In copertina: Lido di Spina, 1978 Italia Ailati (1971-1979) ©Eredi di Luigi Ghirri
La periferia italiana negli scatti del fotografo emiliano: una reminiscenza in pellicola
Cos’hanno in comune Matteo Parisini (Bologna, 1980), giovane regista bolognese, e Luigi Ghirri (Scandiano, 1943 – Roncocesi 1992), massimo esponente della corrente paesaggistica italiana? Entrambi, attraverso il loro percorso permeato di cinema, fotografia e letteratura critica, sono giunti alla conclusione che uno dei modi migliori per risvegliare l’interesse al paesaggio italiano della seconda metà del secolo scorso – carico di quella semplicità e del silenzio che solo apparentemente emanano certi luoghi inaccessibili di provincia – fosse quello di creare un percorso itinerante lungo tutto lo stivale. Infinito. L’universo di Luigi Ghirri (2022) di Parisini, uscito nelle sale a 30 anni dalla scomparsa del fotografo, non è la prima opera cinematografica che si sofferma sulla vita del fotografo emiliano (già Elisabetta Sgarbi, nel 2009, aveva presentato al festival del cinema di Venezia Deserto Rosa), tuttavia, ha una particolarità interessante: si basa su quanto di più lontano si potrebbe immaginare dalla pratica fotografica, ovvero la scrittura, in particolare gli scritti del fotografo.
Parisini è noto soprattutto per la produzione documentaristica – di cui è autore, regista e montatore –, produttore di diversi documentari a livello nazionale e internazionale (A Ming, 2005; Across the line, 2018). Fin dall’adolescenza “frequenta” l’immaginario di Luigi Ghirri, trasformando in ricerca quella che è iniziata come una curiosità per i progetti del fotografo. Con questo ultimo esperimento cinematografico, il regista indaga, in sottofondo, il senso di indefinita piacevolezza che può trasmettere un’immagine a colori ripercorrendo la storia e le tappe biografiche e intellettuali di uno dei più grandi fotografi del Novecento italiano. Quest’ultima sensazione verrà ben definita da Arrigo Ghi, stampatore di Ghirri, nel corso del documentario: non sappiamo perché, ma le sue fotografie ci piacciono.
Luigi Ghirri nasce a Scandiano, Reggio Emilia, nel 1943. Fin da piccolo viene descritto come un curioso ragazzino che si diverte a osservare ossessivamente gli album di famiglia, a scandagliare ogni singola immagine, rivedendola continuamente, accostandola ad altri documenti: un giorno, racconta la sorella Adele, Luigi decide di affiancare all’amato album di famiglia un atlante geografico; da qui inizia un viaggio che unirà indissolubilmente fotografia e paesaggio. Il percorso di Ghirri non è inizialmente lineare: geometra di professione, ben presto decide di abbandonare il lavoro per dedicarsi esclusivamente alla fotografia. Tuttavia, come per tutto ciò che riguarda questo personaggio, niente è mai da dimenticare o da buttare e la sua formazione nel campo degli spazi e delle misure risulterà fondamentale per la creazione delle sue raccolte
L’opinione più diffusa è che Luigi Ghirri, dopo un’intensa carriera dedicata interamente allo studio dell’immagine e della percezione, crei fotografie al di sopra del tempo e dello spazio. Ghi è chiaramente perplesso quando afferma davanti alle immagini fresche di stampa “non so perché, ma mi piacciono” perché la sua percezione sembra suggerirgli che non ci sia niente di speciale da vedere oltre quello che viene mostrato. Tuttavia, l’immagine si riscatta all’occhio semplicemente con il passare del tempo: se queste fotografie a distanza di anni ci lasciano ancora qualcosa (sbigottiti davanti a una pianura immersa nella nebbia, di fronte a una recinzione di ferro in cui si alternano piccole e grandi cornici riquadrate) è dovuto alla loro eternizzazione, al loro essere situate, paradossalmente, fuori dalla linea temporale. Nonostante questo, la storicità delle fotografie di Ghirri è un dato di grande spessore, evidente già nell’oggetto rappresentato: la provincia e il paesaggio urbano e suburbano di un’Italia “meno nota”. La fotografia è Storia radicata nel presente.
Modena, 1972 Fotografie dei miei primi anni (1970) ©Eredi di Luigi Ghirri
Il paesaggio di Ghirri, quello delle zone periferiche, provinciali, lontane dai grandi centri storici – maestosi testimoni intoccabili di epoche che furono –, ci piace perché rende giustizia a un panorama spesso invisibile ai nostri occhi perché troppo convenzionale, vissuto. “Quello che ho fatto tra il 1970 e il 1975, fotografando i margini delle città antiche, o prevalentemente paesi senza dignità storica e geografica, è stata una sorta di ricomposizione di album di famiglia del mio e del nostro esterno”. Queste immagini ci infondono armonia, sicurezza, serena familiarità proprio perché prive, al nostro sguardo, di dignità storica e geografica. La fotografia è leggera, dai colori volutamente tenui, regolati in modo che l’occhio non sia catturato dalla vivacità cromatica o dai forti chiaroscuri, in un periodo in cui il tratto dominante nella fotografia d’artista era quello del bianco e nero, di Cartier-Bresson, Lartigue, (si citano, non a caso, due personalità opposte: da una parte il narratore dei grandi eventi, esperto del medium fotografico, dall’altra il fotografo delle piccole cose, dell’intimo, che ha iniziato come dilettante) che tendevano a uniformare il riproducibile in un’avventura quasi teatrale, studiata anche quando lo scatto era rubato. La fotografia a colori era, invece, impiegata principalmente nella pubblicità, alla ricerca della vivacità visiva per far emergere un desiderio, dove si sa esattamente cosa ci piace e perché.
Ghirri scardina questi schemi e propone un cambiamento anche nelle tematiche della rappresentazione, al pari di altri fotografi che negli stessi anni hanno sfidato il bianco e nero, la raffigurazione dei grandi centri urbani, e si sono immersi nel colore, uno tra tutti, il francese John Batho (Normandia, 1939) che non teme di utilizzare vivaci tinte primarie e comprimarie per produrre paesaggi e scene quasi espressioniste, tanto è carica la saturazione nello scatto. Anche in questo caso, indubbia è la lineare semplicità con cui Ghirri giustifica l’uso del colore al posto del bianco e nero: “fotografo a colori perché il mondo reale non è in bianco e nero”. In un’affermazione riecheggia tutto il percorso creativo di chi non si ferma alla rappresentazione del reale a livello formale e stilistico, ma vuole che l’immagine gli corrisponda anche per contenuti. Il ricordo personale non deve svanire dalla mente, né deve esserci una modifica sostanziale a ciò che è stato visto nel passaggio dalla visione alla memoria: i colori, la composizione, la forma devono essere in perfetta armonia con l’esperienza vissuta.
Ile Rousse, 1976 Kodachrome (1970-1978) ©Eredi di Luigi Ghirri
Che l’immagine impressa su carta abbia rivoluzionato il nostro modo di vedere, percepire, ricordare è indiscutibile. Che Ghirri, tramite questo medium, decida di affidare parte della narrazione alla fotografia, non è scontato. Walter Benjamin nel suo saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936) mette in guardia dagli effetti che la fotografia potrebbe avere sui nostri sensi, sulla percezione di tutto quello che abbiamo intorno. La perdita dell’aura (ovvero del sentimento di lontananza e unicità) di un oggetto, di un’opera d’arte, di un luogo è quasi inevitabile, poiché si possono creare infinite riproduzioni e infiniti possibili modi di riprodurla nel tempo. La specificità dovrebbe essere ciò che ci rende caro qualcosa, che ci spinge a ricordare l’esatto momento in cui l’abbiamo vissuta perché la sua testimonianza è unica.
Il tempo e la luce sono anche i principali elementi che costituiscono la fotografia. Borges ne parla nella sua poesia La felicità: ‘Non c’è niente di antico sotto il sole’. Ghirri legge il componimento e ne rimane affascinato: nasce così l’omonimo Niente di antico sotto il sole (2021), opera letteraria su cui si fonda anche il documentario di Matteo Parisini. Borges sfida l’affermazione di Benjamin: la fotografia è sì mezzo della riproducibilità tecnica, ma per fare luce, non per trasformare la realtà. Allo stesso tempo, non è spettacolarizzazione del quotidiano, ma semplice testimonianza. Come possiamo ancora essere convinti che essa, nei modi e nelle condizioni in cui Ghirri opera, sia una mera riproduzione priva di “unicità e lontananza”? Tante volte, in Infinito, Ghirri, come un moderno Leopardi, si aggira nei dintorni di campi sterminati, dietro le quinte di una fiera francese a osservare il nascosto, il non altrimenti visibile, la siepe oltre cui scopre una vita al di là degli accecanti colori della manifestazione. La fotografia è il mezzo ideale perché cattura istantaneamente un’idea, un concetto, un momento quotidiano per quello che è, senza particolari preparativi, se non dettati dalla volontà di chi produce lo scatto. Ghirri oltrepassa siepi, non ha intenzione di immaginare cosa ci sia al di là di un muro vegetale perché sa che non ci sono limiti fisici alla visione. L’occhio trova da solo ciò su cui posare lo sguardo.
Modena, 1985 Per Aldo Rossi (1987) ©Eredi di Luigi Ghirri
Il vedere è l’oggetto principale della sua ricerca. Già dalle prime serie, come Colazione sull’erba del 1972 (nuovamente un richiamo alla tradizione, alle tele francesi preimpressioniste del tardo ‘800 e a Manet in particolare) lo sguardo si posa su giardini di villette in periferia cercando di scandagliare il rapporto natura-artificio. Grazie alla sua esperienza come geometra, Ghirri ha ben chiaro come gestire il circostante, modificarlo, costruirvi dei progetti; la sua poetica impegna l’osservatore a riflettere sugli spazi, è a tutti gli effetti una poetica degli spazi: qui Ghirri si sbizzarrisce e si concentra su un paesaggio interno: da un luogo chiuso e limitato quale può essere una stanza crea un’intera serie fotografica, Atlante, dove reale e immaginario coincidono.
Giardini, luoghi abbandonati, zone di periferia non lasciano spazio alla natura che si interfaccia continuamente con quanto creato dall’uomo; sembra quasi che Ghirri sia troppo umano per poter gestire il vero infinito. Tuttavia, è proprio con l’omonima serie Infinito, che sfida le leggi del cielo e, richiamando suggestioni che ricordano non tanto la riproducibilità tecnica, ma la grande lezione impressionista di Monet e le Cattedrali di Rouen (1892-94), produce un insieme di 365 immagini che compongono un album “autobiografico” del paesaggio celeste, dove ogni immagine può essere ricombinata “all’infinito” con le altre: “Era mia intenzione lavorare su un progetto che non restasse un rigido schema, ma che si aprisse a intuizioni, casualità che incontravo nel corso del fare l’opera.” Intuizioni e casualità sono fondamentali nella generale costituzione delle varie serie che si intrecceranno l’un l’altra nel corso di tutta la sua carriera. Ognuna poteva essere principio o conseguenza dell’altra. Da una delle prime, Paesaggi di cartone, si genera un progetto successivo che confluisce poi in Kodachrome (1978); le fotografie del Periodo iniziale (1970) sono inglobate in Diaframma 11, 1/125, luce naturale (1972). Le immagini migrano e, come in Infinito, si connettono tra loro senza un andamento cronologico specifico, ma come specchio della realtà, complessa e irriducibile al punto da non poter essere mai del tutto classificata.
Forse è per questo che, anche nell’opera di Parisini, non ci si è basati solamente sulle immagini, oggetto necessario per la costituzione di una qualsiasi pellicola, ma si è deciso di partire dalla scrittura per guidarci nel cuore della poetica dell’artista, dell’uomo Ghirri. Matteo Parisini ha deciso di basarsi, come lui stesso ha sostenuto, sulle parole del fotografo, di quanto è raccontato, ad esempio, in Niente di antico sotto il sole. Questo è significativo di ciò che accade da anni per Luigi Ghirri: costruire una memoria che vive principalmente per immagini tramite una produzione scritta risulta paradossale. Tuttavia, Matteo Parisini ha preso alla lettera il significato di FOTO-GRAFIA, richiamando una mostra collettiva presso la Galleria Rondanini di Roma del 1977: una scrittura di luce che parte essa stessa dalla scrittura a inchiostro, il bianco e il nero che si fondono sullo schermo. Le parole di chi ha conosciuto Ghirri entrano a far parte della narrazione per immagini che, a tratti, si sussegue sullo schermo, intervallata dalla voce fuoricampo che legge passi dal libro di Ghirri. Amici e collaboratori del fotografo raccontano e si raccontano: Arrigo Ghi, i pittori Franco Guerzoni e Davide Benati, il fotografo Franco Leone e gli storici della fotografia e dell’arte Paolo Barbaro e Arturo Carlo Quintavalle. I familiari e le sue vicende personali entrano in modo defilato e silenzioso nel documentario; sembra quasi che il regista voglia provare a produrre un saggio visivo sul fotografo, non un asciutto resoconto di ciò che è stato Ghirri e di ciò che ha creato. Tanto si sente nel montaggio, nell’estetica dei luoghi adibiti ad intervista che richiamano, in un omaggio, le composizioni del fotografo.
Il gioco di rimandi, di memoria, di narrazione che intreccia parola e immagine è sintomatico di un altro importante oggetto di studio di Luigi Ghirri: la costruzione di un atlante. Il richiamo alla periferia (eco dei primi studi futuristi di alcuni dei più grandi componenti della prima parte dell’avanguardia, come Umberto Boccioni) e di provincia a noi familiari, situazioni di vacanza o di svago feriale rimandano tutte a quella che sarà, alle soglie degli anni 80, un’altra serie fondamentale: Topografia-Iconografia (1982). Il valore simbolico dei luoghi è ciò che emerge in ogni immagine di Ghirri che ci cattura perché è così comune per il nostro sguardo, e allo stesso tempo così lontana nel momento in cui la osserviamo, che ci fa piacere ricostruire una “topografia della memoria” in cui l’immagine diventa ciò che parla e comunica qualcosa di personale in un paesaggio, un oggetto, una persona. Col tempo ci accorgiamo che la sua produzione diventa sempre più biografica, legata alla sua vita, e intenzionata a legarsi alle vite degli osservatori.
Valli grandi veronesi, 1988-1989 Il profilo delle nuvole (1985-1989) ©Eredi di Luigi Ghirri
Il paesaggio della periferia padana diventa paesaggio del ricordo, percorso a ritroso in cui si trovano automatismi che interpretano e modificano il ritrovato e il dimenticato. Già con il suo primo libro, Kodachrome – dal nome della famosa famiglia di pellicole fotografiche invertibili prodotte da Kodak – raccoglie immagini da progetti sviluppati nei primi anni di lavoro in modo che siano “serbatoi di immagini”, terminandola con frammenti trovati camminando, tra oggetti, giornali e altro materiale casualmente rinvenuto. Da un foglio di giornale strappato, la rivelazione: “come pensare per immagini”; Ghirri lo ricollega alla frase di Giordano Bruno “pensare è speculare per immagini”. Il senso della sua opera è tutto qui: vedere le cose per poterle immagazzinare nella memoria. Questo lavoro, secondo lo stesso Francesco Zanot, che ha curato la pubblicazione del libro Kodachrome, non deve prevedere percorsi già tracciati, quanto fornirci i canali per trovare ciò di cui abbiamo bisogno.
Ghirri è un personaggio dai molteplici interessi che mutano nel tempo e confluiscono l’uno nell’altro quasi naturalmente, attendendo solo il momento giusto per unire il compiuto con il progettabile. L’identità dell’artista rispecchia così, soprattutto negli ultimi anni, il paesaggio scelto, fotografato e vissuto. Lui stesso parla di una geografia sentimentale che non ha confini definiti, non ha un percorso prestabilito con cui capire ciò che si vede, ma che si fonda profondamente sulla visione che è tramite da e per la memoria. La sua figura, allora, si identifica con quella di uno dei massimi studiosi di immagini del Novecento: Aby Warburg (Amburgo, 1866 – 1929). Lo studioso aveva iniziato, come farà poi Ghirri, un gigantesco Atlante della Memoria, Mnemosyne, in cui far confluire tutto quello che era relativo alle immagini e i richiami che, sconnessamente, si potevano ricostruire nell’uso di una forma, di un oggetto riprodotto in epoche diverse e con significati diversi. Si crea così un enorme groviglio iconografico che tenta di ordinare la storia della memoria dell’umanità in Warburg, dell’uomo per Ghirri, secondo schemi non totalmente predefiniti (Mnemosyne rimarrà incompiuto a causa della morte di Warburg) e che si basa sulla ricerca di archetipi, di forme di pathos (pathosformel) ripetute nel tempo e nello spazio. Anche in Paesaggio Italiano (1989) Luigi Ghirri coniuga, qui secondo un preciso itinerario sentimentale, immagini di sua produzione a fotogrammi, sequenze, copertine di quanto per lui è significativamente connesso a uno scatto. L’obiettivo è chiarire il meccanismo della visione, in entrambi i casi, con il fine di innescare nuove, infinite connessioni.
È ovvio che ancora oggi l’universo di Luigi Ghirri lasci spazio a molte domande, a causa di una produzione fotografica e bibliografica di grande spessore. I suoi scritti, le sue fotografie continuano ad affascinare il grande pubblico che, in Italia, ha riscoperto da poco una delle più grandi personalità del suo Novecento fotografico. Se Parisini abbia centrato il suo obiettivo con Infinito. L’universo di Luigi Ghirri resta tutto da vedere; considerando la complessità della materia, l’intento documentaristico sarà capace di evitare la creazione di un percorso predefinito in cui le persone possano riconoscere un’unica via per accedere a Luigi Ghirri fotografo e uomo? Ciò di cui un appassionato di Ghirri è certo è che non esiste ancora una parola per poter esprimere il perché le sue immagini piacciano, catturino la visione, considerando che le tematiche e la loro tenue carica cromatica portano a pensare che vogliano sfuggire all’occhio, continuamente defilate. L’uomo Ghirri, così come i paesaggi di periferia che sceglie di rappresentare, rimane a noi ancora profondamente sconosciuto, nonostante le tante pagine dedicate e scritte sul tema. Uno sperimentatore di cui cerchiamo di capire il sentimento che suscita e resta incollato addosso quando vediamo le sue immagini: “a me queste fotografie piacciono, ma (anche adesso) non saprei spiegarti il perché”.
Bello Vyctoire!