La nuova stand-up italiana: un’intervista a Daniele Tinti

intervista Tinti di Silvia Contini

di Silvia Contini

Qualcosa è cambiato nel panorama comico italiano e finalmente si affacciano narrazioni inedite. La stand-up comedy, genere di origine anglosassone, aveva fatto la sua comparsa in Italia già diversi anni fa, ma solo da poco sembra aver trovato una chiave per essere apprezzata da un pubblico sempre più partecipato. Daniele Tinti è tra i comici che stanno incarnando un nuovo paradigma: è suo il primo podcast comico italiano, Tintoria, oggi condotto con Stefano Rapone. Sempre suo è Dilemma, un monologo (portato in giro per l’Italia tra 2019 e 2022 e oggi disponibile gratuitamente su YouTube) che racconta di relazioni, di amore e di sesso, del cambiamento di alcuni rapporti dall’adolescenza alla vita adulta.  

Senza togliere niente alla spontaneità del pezzo che “non vuole lanciare un messaggio”, Tinti fa satira sui costumi e sulla società, facendo inevitabilmente emergere in maniera comica tante contraddizioni del nostro tempo. Racconta gli interrogativi, i dilemmi, che lui stesso si è posto, per esempio, nel rapporto con le donne. In questo non procede per soliti luoghi comuni e abbandona le maschere, di solito trasversalmente comprensibili, e parla di sé, di cose che ha vissuto e che sembrano vere, risultando per questo più contemporaneo e vicino al vissuto di un pubblico nuovo. Così ci permette di lasciarci alle spalle la maschera trita dell’uomo velatamente sessista, spavaldamente sicuro di sé e costantemente in cerca di sesso. Tinti mette in discussione e ridicolizza questo modello di mascolinità rigida e stereotipata che appartiene ormai a una comicità vecchia, in cui tante generazioni non si riconoscono più. 

 

Il genere della stand-up comedy si è diffuso in Italia relativamente di recente. Non so che impressione hai tu del tuo pubblico o degli altri comici, ma tutto ciò che non è stand-up sembra abbastanza datato. O meglio, non credo che questo linguaggio sia facilmente colto da tutte le generazioni. Secondo te il successo della stand-up si può definire, almeno qui, un fenomeno generazionale?

Un po’ sì, è generazionale, perché il 70% del pubblico va dai 18 ai 35-40 anni. Effettivamente soprattutto in Italia c’è un modo di fare comicità precedente, che se vogliamo possiamo chiamare cabaret, a cui tutta una fetta del pubblico italiano è legata. Per esempio: da poco hanno ricominciato a fare Zelig in tv, che è visto anche dai giovani ma ha un pubblico per la maggior parte di cinquantenni e sessantenni perché propone un linguaggio che piace ancora a quel tipo di audience. Ci sono cinquantenni e sessantenni anche ai nostri spettacoli, ma la stand-up non ha mai avuto il tipo di esposizione che ha avuto Zelig quando faceva venti milioni di spettatori a serata. Ed è pure giusto così: per come è, la stand-up non è fatta per piacere proprio a tutti. Toccando argomenti che possono essere più o meno pesanti, gravi o sensibili, possiamo dire che generazioni diverse hanno sensibilità diverse e le cose che piacciono a un sessantenne non piacciono a un ventenne e viceversa. 

Tu potresti fare uno spettacolo per il pubblico di Zelig?

Potrei scrivere un monologo per Zelig.

Ma è una cosa diversa rispetto a quella per il tuo pubblico che viene in teatro.

Sì, lo spettacolo intero che ho caricato su YouTube non potrebbe andare su Canale 5 in prima serata, se ci andasse non verrebbe compreso. Si possono fare monologhi più generali, che coinvolgano più persone. Succede anche di scrivere un monologo che va bene per tutti, c’è anche un cabaret contemporaneo che fa ridere.

Ecco proprio Dilemma, il tuo ultimo spettacolo, secondo me potremmo definirlo generazionale. Parli di una nuova consapevolezza che hai maturato negli anni riguardo al sesso e al rapporto con le donne. Si tratta di considerazioni che difficilmente potrebbero appartenere a persone di qualche generazione precedente alla tua, considerando che è abbastanza recente una messa in discussione profonda e più massiccia dei ruoli di genere. 

In quel senso sì, è generazionale. La discussione che si fa adesso sulla mascolinità, sull’orientamento sessuale, sul rapporto con le donne, sulle donne stesse, non è certo nuova ma adesso si è allargata molto. E va contro lo status quo precedente della società. Quindi da quel punto di vista sì, è generazionale. Dico una cosa che forse non sono riuscito a chiarire nello spettacolo: non ce l’ho con le persone di sessant’anni che quando eravamo ragazzini ci dicevano “scopa più che puoi”. Non lo dicevano con cattiveria, era così che si pensava. Però alimentavano quella roba là, che adesso è in discussione.

E come hai capito che forse, anche se veniva detto in modo bonario, “scopa più che puoi” non era il messaggio migliore che ti potevano trasmettere?

Tutto il discorso su un certo modo di essere maschi, personalmente, mi ha messo un sacco in difficoltà nel relazionarmi con le donne. Per cui se pensi che le cose debbano andare in un certo modo, o di doverti comportare in un certo modo prestabilito, spendi energie a cercare quel modo che non esiste. Non trovi risposte e ti rimane solo una grande confusione. Invece di relazionarti con una persona cerchi di “capire le donne”, che non vuol dire niente. Non c’è un pensiero razionale, ma un’aspettativa subconscia per cui dici: “ok, le donne funzionano in un modo, gli uomini in un altro, adattiamoci”. Invece non c’è nessun modo, ci sono solo le persone. Cercarlo ti blocca e ti rende insicuro. Io mi sono reso conto di non riconoscermi in questo pensiero, quindi ho cominciato un percorso di analisi che poi, facendo io il comico, è diventata un’analisi dal punto di vista comico. 

Avevi già chiaro tutto questo prima di scrivere o il processo di scrittura ti ha aiutato? 

Per questo spettacolo in particolare avevo una serie di monologhi e mettendoli insieme mi sono reso conto di parlare un sacco di questi argomenti nei miei pezzi. In tutti i monologhi che ho scritto tornano i temi dell’omosessualità, della sessualità, del rapporto con le donne. Mi sono chiesto perché mi venissero fuori monologhi così e mettendoli insieme sono nati altri pezzi e da questi poi lo spettacolo.

Non so se era tua intenzione, ma alla fine dello spettacolo rimane una lettura politica di quello che hai detto. Parli di temi che da una parte potrebbero essere trattati in modo estremamente moralistico, dall’altra non trattati proprio per non rischiare di offendere qualcuno. 

Io non scrivo mai cose appositamente per lanciare un messaggio politico, non mi sento un comico politico. Però se fai satira sociale inevitabilmente fai anche satira politica. Se prendi in giro i costumi e le abitudini, sia da un lato che dall’altro, diventa comunque una cosa politica soprattutto adesso. Oramai è quasi impossibile prendere in giro i politici. Dirò una banalità ma è diventato un circo, sui social devono fare i fenomeni da baraccone ed è impossibile superarli. E poi forse ormai in Italia la satira politica ci ha pure un po’ annoiato, dopo Berlusconi. Io ci sono cresciuto e ora non mi piace più. Accendevi la tv e c’era Berlusconi, cambiavi canale e c’era qualcuno che imitava Berlusconi, ora ha stancato. 

Che effetti ha avuto quel tipo di satira sulla politica?

La maggior parte delle volte era macchiettistica. Quando poi metteva molto in discussione succedevano cose grevi, tipo Luttazzi che viene allontanato dai mezzi di informazione. Prima pensavamo che prendere in giro Berlusconi fosse un modo per sminuirlo ma non sapevamo che stavamo entrando nell’epoca in cui “basta che se ne parli”. Se ci fossero stati i social sarebbe stato, ancora di più, il numero uno. Per quanto Salvini abbia provato a far parlare di sé non è arrivato al livello di Berlusconi che se lo è inventato questo modo di fare politica. A modo suo, un genio. 

Passando ai tuoi modelli, hai dedicato lo spettacolo a Norm MacDonald.

 Sì era il mio comico preferito ed era quello che tra tutti i comici americani (anche se lui era canadese) mi sarebbe piaciuto di più vedere dal vivo. Purtroppo è morto proprio mentre portavo in giro lo spettacolo, era malato da tempo ma non aveva detto a nessuno che stava morendo. È strano dedicare uno spettacolo a un comico morto, lontanissimo da te, ma secondo me interpretava la comicità in modo davvero unico. C’è una battuta nel mio spettacolo che è sua e che riporto alla fine della registrazione insieme alla dedica: There’s nothing wrong with being gay, unless you’re not gay

E invece nel podcast, Tintoria, cè sempre un pubblico e per questo è un po’ come se fosse uno spettacolo vero e proprio ogni settimana, perlomeno per chi assiste live, ma è molto diverso dagli spettacoli di stand-up, è un altro modo ancora di comunicare. Affrontate l’intervista con la vena comica che rende divertente ciò che fate, ma riuscite anche a intrattenere e incuriosire chi ascolta rispetto all’ospite. Come si incastrano tutte queste cose? Quando scegliete chi invitare basta che sia interessante o deve saper intrattenere?

Fondamentale è che l’ospite ci interessi. Adesso che la registrazione è diventata un appuntamento fisso e dal vivo, serve anche che l’ospite sappia stare davanti al pubblico. Prima di registrare io premetto sempre a chi viene a vederci che in realtà stiamo per fare una chiacchierata pubblica, non uno spettacolo, tant’è che costa molto meno di uno spettacolo e ci teniamo che rimanga così. Poi, anche se non sembra, ci sono una preparazione e uno studio sull’ospite – a meno che non venga un amico o un’amica, soprattutto comici, con cui cazzeggiamo. Ci interessa sempre chiedere all’ospite “come ha iniziato” perché nei mestieri creativi e artistici non c’è mai un percorso lineare, tutti hanno una storia diversa. Così avviamo la conversazione con un argomento quasi banale ma che a noi interessa e che ci suscita altri spunti. Mettiamo a proprio agio l’ospite e una volta che è partita la conversazione è più facile agganciarci domande più strutturate a cui abbiamo già pensato. Il podcast è la cosa più tranquilla del mondo: non devi apparire figo, non devi apparire divertente, puoi fare errori e dire cose sbagliate. Se dici cose di cui ti penti tagliamo tutto, anche se di base non abbiamo mai tagliato niente. Sono io a montare e mi piace un format lungo, infinito, non mi interessa il ritmo serrato. 

C’è differenza tra il palco del podcast e il palco dove porti il tuo spettacolo?

Tantissima. Lo spettacolo è tutto scritto, sei da solo, devi fare tutto tu. Il podcast è molto più tranquillo, la gente si aspetta di meno. Nel podcast il pubblico in sala reagisce e interagisce, riesce a cambiare l’andamento della serata. Durante lo spettacolo invece c’è una diversa interazione con il pubblico e anche io mi pongo in modo diverso, devo performare. Il podcast ha un canovaccio ma è di fatto improvvisato, lo spettacolo è tutto scritto ma nonostante questo richiede comunque più concentrazione. 

Parliamo di come funziona la stand-up italiana. Oltre ai comici ormai più conosciuti esistono anche scene locali emergenti. Tu segui chi fa stand-up nelle scene locali in Italia?

Sì, li seguo. La scena della stand-up comedy italiana si autoalimenta: soprattutto all’inizio era basata molto su una dinamica di scambio. Chi voleva fare stand-up organizzava gli open mic nelle varie città e durante le serate ci conoscevamo tutti. Anche adesso quando ti esibisci in un posto ci sono sempre le persone che fanno stand-up nella scena locale, spesso aprono gli spettacoli e si rimane sempre in contatto. Per esempio conosco la scena pisana dove al Leningrad da anni si danno da fare per portare la stand-up in una città piccola. 

Ma essere emergente a Roma o esserlo in qualsiasi altra città cambia? Hai possibilità diverse?

Paradossalmente di solito nelle città universitarie trovare una scena e un posto dove esibirsi è più difficile di quanto non si pensi. Bologna per esempio ha l’open mic fisso solo da un anno, ed è comunque Bologna. Sicuramente a Roma, ma anche a Milano, c’è più roba da fare, tanto pubblico, tanti comici, ci sono più opportunità perché sali di più sul palco. Se vuoi fare TV devi essere a Roma o a Milano, ma non è che la televisione abbia aperto chissà quali porte. La cosa più importante è avere l’opportunità di esibirsi tanto. Instagram per questo- nel bene e nel male- è la miglior piattaforma dove farsi conoscere. Non penso che per fare stand-up sia necessario trasferirsi a Roma o in una grande città. La cosa più importante è avere una scena e la possibilità di salire sul palco il più possibile. 

Quando vai in giro per l’Italia noti che c’è differenza tra il pubblico di diverse città?

Sì. Al nord ridono molto di più. A Milano tantissimo. Ti dico una mia teoria totalmente basata sul nulla: al centro-sud si dicono cazzate tutto il tempo, durante tutta la giornata si fanno tante battute e si scherza molto. Così quando mi vieni a vedere non dici “ah, finalmente rido”. La serata diventa solo un altro posto dove si dicono le ennesime cazzate. Se invece sei in un posto dove la gente non passa molto tempo a prendersi per il culo, quando vai a teatro apprezzi di più il momento dello spettacolo comico. Ci sono popoli più incazzosi che quando vengono al tuo spettacolo sembra che ti facciano un favore. In altre città sono più attivi, più pronti a fare il pubblico. A Milano succede molto, il pubblico arriva e sa di fare il pubblico. A Roma già che hai dovuto trovare parcheggio per venire al mio spettacolo, ti sto antipatico ancora prima di iniziare. 

 

Rispondi