La noia della fotosintesi clorofilliana

In copertina: Scheletro di foglia di Marco Marcianò

Colore Puro di Sheila Heti

di Luca Climastone


 

Un racconto sulla fine delle cose, un canto al tramonto.

Questa storia in particolare riguarda una donna uccello di nome Mira, combattuta tra l’amore per la misteriosa Annie, che a Mira sembra un pesce distante, e l’amore per suo padre, che appare come un orso affettuoso.

Materiale narrativo e personaggi sono racchiusi in una cornice interpretativa che spazia tra l’antropologico e il divino. Nel momento della creazione Dio si è reso conto dell’imperfezione della prima bozza dell’esistenza e per rimediarvi si intrufola nella galassia umana scindendosi in tre diversi critici d’arte, utilizzando le persone come ospiti e strumenti per correggere la sua opera, per osservare al di là della tela.

Come un pittore si allontana […] il momento in cui ci troviamo è proprio questo: quello in cui Dio fa un passo indietro.

Pertanto, distingue tre tipi di individualità associate simbolicamente a figure animali: uccelli, pesci e orsi. Gli uccelli, dei quali Mira fa parte, sono idealmente custodi e cercatori della bellezza e dell’arte nel mondo, osservano ciò che li circonda dall’alto e da lontano, facendo spesso difficoltà a calarsi nei risvolti pratici e comunitari della società; volubili, fragili, forti. I pesci sono pragmatici e collettivi, si muovono con e per il branco, entità spesso inerti davanti a certi riflessi filigranati del foglio della vita; esseri orizzontali che si preoccupano perpetuamente della correttezza qui sulla terra. Infine, gli orsi, il cui sguardo circoscritto crea un corollario limitato di sentimenti e affetti, che non contempla sacrifici in nome di un’istanza più elevata e generale; completamente consumati dalle loro famiglie […] attratti da chi possono annusare e toccare. Voci molteplici, discordi e necessarie a Dio, meno agli abitanti della terra: mai una persona sente che l’opera della sua vita – o il suo stesso io – è ignorata come quando a dare il giudizio è qualcuno nato da un uovo diverso. Estetica e struttura, agenti perennemente egoisti di un paradosso esistenziale che non contempla né solidarietà né tantomeno cooperazione. Eppure, Dio stesso ha concepito la prima creazione come un’opera d’arte, seguendo un criterio prettamente estetico nello scrivere la melodia degli astri, il canto del vento che sferza foglie verdissime e acque bianche, rendendo però al contempo tortuosi i rapporti interpersonali, l’intimità tra le persone. Dio, nonostante tutto, è un artista.

Mira è un segno d’aria, una voce eterea che occasionalmente emerge nel corso del racconto senza esser mai segnalata, un’impronta fredda nella neve, immediatamente cancellata da quella nuova, appena caduta. Lavora presso un negozio di lampade vintage, del tipo tiffany. Ogni giorno, alla sera, ha la noiosa mansione di spegnere ognuna di quelle lampade, tirando la cordicella e facendo attenzione a non danneggiare le lampadine brune di quei costosissimi oggetti. Sul versante opposto della strada c’è un altro negozio di lampadari, più moderno e tecnologico rispetto al suo, con molti clienti in più. In orario di chiusura però, Mira nota un uomo che svolge il suo stesso lavoro, spegnere le lampade una ad una, e si chiede se forse non sia proprio colui che può comprenderla. Però, imbarazzata dalla loro condizione simile, evitava di guardarlo negli occhi. Quel lavoro rappresenta la capsula del suo essere, la metafora più limpida. La solitudine fioca, calda e vetrosa della luce di una lampada tiffany, malinconica e confortevole, di cui Mira è custode.

In fin dei conti era sola perché voleva sentirsi pensare, era sola perché voleva sentirsi vivere.

Ugualmente l’aspirazione alla critica d’arte scandisce e regola le tappe della sua vita, ne definisce i caratteri e ne smussa gli angoli, nonostante quella medesima aspirazione rimanga in parte frustrata e ridotta ai margini dell’esperienza. L’accesso presso l’Accademia dei Critici Americani non rappresenta la svolta sperata, quella sensazione di egoica esclusività dovuta al processo di selezione presto svanisce, lasciando il passo a una ricorsiva quotidianità.

Mangiavano croissant e bevevano tisane. Fumavano erba e andavano a lezione strafatti. Di lezioni ne avevano poche, e gli insegnamenti erano inutili e sorpassati.

Qui Mira conosce Marie, giovane cresciuta in orfanotrofio con la quale instaura un rapporto bifronte, intenso e doloroso, intervallato dal tempo e dallo spazio, ma mai interrotto. Marie era considerata la migliore del gruppo, libera e autonoma di tenere l’ombrello chiuso anche nelle giornate più piovose, romantica come romantica era l’idea di crescere senza genitori, seppur tutti i compagni di corso ne erano incredibilmente spaventati. Che si tratti di amicizia o d’amore (d’altronde non è importante saperlo), Heti riesce a rendere la peculiarità di quel legame, a cogliere il segmento istantaneo in cui il petto si apre verso un’altra persona, un’espansione empatica senza motivazioni, cause o pretesti apparenti e pregressi; la cristallizzazione di quella sensazione di destino, unica, univoca ed elettiva, di rado sperimentata.

Con alcune persone capita che succedano troppe cose a livello emotivo, più di quante sia sensato se si tiene in considerazione la scarsità di quanto si è condiviso con queste persone […] succede nei primi istanti in cui le si conosce e poi la sensazione non va più via. Nessuna banalità è in grado di spegnere questo fuoco.

Se condurre un’analisi eziologica di quella sensazione è pressoché impossibile, non è da meno tentare di comportarsi con sé stessi e con gli altri in funzione di essa: Mira nei confronti di Annie è sistematicamente disarmata, non sa se amarla né come amarla, benché queste persone sembrano chiederci in tutti i modi di interagire con loro. È una forma di predestinazione affettiva e inconscia, un magnetismo tanto puro quanto straniante. La responsabilità di tutto questo, sostiene Heti, sarebbe degli dèi, che entrano nei corpi degli esseri umani per spiarsi e spiarli dall’interno, e adottare punti di vista plurimi per l’osservazione della realtà al fine di migliorarla nella seconda bozza; l’uomo ovviamente rimane all’oscuro di ciò, in un limbo vischioso fatto di tante domande e poche risposte. Dalle origini preistoriche, passando per la Grecia olimpica fino al medioevo simbolico cristiano e oltre, laddove non si riesce a spiegare un fenomeno, sia interno sia esterno all’umano, si ricorre al divino o al soprannaturale, si delega una certa capacità di agency incarnata a entità esteriori e astratte, accettando con gradi variabili di consapevolezza l’assenza di libero arbitrio; questo caso, letterario, non fa eccezione. Mira, Annie, chiunque ha esperito quel tipo di stato liminale almeno una volta, a prescindere da chi l’abbia concepito e generato. È il mito dell’unchosen che può diventare condanna, una sindrome dilagante e congenita di afasia emotiva. La stessa afasia emotiva che una foglia sente guardando il mondo dall’alto dei rami di un albero, la stessa che lega una figlia e un padre.

Più Mira cresceva. Più diventava difficile amare suo padre nella giusta dimensione […] era piacevole stare insieme a lui, ma c’era qualcosa che interferiva. Era il calore della sua pelliccia, che la seguiva ovunque: appiccicosa e ruvida, ma anche rassicurante, anche casa.

Per Mira l’affetto e la mancanza del padre sono direttamente proporzionali al senso di asfissia quando tornava a casa a trovarlo e a quell’incapacità di amarlo nella stessa misura in cui lui amava lei, un costante senso di difetto quotidiano troppo grande per essere ignorato; proprio per questo desiderava vivere una vita che fosse un bagno di ghiaccio […] temeva che il troppo calore le avrebbe impedito di maneggiare l’arte. Un padre che muore ci lascia, l’arte no, è una fissità ibernata nei sistemi linguistici e simbolici della società, le anime dell’arte è possibile riconoscerle mentre galleggiano come macchie d’olio in un bicchier d’acqua, hanno contorni ben definiti, sono liquide come il liquido che le contiene, ma non sono trasparenti; un padre, invece, muore. Nel momento del distacco Mira temeva di aver inseguito troppo l’arte e trascurato il padre, nostalgia e rimpianto giungono puntuali all’appuntamento col dolore, quasi a voler dimostrare come un bisogno comune a entrambi, seppur in tempi diversi, fosse stato disatteso.

Parlando della morte dei genitori Joan Didion, in L’anno del pensiero magico (2005), seziona i sintagmi della sofferenza che l’aveva afflitta in quella circostanza, ne distingue gli elementi: tristezza e trauma dell’abbandono, rimpianto per le cose dette e ancor di più per quelle non dette, la mancata comprensione e poi il riconoscimento di tutti gli abbrutimenti fisici che avevano dovuto subire. La sintomatologia del lutto è resa con efficacia dalle parole di un amico di Didion, ex sacerdote di Maryknoll, il quale scrisse lei una lettera dopo la morte della madre: in quel periodo indeterminato che chiamiamo lutto potremmo essere dentro un sottomarino, silenziosi sul fondo dell’oceano, consapevoli delle cariche di profondità che, ora vicine e ora lontane, ci bombardano di ricordi. Come hanno osservato ad esempio Freud (Lutto e Melanconia, 1917) e Klein (Il lutto e la sua connessione con gli stati maniaco depressivi, 1940), il cordoglio successivo a una perdita non è mai stato considerato una patologia certificata e di conseguenza mai è stato trattato dalla medicina, nonostante lo stesso fosse foriero di notevoli sconvolgimenti psicofisici nella vita quotidiana. La ragione di ciò sta nel fatto che, essendo il lutto un’esperienza comune a tutti e dunque inevitabile, è percepito alla stregua di uno stato temporaneo da superare; così il lutto è a tutti gli effetti una malattia senza nome. Se la geografia del lutto di Didion, legata a un’esperienza realmente vissuta, prende quasi la forma di un memoir saggistico, un’autopsia crudele della vita interiore ed esteriore di chi soffre la perdita di una persona cara, quella di Heti – romanzesca, allusiva, a tratti lirica e naïf – utilizza l’espediente metaforico della foglia per descrivere ciò che proprio l’autrice americana definiva come ondate, parossismi, ansie improvvise che ti tagliano le gambe e ti accecano. Non una forma di elaborazione, ma una sincera e dissonante apologia della fine al servizio del lettore. Un testo bucato come un copione teatrale senza battute, una canzone senza parole da riempire con i toni della propria voce. Un romanzo linfatico.

La metamorfosi bucolica di Mira avviene a pochi metri da un piccolo lago, dove con il padre spesso era solita andare a passeggiare, sulla sabbia c’era un pezzo di tronco prima fradicio d’acqua e adesso reso arido dal tempo, su cui sedevano per contemplare il lago; l’albero dal quale proveniva era quello che l’avrebbe risucchiata in una foglia un giorno qualsiasi, dopo la morte del padre. Mira si ritrova ad essere un cristallo opaco, racchiuso e compresso in un piccolo spazio vegetale in coabitazione con lo spirito paterno.

All’interno di una foglia ci si parla anche senza bocca. Non c’è bisogno di due corpi separati per parlare. Ci si può parlare da dentro la stessa nervatura, da dentro la stessa carne. Una sola foglia può contenere due menti e due punti di vista.

Due punti di vista che però non escludono una profonda solitudine.

Laggiù, sotto di lei, le persone passeggiavano; nessuno alzava gli occhi per mettersi a guardare una foglia […] Adesso a lei non restava che convertire la luce del sole in cibo, ma nemmeno questa cosa era particolarmente divertente.

 

La cromìa semantica del verde è numerosa e varia: verde è il colore della speranza, della natura che cresce e rinasce, verde è anche il colore dell’equilibro statico e della resistenza al cambiamento, oppure, citando ancora Heti, è il colore stesso del benvenuto. Per Mira il corpuscolo verde di quella foglia simboleggia il rifugio necessario e contestualmente il patimento del lutto, l’isolamento, la paralisi dinamica e coercitiva che obbliga a continuare a vivere il mondo nel mondo, senza farne parte per davvero; camminare anonimi tra la folla, assecondare le folate di vento senza farsi trascinare via. Radici e foglie sono lontane, ma fanno parte dello stesso organismo vitale. Eppure, la prima reazione fu quasi di sollievo, tremori e fremiti le squarciavano il petto instillandovi dentro la vita e la consapevolezza di essa. La morte sembrava averle restituito uno stato di vitalità instancabile, il lutto e la mancanza vissuti nella misura di un’esperienza estatica colma di vividezza.

Come accade con i ricordi.

Un pomeriggio assolato, mentre erano in giardino, il padre le aveva promesso che un giorno le avrebbe comprato un sacco di cose misteriose, rare e meravigliose, compreso il colore puro: non semplicemente qualcosa di colorato, ma il colore stesso […] Il colore si vedeva anche fuori, perché la parte esterna era un riflesso di quello che c’era dentro. Ma al contrario di una gemma grezza, non emanava colore. Il colore era rivolto verso l’interno. Il colore puro era introverso.

 

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