L’epilogo dell’Impero ittita raccontato dagli alberi

 

Uno studio rivela nuovi elementi sulla crisi climatica nella tarda Età del Bronzo in Anatolia.

 

di Angela Lorenzin



 

Per più di trecento anni, tra il 1500 a.C. e il 1200 a.C., le terre che gravitano sul bacino del Mediterraneo hanno ospitato un sistema cosmopolita complesso in cui Minoici, Micenei, Ittiti, Assiri, Babilonesi, Mitanni, Cananei, Ciprioti ed Egizi interagivano tra loro, intrattenendo rapporti internazionali secondo dinamiche prossime all’odierna globalizzazione e che raramente si sono verificate prima della nostra epoca. Questa prosperità e dinamismo culturale subì un arresto repentino: intorno al 1200 a.C. si persero le tracce di diverse popolazioni, che collassarono o si riorganizzarono con connotati differenti. Scomparvero la scrittura e le arti figurative, gli scambi commerciali a lungo raggio si interruppero e l’età media si ridusse, secondo un processo che è noto come “il collasso dell’Età del Bronzo nel Mediterraneo”.

Uno studio della Cornell University di New York, pubblicato di recente su Nature, traccia la possibile relazione di causa-effetto tra un cambiamento climatico repentino e la fine dell’impero ittita che, nel corso dell’Età del Bronzo, per più di cinquecento anni, tra il 1650 e il 1200 a.C., aveva dominato su gran parte dell’Anatolia e dell’attuale Siria. L’impero era stato in grado di sopravvivere nel corso della sua storia a gravi periodi di siccità, che si erano risolti in lassi di tempo brevi e che avevano testato l’efficienza di una macchina organizzativa responsabile dell’implementazione delle tecniche di conservazione dell’acqua. La capacità di immagazzinare e conservare acqua a fini agricoli, però, si rivelò fatale poiché portò ad un incremento della produzione di cereali. Quando però la siccità durò più a lungo – si protrasse per tre anni tra il 1998 e il 1996 a.C. – le tecnologie sviluppate non bastarono. 

Nel cuore dell’Anatolia si ergeva la capitale dell’impero ittita, Hattusa: situata entro una stretta valle che consentiva un unico accesso, la città possedeva fortificazioni possenti, quasi impenetrabili, grazie alle quali venne presa dagli invasori solamente due volte nel corso dei suoi quasi cinquecento anni di vita. Non soltanto le sue rovine, che noi oggi possiamo apprezzare, ci parlano della sua storia. Le migliaia di tavolette d’argilla rinvenute nel corso degli scavi archeologici condotti a partire dal 1906 rivelano lettere e documenti degli archivi di Stato, assieme a resoconti storici, opere letterarie e testimonianze di rituali religiosi. Sono testi preziosi che danno accesso alla storia dei governanti ittiti, alle loro interazioni con altre popolazioni, ai loro codici giuridici e sistemi di credenze, oltre che a spaccati di vita quotidiana che restituiscono un’immagine vivida di questa civiltà. Davanti a una simile ricchezza documentaria, sbalordisce dunque il vuoto creato dal crollo di questo impero.

Per molto tempo la responsabilità del declino delle civiltà del Mediterraneo nella tarda Età del Bronzo è stata imputata all’effetto di devastazione provocato dal passaggio dei cosiddetti “popoli del mare”, ovvero popolazioni mediterranee la cui appartenenza geografica è ancora oggi in alcuni casi fonte di dibattito. Oggi la teoria che individuava la causa principale del collasso di queste civiltà nell’attività distruttiva dei popoli del mare è stata smentita a favore della ricerca di una spiegazione che consideri la molteplicità dei fattori concorrenti in uno scenario così complesso. 

Come scrive E. Cline – celebre archeologo, professore di storia antica e archeologia alla George Washington University –  in “1177 a.C.: Il collasso della civiltà”, alla luce di uno scenario di difficile comprensione in cui gli eventi si concatenarono secondo relazioni di causa ed effetto, “sembra che servirsi della teoria della complessità, che ci permette di avvalerci della teoria delle catastrofi e di quella del collasso dei sistemi, possa costituire l’approccio migliore per spiegare la fine della tarda Età del Bronzo. […] È meglio immaginare il declino della tarda Età del Bronzo come una disintegrazione, caotica ma graduale, di regioni un tempo floride e tra loro in contatto, che deperirono e si isolarono, a causa di cambiamenti interni ed esterni che avevano compromesso uno o più degli elementi costitutivi del sistema”. 

Riprendendo l’analisi di C. Renfrew – una delle più autorevoli voci dell’archeologia nell’ultimo cinquantennio – , esistono elementi generali che accomunano il collasso dei sistemi – e che nel caso dell’impero ittita sembrano essersi verificati in un lasso di tempo breve, – ovvero il collasso dell’organizzazione amministrativa centrale, la scomparsa della classe dirigente tradizionale, il collasso dell’economia centralizzata, la costituzione di nuovi insediamenti e il declino della popolazione. Nel processo di ricerca delle cause che scatenarono dunque il collasso del sistema ittita, lo studio diretto da Sturt Manning, professore di archeologia alla Cornell University, aggiunge un tassello importante al quadro storico ricostruito fino ad oggi. Nel grande bacino di fattori naturali e antropici possibili, quali eruzioni vulcaniche, terremoti, pirateria, migrazioni, invasioni, epidemie e carestie – nonostante altri studi avessero già rivelato un cambiamento climatico della regione nei 300 anni successi al 1200 a.C. – lo studio ha il pregio di aver individuato una possibile relazione tra la drammatica siccità verificatasi tra il 1198 e il 1196 a.C. in Anatolia centrale e il repentino crollo dell’impero ittita in quegli anni. Anni di siccità travolsero le terre ittite interrompendo l’approvvigionamento di grano dalle fattorie e innescando una carestia che gravò sulla popolazione e acuì i problemi sociali ed economici preesistenti.

I dati che hanno permesso di giungere a tale conclusione sono stati ottenuti attraverso studi dendrocronologici, che consistono nella misurazione degli anelli di accrescimento annuale degli alberi e nell’esame in quest’ultimi dei livelli di C13, un isotopo stabile del carbonio, che indica i livelli di umidità dell’aria al momento della formazione degli anelli. 

La dendrocronologia, in particolare, si basa su alcuni principi, grazie ai quali è possibile ricostruire sequenze cronologiche relative e assolute. Ogni albero, infatti, durante la stagione di crescita produce annualmente un nuovo anello visibile nella sezione trasversale del tronco; inoltre, alberi che appartengano alla stessa specie legnosa e che siano vissuti contemporaneamente nella medesima area geografica producono serie anulari di accrescimento simili, in quanto l’ampiezza degli anelli e la struttura delle cellule legnose sono soggette a variazioni in base alle condizioni climatiche. Questi principi permettono di ricavare una curva dendrocronologica per ogni albero, ovvero un diagramma in cui sono registrati gli spessori degli anelli,  che a sua volta è funzionale alla creazione di una curva standard, una sequenza continua data dal confronto tra le sequenze di legni, in grado di andare a ritroso nel tempo per centinaia o migliaia di anni. Il confronto tra le sequenze anulari di alberi vissuti in un dato periodo di tempo nella stessa area geografica produce perciò una cronologia relativa, anche detta fluttuante, che, può essere resa assoluta attraverso il metodo di calibrazione al radiocarbonio (C14). 

Per eseguire le analisi sono stati scelti dei tronchi di ginepro provenienti da un tumulo funerario di enormi dimensioni, associato alla sepoltura del leggendario Re Mida, situato vicino alla città di Gordio, a circa 80 km a sud-ovest dell’odierna Ankara. Secoli dopo la scomparsa dell’Impero Ittita, infatti, sullo stesso suolo anatolico, era sorto il Regno di Frigia, di cui Gordio fu la capitale. Il fatto che il ginepro sia una specie arborea molto longeva, in grado di raggiungere periodi di vita millenari, ha permesso ai ricercatori di identificare 18 tronchi di alberi cresciuti in un’area prossima al sito nel secondo millennio a.C., poi abbattuti nel VIII secolo a.C. sotto il regno frigio e dunque testimoni dell’epilogo di questo impero plurisecolare. 

L’analisi dell’accrescimento degli anelli assieme ai dati sui livelli di C13 hanno rilevato inequivocabilmente un abbassamento delle temperature medie con il conseguente passaggio ad un clima più freddo e secco, che determinò una grave siccità prolungata per tre anni. I livelli di C13 presenti nelle piante sono infatti significativi del rapporto tra le concentrazioni di CO2 interne ed esterne delle foglie durante la loro crescita. La conduttanza stomatica, ovvero l’apertura dei pori sulla superficie fogliare che consente il verificarsi dello scambio di CO2 e vapore acqueo tra l’interno e l’esterno della foglia è ciò che determina i livelli di C13 nei vegetali. Difatti, la scarsa disponibilità d’acqua induce le piante a chiudere gli stomi per limitare i danni al tessuto vegetale. Questi dati, combinati con quelli dendrocronologici, forniscono quindi un quadro, se pur approssimativo, della storia climatica e ambientale dell’Anatolia centrale nella tarda Età del Bronzo.

Nonostante il fenomeno sia stato tradizionalmente etichettato come “collasso dell’Età del Bronzo”, come è stato osservato da E. Cline, il collasso non fu universale in quanto esistono tracce di continuità e riorientamento di alcuni siti nel periodo considerato, che costituiscono una prova della capacità di trasformazione e resilienza delle popolazioni in questo territorio. 

A tal proposito si potrebbe tracciare un parallelismo con quanto avvenne nello stesso periodo in Italia settentrionale, e in particolare nella Pianura padana, a danno di una delle culture più fiorenti manifestatesi nell’Europa dell’età del Bronzo: la cultura terramaricola. 

Nel XII secolo a.C., all’apice dello splendore terramaricolo, una concomitanza di fattori, in parte autoindotti dal sovrasfruttamento delle risorse del territorio – che comportò deforestazione, ruscellamento, degrado e impoverimento dei suoli ecc. – e in parte eteroindotti, derivanti dal cambiamento climatico che investì l’Europa, portò al crollo anche di questa civiltà. In base alla collocazione geografica, i terramaricoli risposero alla crisi in modi differenti: a nord del Po, grazie alla presenza di fiumi di risorgiva che subirono meno l’inaridimento del clima, avvenne una riorganizzazione del sistema attraverso un processo di iperselezione e iperconcentrazione della popolazione, mentre l’area a sud del Po subì uno spopolamento pressochè totale. 

Ogni tassello del passato che, grazie alle ricerche scientifiche, concorre a riscoprire la storia della nostra specie sul pianeta, è prezioso per l’eredità che ci lascia e che dovremmo essere pronti a cogliere. Così come 3200 anni fa, anche oggi stiamo assistendo ad una transizione climatica in senso arido che, differentemente dal passato, è indotta dall’attività antropica. Se, come insegna Cicerone, “historia magistra vitae”, uno sguardo attento alla storia potrebbe fornire spunti interessanti per la costruzione di un’agenda ecologica che salvaguardi la vita sul pianeta.

 

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