In copertina: Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, 2017
Campi e fuoricampi nella paideia erotica di Chiamami col tuo nome
I titoli di testa del film di Luca Guadagnino Chiamami col tuo nome, tassello importante di quello che il New Yorker ha definito il “cinema del desiderio” del regista, mostrano una serie di fotografie di statue e reperti greco-romani, sparse su di una scrivania. Ognuno di noi ha una sua storia – Michele Mari direbbe una sua leggenda privata – su come ha preso coscienza di un proprio desiderio, ma è probabile che al centro di molte di queste storie ci siano effettivamente immagini come quelle fotografie: il volume di foto di viaggio sfogliato da ragazzini, raggiunto faticosamente sull’ultimo scaffale della libreria del salotto; il film proiettato in classe in una tranquilla e un po’ noiosa mattina di scuola media; il poster dell’attore o dell’attrice sulla parete della cameretta; il sito di video porno. Da un certo punto di vista, si capisce come le immagini possano alimentare un desiderio proprio in quanto rappresentazioni dell’oggetto di questo desiderio. Meno ovvio è intuire come l’immagine possa rappresentare il desiderio stesso, cioè le dinamiche con cui esso si genera dentro di noi e ci fa entrare in contatto con il mondo. Questo agire del desiderio è proprio ciò che Guadagnino cerca di restituire attraverso le immagini.
Il nucleo di Chiamami col tuo nome è il legame amoroso che nasce tra Elio Perlman, figlio di un professore ebreo di antichità classiche, e Oliver, assistente e ospite del padre di Elio nella loro villa italiana nella campagna di Crema. Un adolescente e un giovane uomo che nell’arco di un’estate nel 1983 passano dalla diffidenza alla curiosità e infine all’abbandono a un desiderio reciproco imprevisto, ma forte e inaggirabile. Come nelle canzonette e nell’esperienza ordinaria delle vacanze, la fine dell’estate segna anche il ritorno alle abitudini e ai doveri prestabiliti della routine, e quindi anche l’inevitabile conclusione del rapporto. Per come lo racconta il film, però, l’amore tra i protagonisti non è definito tanto dall’attesa di una separazione futura, quanto dal modo in cui la passione si infiltra nella loro vita quotidiana. Come nelle liriche e nelle massime sapienziali degli antichi, la temporalità che più conta nell’estate di Chiamami col tuo nome è l’istante presente; quello del film è un tempo dilatato in un succedersi di momenti che hanno valore di per se stessi. Questi momenti sono scanditi dalla collocazione e dall’andirivieni dei personaggi entro uno spazio che non è un semplice sfondo di luoghi fisici, ma si organizza intorno al modo in cui questi se ne appropriano. In questa mappa, segnata da due dimensioni di familiarità e di estraneità rispetto a un “dentro” e un “fuori”, si muove il gioco del desiderio che Guadagnino vuole catturare. L’avventura del desiderio, sembra dirci il film, si snoda tra i confini sicuri del proprio ambiente di appartenenza, in cui ci si sente a proprio agio, protetti e compresi, e un mondo esterno avvertito come straniero e difficile da decifrare.
Il “dentro” gravita intorno alla tenuta dei Perlman, una specie di eden alto-borghese dove la realizzazione di ogni tipo di piacere sembra a portata di mano, tra le stanze ampie ed eleganti della villa e la vegetazione accogliente del giardino. Nelle lunghe giornate di vacanza si passa dalla colazione in veranda all’esercizio del pianoforte in soggiorno o alla lettura in biblioteca, si fa il bagno in una suggestiva piscina-fontana, si gioca a pallavolo sul prato. Gli alberi danno frutti buoni da mangiare (o addirittura da usare per masturbarsi, in una delle scene più celebri del film); la cena consiste in pesci pescati di fresco da anziani del luogo e cucinati dalla domestica. Un microcosmo idillico e cosmopolita (i Perelman e i loro amici di tutte le età padroneggiano almeno tre lingue diverse), che in certi punti si espande anche oltre i confini della villa, ad esempio nel caso di una gita a Sirmione in cui si maneggiano con disinvoltura reperti archeologici riportati a galla dalle acque del lago. Anche i rapporti interpersonali sono facili e senza ombre. Sin dall’inizio del film una schiera di ragazze ruota intorno a Elio eccitandone le fantasia; tra di loro c’è per esempio Marzia, con cui il ragazzo avrà la prima esperienza sessuale. I genitori sono sempre affettuosi, comprensivi e incoraggianti (anche quando forse intuiscono la natura del legame del figlio con l’ospite americano); perfino la domestica italiana è una presenza benigna, amorevole e sollecita. Alcune letture critiche del film hanno visto in questa cornice una rappresentazione d’ambiente non solo classista, ma anche fondamentalmente patriarcale, con una presenza ancillare di figure femminili funzionali solo a soddisfare i bisogni degli uomini (di accudimento, nel caso della madre di Elio e della domestica, o di gratificazione sessuale, nel caso di Marzia o delle altre ragazze). Sono considerazioni legittime, che però rischiano di andare fuori strada rispetto all’intento con cui Guadagnino dà forma all’universo di casa Perlman. Quello che si vuole riproporre qui è un contesto di aristocrazia intesa proprio nel suo senso etimologico di comunità di ‘migliori’, formata attraverso pratiche come quella della paideia greca, cioè l’educazione intellettuale ed erotica dei giovani maschi benestanti (gli unici che a quel tempo si consideravano cittadini a pieno titolo) di cui si facevano carico altri uomini adulti. Per quanto attraverso una lente progressista questo possa apparire un punto di vista retrogrado, è però perfettamente in linea con il disegno del regista di porre i suoi personaggi in un tempo sospeso e in un’atmosfera idealizzata di buen retiro permeato di richiami alla classicità. In questo contesto, la storia e le problematiche di classe o di genere non hanno presa.
Il tempo storico, la società e i suoi conflitti appartengono piuttosto all’altra dimensione del film, un “fuori” rispetto agli agi e alla serenità della villa, in cui i personaggi sono messi di fronte a realtà estranee alla loro confortevole e rassicurante quotidianità. La vicina cittadina di Crema, tappezzata di manifesti politici, piena di bar e di uffici inefficienti che mettono in disordine gli scritti di Oliver, è un luogo emblematico di questo esterno, insieme ai territori circostanti. Fin dalla prima visita in centro di Elio e Oliver, il tema della non appartenenza si insinua subito nel dialogo: “A parte la mia famiglia, sei probabilmente l’unico ebreo che ha messo piede in città” dice Elio a Oliver, mentre quest’ultimo risponde “Vengo da un paesino del New England, so cosa vuol dire sentirsi l’ebreo fuor d’acqua”. Più avanti nel film, mentre girovagano in bici nelle campagne, Elio e Oliver si fermano a rifocillarsi nel cortile di un casale dove fuori dalla porta è esposta una foto di Mussolini: “Siamo in Italia”, liquida con sufficienza Elio, a sottolineare la distanza dal suo mondo di elezione. Ma nel corso del film il “fuori” fa anche fulminee irruzioni entro i confini del “dentro” e mina le sicurezze dei personaggi. Questo fuori parla ad esempio attraverso la preoccupazione e il disagio che i protagonisti manifestano a tratti rispetto al loro desiderio, spia di condizionamenti sotterranei da cui neanche il loro mondo di studiosi è immune. Indizi rivelatori sono il timore di Oliver sull’eventualità di traumatizzare il più giovane Elio, o sul fatto che il ragazzo possa dire ad altri qualcosa su loro due; gli sfottò di Elio alla coppia di amici gay di famiglia (ribattezzati “Sonny e Cher”) e la sua riluttanza a indossare la camicia che loro gli hanno regalato; le reazioni dell’adolescente che, dopo la masturbazione con la pesca, si definisce “malato” e scoppia a piangere. Immagini del “fuori” sono anche le immagini alla televisione di uno show di Beppe Grillo, che i coniugi Perlman guardano divertiti ma distaccati, come la presa in giro di un’attualità che in fin dei conti non li riguarda, lontana dal loro sofisticato salotto. D’altronde, i padroni di casa e i loro amici non sembrano in grado di comprendere ciò che si muove nella società al di là del loro mondo di studi classici e passatempi borghesi: dopo pranzo, all’ora del caffè, balbettano opinioni banali e blandamente autocritiche sulla politica italiana, smarriti di fronte alla novità del governo Craxi e del pentapartito (è difficile qui non pensare al Vittorio Gassman della Terrazza e alla sua combriccola di intellettuali che “nun ce stanno a capì un cazzo già da mo”), mentre il vecchio guardiano disteso sull’erba li guarda divertito.
Il mondo “fuori” crea così tanto scompiglio perché potrebbe accogliere il nostro desiderio, ma potrebbe benissimo anche frustrarlo o ostacolarlo. Allo stesso tempo, però, solo nel rischio insito nel confronto con quel mondo il desiderio che ci abita può trovare un terreno fertile per crescere ed esprimersi. Questo significa che se da una parte, per non essere troppo distruttivo, il desiderio deve almeno in parte accomodarsi tra le nostre certezze, dall’altra non può non metterle in discussione. La sua cifra, piuttosto che la stabilità, è lo smarrimento. In Chiamami col tuo nome tutto ciò è mostrato nel momento in cui Elio e Oliver cominciano insieme a fare i conti con la loro attrazione reciproca. Dentro, nel giardino della villa, i due sublimano le loro intenzioni parlando di un racconto francese del XVI secolo, nel quale è posta la questione sul dichiarare o meno l’amore. Anche loro sono sempre a un passo dal dichiararsi, ma senza riuscire ad andare fino in fondo. Decidono poi di uscire e andare insieme in città; là fuori, il desiderio che prima scorreva sottotraccia può finalmente liberarsi dal freno dei non-detti e venire allo scoperto, in modo da far evolvere il rapporto. A Crema, soli nell’assolata piazza centrale, persi nei campi lunghi con cui Guadagnino sceglie di filmare la scena, Elio e Oliver cominciano timidamente a dare voce ai loro sentimenti. Parlando, si muovono in direzioni divergenti ai lati opposti di un monumento alla battaglia del Piave, che si frappone tra loro mentre dialogano; quando ripete “perché volevo che tu lo sapessi” Elio sembra quasi dirlo tra sé prima ancora che a Oliver, per chiarire a se stesso quel che sta provando. Dalla città, Elio guida poi Oliver fino a quello che considera il “suo” posto, un laghetto nelle campagne circostanti dove si rifugia per restare a leggere in solitudine, lontano da genitori e coetanei. Un posto per lui intimo, ma comunque fuori dal perimetro del contesto famigliare, in cui si possono finalmente avvicinare e scambiare il primo bacio.
Una dinamica simile a quella tra un “dentro” della prossimità e un “fuori” dell’alterità si può ritrovare anche nelle rappresentazioni per immagini, che per questa ragione riescono così bene ad amplificare e cristallizzare il desiderio. Infatti, così come la presa di coscienza di quello che desideriamo ci trasporta in un orizzonte ignoto e fondamentalmente distante da ciò che siamo abituati ad avere intorno, allo stesso modo un’immagine fa apparire dinnanzi a noi un oggetto che non è né presente né fisicamente raggiungibile, ma piuttosto appare situato in un altrove inaccessibile, da sbirciare al massimo come dal buco di una serratura. Nello sforzo di restituire la natura del desiderio, le immagini di Chiamami col tuo nome cercano proprio di portare allo scoperto questa tensione oltre i confini del noto e del visibile. Tanto le inquadrature quanto i fuoricampo sono importanti nel film per mettere in immagini l’ambivalenza del desiderio tra appropriazione e mancanza. Questo accade innanzitutto rispetto a come il film sceglie di rappresentare Oliver, adottando il punto di vista di Elio. Inquadrato molto spesso dal basso verso l’alto, come fosse visto dallo sguardo adorante di un innamorato, il giovane americano appare prestante e statuario come un dio greco, ma al tempo stesso enigmatico e inaccessibile. La cinepresa indugia sul suo volto segnato da preoccupazioni e pensieri quasi mai espressi a parole, segue la crescita di un livido sul suo fianco, conseguenza di una caduta che non viene però messa in scena. Le assenze e le fughe di Oliver dalla villa, d’altronde, pesano quanto e forse più della sua presenza, lasciando sia Elio che gli spettatori a domandarsi dove sia andato e cosa stia facendo. Da una parte, le scene di Guadagnino sono cariche di una densità sensoriale e un’attenzione ai dettagli tutte tese a restituire l’esperienza di un mondo che non c’è (per lo spettatore) o non c’è più (per i protagonisti, come sembra suggerire il finale in inverno): la cura del regista non è solo nel rendere gli elementi di mobilio, l’abbigliamento e gli accessori, ma anche i più piccoli dettagli dell’ambiente naturale come le mosche. Dall’altra, però passaggi centrali non sono mostrati sullo schermo se non per le loro conseguenze, come accade per la prima volta in cui i due amanti vanno a letto insieme, dove tutto ciò che si vede è solo la traccia ex post dello sperma di Elio rimasto sul torace di Oliver.
Fondamentalmente, il desiderio è una relazione con qualcosa o qualcuno che è altro da noi: ci costringe a confrontarsi con ciò che è indipendente dal nostro controllo, e che quindi non si può completamente assimilare a noi. In questo senso, non ammette possesso pieno ma deve fare i conti con la mancanza del suo oggetto. A causa di questa mancanza, nel desiderio l’incontro con l’altro può avvenire solo in maniera mediata. Nella sua natura più propria, quello che desideriamo rimane per noi un mistero (“Mystery of love”, recita il titolo della canzone di Sufjan Stevens nella colonna sonora), e si può manifestare soltanto attraverso la mediazione dal nostro stesso sguardo. È questo il senso della richiesta fatta da Oliver a Elio durante la loro prima notte d’amore, che dà il titolo sia al film che al romanzo da cui è tratto: “Chiamami col tuo nome, ed io ti chiamerò col mio”. Il desiderio infatti può assumere un suo peculiare valore conoscitivo solo in quanto pratica di relazione e mediazione, cioè come modo di scoprire sé stessi attraverso l’altro, e l’altro attraverso le sensazioni e le emozioni che noi stessi proviamo. Nel film, guardando Oliver che discetta sull’etimologia del nome ‘albicocca’ o gioca a carte al bar con gli anziani del posto, Elio sembra ammirare l’uomo che vorrebbe diventare; ascoltando Elio sbizzarrirsi al piano con variazioni sempre diverse dello stesso motivo di Bach, Oliver si innervosisce, forse perché intuisce come nella propria vita l’audacia e la volubilità dell’adolescenza abbiano ormai ceduto il passo all’età adulta. Attraverso l’esplorazione del desiderio può perciò passare anche un processo di ricognizione della propria identità: dopo aver visto il ciondolo con la stella di David al collo di Oliver, anche Elio comincia ad esibirne uno, così da accogliere e mostrare apertamente le proprie radici ebraiche.
Quella della mediazione è un’altra idea che accomuna il desiderio alle immagini. Come si è detto, l’oggetto desiderato non è dato mai direttamente, nella sua piena autenticità, ma solo attraverso la lente del nostro desiderio, che modella i connotati della nostra esperienza. Nemmeno l’immagine, da parte sua, rappresenta il mondo in maniera neutra e priva di condizionamenti, ma deve necessariamente affidarsi a un punto di vista determinato da cui guardare questo mondo ed entrarci in relazione. Guadagnino cerca di rendere visibile questa particolarità del desiderio e delle immagini disseminando il suo film di simboli di mediazione: una serie di oggetti (molti non casualmente di natura artistica) che modulano il rapporto tra Elio e Oliver (la novella francese che rispecchia la loro condizione), la loro prossemica fisica (il braccio ritrovato a Sirmione che Elio tende a Oliver per fare pace dopo un litigio, il monumento ai caduti nella scena della dichiarazione a Crema), nonché l’esplorazione stessa del desiderio di Elio (la masturbazione con la pesca). Altri simboli di questo tipo sono dati dagli elementi architettonici di passaggio tra dentro e fuori, che fanno da riquadro a molte scene: ad esempio, la finestra dalla quale all’inizio del film Elio vede l’arrivo del nuovo ospite americano, o la porticina bassa e stretta che dalla tenuta dei Perelman dà sulla strada per Crema. Una poetica della soglia, si direbbe, che finisce per riconfigurare gli spazi del film e le relazioni che in essi prendono forma. Un ruolo particolare, in questo senso, lo assume la stanza da bagno condivisa da Elio e Oliver, che separa le loro stanze da letto. A poco a poco, però, essa diventa anche lo spazio in cui accidentalmente i due si scorgono per la prima volta nudi con la coda dell’occhio, da cui sorvegliano le reciproche mosse nelle stanze attigue, e in cui Elio annusa di nascosto i costumi abbandonati di Oliver. Uno spazio di studio reciproco, di negoziazione del desiderio e quindi di mediazione, sottratto per questa ragione all’opposizione tra dentro e fuori secondo cui sono distribuiti gli altri luoghi del film.
Un compendio delle intuizioni registiche con cui nel film viene messo in scena il desiderio si ritrova nel finale, che proietta tutto quanto visto fino a quel momento sul terreno della memoria, suggerendo un senso quieto ma amaro di fine di un’età e forse anche di sconfitta. L’inverno è sceso sulle campagne di Crema, tra paesaggi imbiancati di neve e laghetti ghiacciati, e i Perlman si stanno preparando ai festeggiamenti di Hannukkah. Elio riceve dagli Stati Uniti la telefonata di Oliver, ormai accomodatosi entro la rassicurante normalità di un imminente matrimonio con la fidanzata. Di questa nuova vita di Oliver all’altro capo della cornetta noi non vediamo nulla. Di nuovo un fuoricampo, con il mondo esterno che stavolta spegne definitivamente il desiderio, invece che offrire la miccia per accenderlo; ai due amanti di un tempo non resta che scambiarsi i nomi al telefono per l’ultima volta. Dopo la telefonata, Elio si siede da solo davanti al camino acceso. L’immagine di chiusura del film si sofferma sul primo piano dell’adolescente che in lacrime fissa il fuoco ardere. Anche in questo caso, le fiamme restano fuori dall’inquadratura; tutto quel che è visibile sono solo riflessi arancioni che illuminano il volto di Elio. In questo fotogramma di un giovane uomo con lo sguardo concentrato altrove, Guadagnino ci consegna un’immagine del desiderio in purezza.