno deciso di fare un parto in casa, per darle la libertà di venire al mondo come e quando vuole lei. Mentre attendono pazientemente il suo arrivo, arredano la sua cameretta con mobili dai colori tenui e una sedia a dondolo, sulla quale già immaginano di sedere con lei in braccio, sussurrando una ninna nanna per farla addormentare. Appendono sulle pareti le foto di un’ecografia e acquistano perfino una monovolume, come ogni nucleo familiare che si rispetti. Ma contro ogni previsione lo spazio che Martha e Sean hanno preparato nelle loro vite per la loro primogenita rimarrà per sempre vuoto. La morte di Yvette per complicazioni del parto costringe i suoi genitori a misurarsi con una realtà distante da quella che avevano sognato e progettato insieme nei nove mesi precedenti. 

Il film Pieces of a Woman (regia di Mundruczò, 2020) nasce dal bisogno di esplorare la fragilità di chi attraversa un lutto perinatale, condizione che ancora oggi non trova sufficienti spazi di riconoscimento e di tutela nella società. Sotto la fredda etichetta di “morte perinatale” sono racchiusi casi molto diversi, compresi in un arco di tempo che va dalla ventinovesima settimana di gestazione al primo mese di vita del bambino. 

Gli studi antropologici sulla riproduzione denunciano la predominanza di discorsi nei quali il lieto fine della gravidanza e del parto viene dato per scontato, nonostante i dati ISTAT rilevino l’esito negativo del 20% delle gravidanze a causa di aborti spontanei, interruzioni terapeutiche, morti in utero e morti perinatali. A livello mondiale nell’ultimo anno le morti in utero dopo le 28 settimane di gravidanza sono state 1,9 milioni, 2,3 milioni invece le morti neonatali avvenute durante il primo mese di vita. Secondo l’antropologa americana Linda Layne la sottorappresentazione di perdite in gravidanza complica i vissuti e l’elaborazione del lutto delle donne che non hanno esperienze lineari, generando in loro sentimenti di inadeguatezza e sensi di colpa. Ci si chiede allora se non sia necessario rivedere la narrazione tradizionale della gravidanza intesa come il momento culminante della realizzazione di una donna, l’incarnazione massima della sua potenza generatrice e vitale, per aprirsi alla normalizzazione di altri scenari. 

In quest’ottica negli anni ‘70 in America e poi nei paesi europei è nato il Pregnancy Loss Movement, che garantisce sostegno ai genitori che subiscono una perdita e combatte per i loro diritti. In Italia invece, dove ancora manca una cultura del lutto perinatale, le prime mobilitazioni risalgono solo all’ultimo decennio, con la nascita di alcune associazioni che offrono alle famiglie colpite da una perdita la possibilità di condividere la loro esperienza attraverso forum e social network. Molte donne hanno raccolto l’invito, provando a raccontarsi prima sui blog e poi in scritti diaristici, nati per elaborare il lutto e diventati in seguito strumenti di auto-aiuto. Analizzando una parte di questi racconti, l’antropologa Claudia Mattalucci intercetta alcuni tratti comuni, come la difficoltà di definirsi genitori davanti all’assenza fisica del proprio figlio, la sofferenza derivante dal mancato riconoscimento sociale del proprio lutto e la mancanza quasi totale di voci maschili.

Anche Kata Weber e Kornel Mundruczò, rispettivamente sceneggiatrice e regista di Pieces of a Woman, hanno perso un figlio e si fanno portavoce di tante storie come la loro, inserendo in campo cinematografico temi di una già consolidata tradizione diaristica. Prima del film Kata Weber aveva scritto anche una pièce teatrale sullo stesso tema. Non si può non pensare che in fondo questo copione sia il diario del lutto di lei; e che, in un ruolo di tradizione maschile come quello di regista, lui stia facendo proprio l’uomo che sta vicino virilmente al dolore della moglie. Ma grazie all’uso della forma cinematografica, che consente di inquadrare il tema in modo più complesso di un blog o di un diario, la sceneggiatrice e il regista riescono a cogliere momenti fondamentali dell’elaborazione del lutto e a sintetizzarli in chiave simbolica. Come loro stessi hanno dichiarato nel corso di alcune interviste, lavorare congiuntamente al film è stato utile a elaborare la perdita preservando l’integrità della coppia. La novità del loro racconto sta proprio nella presenza di un punto di vista condiviso che offre una rappresentazione capace di restituire complessità ad alcuni aspetti (come la sofferenza dei padri o le difficoltà della vita di coppia durante il lutto) che nelle altre testimonianze vengono spesso appiattiti. 

Per cercare di comunicare un turbamento che lui stesso deve aver provato, Mundruczò gira la scena del parto in piano sequenza; lo scopo è fare leva sul senso di empatia dello spettatore, che si ritrova immerso nell’appartamento dei protagonisti e sperimenta insieme a loro il mix di emozioni contraddittorie causate da una morte che coincide con il momento di massima vitalità dell’essere umano, la nascita. Quando Martha entra in travaglio la sua ostetrica è occupata con un’altra partoriente. Una sostituta di nome Eva arriva al suo posto. Tutto sembra procedere per il meglio, ma attraverso il monitoraggio del battito l’ostetrica si accorge che c’è sofferenza fetale e chiede a Sean di chiamare i soccorsi. Martha però riesce a partorire Yvette con la contrazione successiva. Quando il pianto della neonata riempie la stanza, l’angoscia si dissolve. Martha e Sean immortalano il momento in pochi scatti, mentre Eva tira un sospiro di sollievo. Nel giro di poco però il pianto si trasforma in un rantolo e poi in un silenzio irreversibile. La neonata è morta. La comparsa dei titoli di testa dopo la scena del parto è un’altra operazione di regia che tenta di far percepire il trauma della morte di Yvette come momento che segna un prima e un dopo, tanto nella vita di Martha quanto in quella di Sean. 

Se nei diari si tende a una razionalizzazione dell’esperienza, dove si esaltano sia l’amore materno come sacrificio di sé (anche in assenza del figlio), che le inaudite capacità emotive dei mariti, disposti a entrare in empatia con le mogli fino a celare le proprie fragilità pur di salvare la coppia, Mundruczò ci offre una visione più conflittuale e caotica di questa esperienza. 

Dopo il parto per Martha inizia subito l’inferno. Percepisce lo sguardo degli altri su di sé, si sente giudicata per aver scelto di partorire in casa, nutre gelosia per le famiglie felici che incontra per strada e sui mezzi pubblici. Sperimenta rabbia, senso di colpa, straniamento, negazione del trauma vissuto. Durante la gravidanza il corpo femminile si prepara ad accudire un bambino, la cui morte non ferma processi ormonali come la montata lattea. Martha lo scopre entrando in un negozio, dove alla vista di una bambina le fuoriesce dal seno del latte, macchiandole la maglia. Lei intenta a osservare la bambina con occhi inteneriti, non se ne accorge subito. Solo seguendo lo sguardo inquisitorio della piccola, Martha scopre con vergogna la macchia, che interpreta come una manifestazione corporea della sua colpa. Il suo corpo le grida che è madre, ma la morte di Yvette cancella la possibilità di rivestire quel ruolo.

Per motivi in parte biologici e in parte dettati da una divisione sociale dei ruoli, i padri vivono il lutto in modo diverso dalle madri. I pochi che raccontano la propria esperienza confessano di aver cercato di conformarsi all’immagine di forza e compostezza imposta loro dalla società, per sostenere le proprie compagne.  Da questo punto di vista Sean rompe lo stereotipo. È un padre capace di piangere e non si vergogna di mostrare la sofferenza provocata dall’assenza fisica di Yvette. Davanti al gelido atteggiamento di Martha, lui si disgrega lentamente, tradendo la compagna e ricadendo in vecchie dipendenze da alcol e droghe. Per spiegare ciò che sta vivendo in un dialogo con l’amante, che è anche la cugina di Martha e l’avvocata di famiglia, paragona sé stesso e la sua relazione con Martha al ponte Tacoma, crollato a causa del fenomeno della risonanza.

«Conosci questo ponte? C’è una lunga storia dietro. Negli anni ‘40 si è disintegrato a terra (…) non si capiva il perché. Hanno chiamato molti esperti. Matematici e scienziati valutarono le fondamenta, i cavi di sospensione, ma niente. Era tutto in ordine. Poi uno di questi scienziati ha detto “la risonanza”. Sai cos’è?»

«No»

«Ogni oggetto solido ha una sua vibrazione. Se l’esterna si sintonizza con l’interna c’è la risonanza. Qualche volta può essere così potente da far crollare un ponte.»

La metafora che sceglie è perfettamente coerente con il suo personaggio, costruttore di ponti tanto reali – fa il manovale – quanto simbolici – nel periodo del lutto diventa intermediario tra Martha e la madre che hanno un rapporto conflittuale, segno di una rottura generazionale nata dal rifiuto della figlia per le tradizioni familiari e i valori borghesi ed ebraici della madre; aspetto, questo, non secondario nel film, che meriterebbe un approfondimento a parte.

La divergenza tra i vissuti luttuosi di Martha e Sean non permette loro di mantenere intatta la loro relazione. La mancanza di comunicazione, le troppe sofferenze taciute e la necessità di ricorrere a diverse strategie di elaborazione finiscono per allontanarli l’uno dall’altra. Ciò che colpisce in questo tratto di trama è che, nonostante Mundruczò e Weber sembrino aver affrontato il lutto rispettando lo schema dei ruoli di genere imposto dalla società, sullo schermo abbiano avuto la sensibilità di dare voce a una storia d’amore senza lieto fine, in cui ciò che commuove è la profonda umanità dei personaggi. La coppia protagonista si disfa sotto il peso del lutto, rinuncia all’eroismo e disattende i ruoli di genere richiesti in questa circostanza. Al contrario, troppo spesso nei diari e nei blog il trauma della perdita viene raccontato come un’esperienza che unisce la coppia, appiattendo le reali difficoltà che si celano dietro l’elaborazione del lutto. Il che ci porta al paradosso di questo film, alle sue due anime. Non si può non sentire, nell’eroica fatica di portare il proprio lutto nel campo dell’arte, quello stesso superomismo dettato dalla nostra società a chiunque debba subire una perdita, o una sconfitta. E al tempo stesso rimaniamo con la trama del film, questa realtà parallela, dove chi racconta riesce a non giudicare il crollo di chi subisce il lutto e crea così un vero spazio di libertà emotiva e una possibilità di crescita. 

Nella cultura occidentale la perdita di un figlio viene percepita come un evento talmente tragico da non poter essere espresso a parole. In Antropologia del dolore l’antropologo francese David Le Breton dice che l’incapacità di dare un nome a condizioni di sofferenza ci consegna l’immagine di una morte inserita nella vita. Negare la possibilità di trovare un significante per esprimere un dolore percepito come insopportabile, significa riconoscere l’esistenza di un tabù. Nel caso specifico del lutto perinatale il tabù è accresciuto proprio dalla vertiginosa vicinanza tra morte e vita, che confonde i confini che definiscono l’identità genitoriale e neonatale. Martha, che ha partorito una bambina morta solo pochi secondi dopo, può definirsi madre? Può farlo chi sperimenta un aborto spontaneo o la morte in utero del proprio figlio? Tutto dipende dalla profondità del legame che si instaura con il bambino. Prima della nascita di Yvette, Martha e Sean si sentono già genitori, lo suggerisce una frase di Sean che afferma “contiamo noi tre, è la tribù che conta”. A livello psicologico maternità e paternità possono cominciare anche molto prima del parto, ma non si può dire lo stesso della loro percezione sociale, dal momento che la nascita sociale è concepita esclusivamente in funzione di quella biologica. Frasi come “era solo un feto” oppure “consolati, pensa a chi perde un figlio già grande”, formulate con il vano tentativo di essere accolte come consolatorie, non fanno altro che aumentare il distacco tra chi le pronuncia e chi le riceve e accrescere la solitudine di chi in quelle parole non vede riconosciuta l’identità del proprio figlio e il proprio ruolo di “genitore orfano”. Così si definisce nel suo diario Claudia Ravaldi, madre di Lapo, cercando di colmare quel vuoto linguistico che nega un nome alla sua sofferenza. Dopo la perdita la questione dell’identità inizia a tormentare anche Martha che, guardando la lapide realizzata per Yvette, si accorge di alcuni errori di natura grafica nell’incisione del nome della figlia. Martha chiede di correggere l’incisione, aggrappandosi a un nome per rivendicare l’unicità di Yvette, che non può diventare una “Ivett” qualsiasi. A quel punto Sean si lascia sfuggire dalle labbra un “è solo un piccolo dettaglio”, commento che manda Martha su tutte le furie.  L’esigenza di rivendicare un’identità biografica del feto prima ancora della sua nascita emerge anche alcune ricerche di ambito medico, che sottolineano l’apprezzamento dei genitori per il personale ospedaliero che si è rivolto ai propri figli trattandoli come bambini dotati di identità e chiamandoli per nome, anche nei casi in cui prima della nascita erano già state diagnosticate malattie e malformazioni incompatibili con la vita.

Anche in ambito giuridico l’elaborazione del lutto è complicata dall’assenza di specifiche forme di riconoscimento sociale, di cui la mancata codificazione linguistica costituisce solo il sintomo più evidente. Poiché le nostre leggi riflettono la nostra mentalità, attualmente in Italia non esistono specifiche norme riguardanti le morti perinatali. A partire dalla dodicesima settimana di vita al feto viene riconosciuta la dignità di una persona. Tuttavia, quando si verifica una morte intrauterina, viene compilato esclusivamente il certificato di morte. Una più recente proposta di legge avanzata dal Senatore Roberto Menia vorrebbe imporre l’obbligo di riconoscere lo status di persona giuridica anche all’embrione appena concepito, con implicazioni ostative pericolose per il diritto all’aborto. La giusta misura starebbe nel progettare una legge che lasci ad ognuno il diritto di scegliere se dare o meno riconoscimento giuridico al feto. In Germania, ad esempio, i bambini che non sopravvivono alla gravidanza o al primo mese di vita vengono chiamati sternenkinder (letteralmente “bambino stella”), termine che esprime la volontà di coltivare la loro memoria. Una maggiore attenzione dello Stato tedesco alla morte perinatale emerge anche dalla presenza del tema su canali ufficiali, quali il sito del Ministero della Giustizia, e dall’esistenza di una legge che permette a chi vuole di registrare all’anagrafe anche i bambini nati morti, se il peso alla nascita è di almeno cinquecento grammi o se il parto avviene dopo la ventiquattresima settimana di gestazione. La portata di questa legge è rivoluzionaria, perché concepisce il diritto di riconoscere una nascita sociale anche in assenza di una nascita biologica, ammettendo una forma di ritualità pubblica che colma sul piano civile il vuoto rituale esistente intorno alla morte perinatale. 

Il discorso sulla ritualità abbraccia anche il rapporto tra medico e pazienti. In un momento di grande sofferenza i genitori sono chiamati a prendere decisioni che non avrebbero dovuto prendere se il bambino fosse sopravvissuto. È importante che il personale medico li informi in modo chiaro sulle loro possibilità: vedere il corpo del bambino, tenerlo in braccio, destinare il corpo alla ricerca o organizzare un funerale. L’importanza di questi gesti sta nel ruolo che giocheranno nella successiva elaborazione del lutto, perciò è importante che i genitori vengano informati su tutte le strade percorribili e scelgano liberamente. Nei diari e nei manuali di auto-aiuto si trovano moltissime testimonianze di coppie che non sono state messe a conoscenza dei loro diritti. Ritrovandosi inaspettatamente a dover prendere delle scelte, Martha e Sean, che stanno affrontando il lutto in due modi diversi, non sono concordi sul da farsi. La discrepanza su un tema così importante lascia intuire la profondità della frattura che la morte di Yvette ha creato tra loro. Martha rifiuta di dare una sepoltura a sua figlia, chiedendo invece di poter donare il corpo alla ricerca. Sean e la madre di Martha insistono per seppellire Yvette. L’imprevedibilità della morte della bambina non permette all’ostetrica e ai medici di stabilire preventivamente un vero e proprio contatto con i genitori per aiutarli a trovare un terreno comune, cosa che invece probabilmente avverrebbe in casi di gravidanze ad alto rischio. Mundruczò e Weber mostrano uno staff medico rispettoso del lutto che però riduce il proprio compito a una fredda ricerca delle cause e delle responsabilità nella morte di Yvette attraverso l’autopsia. Ricerca che, invece di aiutare i genitori, nutre i loro mostri. Lo si intuisce in un dialogo di Martha e Sean, in cui lui le chiede se ha paura che durante l’autopsia i medici trovino tracce di una loro responsabilità. 

«So che sei preoccupata, per questo. Per quello che scopriranno.» insiste Sean.

«Per quello che scopriranno? Un po’ di vino prima che scopassimo? Dove ho mangiato il sushi? O intendi la roba tua?» 

«La roba mia, la mia sobrietà.»

Nell’articolo “Antropologia della morte perinatale oggi” Catherine Le Grand-Sébille afferma che la medicalizzazione della nascita ha contribuito alla perdita del valore simbolico degli eventi biologici e biografici. Scegliendo di partorire in casa, forse Martha vuole proprio attribuire valore alla dimensione familiare dell’atto stesso di partorire, in contrapposizione alla spersonalizzazione ospedaliera da lei percepita. La freddezza dei gesti medici spesso non risponde al bisogno di riti, intesi come elementi culturali che richiedono l’articolazione di atti, parole e rappresentazioni condivise da un gruppo sociale, sia nel caso di eventi lieti come la nascita, tanto più quando si tenta di dare un senso alla morte. Realtà come il reparto di maternità di Jeanne de Flandre di Lille o l’Hospice Perinatale del Policlinico Gemelli di Roma sono nate proprio per offrire assistenza medica e umana alle famiglie che si trovano a fronteggiare una diagnosi prenatale di patologia del proprio bambino. Per evitare situazioni di incomunicabilità simili a quella vissuta da Martha e Sean, almeno nei casi in cui la conclusione infausta della gravidanza è annunciata, l’Hospice Perinatale del Policlinico Gemelli ha introdotto la compilazione di un documento condiviso, tramite il quale i genitori e il personale sanitario stabiliscono anticipatamente una linea guida da seguire durante il difficile percorso che li attende. All’interno del documento condiviso si lascia ai genitori lo spazio per esprimere i loro desideri riguardo il modo di gestire il poco tempo che potranno trascorrere con i loro figli. Inoltre, l’équipe medica che li segue si mette a disposizione per aiutarli a creare memorie. 

Una foto, un odore, un oggetto possono giocare un ruolo cruciale nell’elaborazione del lutto. Weber e Mundruzcò lo mostrano fin dalle prime scene con un simbolismo ambivalente, di cui però capiamo il senso solo alla fine del film. La madre di Martha alimenta il gioco di ricerca delle colpe già iniziato in ambito medico, portando in tribunale l’ostetrica che ha assistito sua figlia durante il parto. Martha non è d’accordo, dice che un processo in tribunale e un risarcimento non possono restituirle ciò che la vita le ha tolto. Cerca di piegarsi alla volontà della madre, ma chiamata a testimoniare si sente messa all’angolo dalla difesa, che durante l’interrogatorio la accusa di incuria e disinteresse verso la figlia. Le domande dell’avvocato della difesa fanno leva proprio su ciò che Martha ricorda della bambina, che ha tenuto tra le braccia solo per pochi secondi. Martha non ricorda particolari, non le viene in mente il colore degli occhi di Yvette, né una possibile traccia corporea del suo malessere; l’unica cosa che riesce a ricordare è che la sua pelle odorava di mela. La mela, la cui apparizione è ricorrente nel film, fino a quel momento sembra evocare in modo simbolico il tabù di un peccato commesso, da cui Martha è tormentata tanto quanto l’ostetrica chiamata a processo. Mundruczò e Weber danno a quest’ultima il nome Eva, continuando a seguire la logica del simbolismo biblico sotteso all’intera trama. Improvvisamente il significato del frutto si ribalta, grazie alle parole di Martha, diventando emblema del ricordo di Yvette e cucitura tra i ritagli di un ciclo vitale bruscamente interrotto. Sarà Martha stessa, attraverso la sua testimonianza, a scagionare Eva da tutte le accuse di colpevolezza. Guardando per la prima volta l’unica fotografia che Sean le ha scattato con Yvette, Martha comprende che la ricerca delle colpe è infruttuosa e che il dolore che prova non può essere scaricato su un’altra persona, in un processo di assoluzione al femminile che cancella dal genere lo stigma del peccato originale. Comprende che non può evitare il dolore e che solo lei può attraversarlo. Anche se non riesce a trovare il senso di ciò che ha vissuto, non può accettare che Yvette sia venuta al mondo con il solo scopo di rovinare la vita di qualcun altro. Tornata a casa dal tribunale Martha scopre di essere riuscita a far germogliare i semi di una mela acquistata al supermercato. Il seme che germoglia è un altro simbolo forte: rappresenta la vita che, nonostante il dolore, deve ricominciare anche per Martha.

Ogni famiglia che vive la morte perinatale sa che la fine del lutto non cancella il dolore, ma può trasformarlo, in modo da renderlo psicologicamente accettabile. Martha pianta il seme germogliato nel suo giardino, luogo in cui metaforicamente ma anche fisicamente continuerà a coltivare il ricordo di Yvette per tutta la vita. Il profumo di Yvette le riempirà dolcemente i sensi ogni giorno.

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