Fuocarazzo

In copertina: foto di Giannux (Giovanni Minora), 2010

 

Una tradizione in bilico tra identità e vandalismo

di Elena Pizzo


 

Nei giorni che precedono il 17 gennaio, a Napoli non è raro incontrare bande di bambini che corrono per le strade. Ogni banda si mette alla ricerca di legname da bruciare per i falò di Sant’Antonio o, come si dice in dialetto napoletano, i fuocarazzi. Alla vigilia del 17 gennaio Napoli si illumina di tanti fuochi quanti sono i suoi quartieri. La competizione tra i quartieri per chi rimedia più legna crea una interessante agitazione in città: quando le festività natalizie si concludono e i proprietari dei negozi iniziano a smontare decorazioni e lucine, i bambini fanno di tutto per accaparrarsi gli alberi di Natale, ma anche ogni genere di altri scarti di legno, chiedendoli ai fruttivendoli e ai falegnami o cercandoli nella spazzatura. Oltre ad ingegnarsi per reperire il legname, i bambini devono anche eroicamente proteggerlo dagli abitanti dei quartieri circostanti, loro avversari nella creazione del cippo più grande. Di solito lo mettono negli scantinati e fanno i turni di guardia. Ciò comporta che l’ultima notte prima del fuocarazzo alcuni membri del gruppo siano costretti a vegliare sul materiale raccolto per scongiurare razzie. Ripetendo ogni anno questo rituale, bambini e adolescenti portano avanti una tradizione trasmessa di generazione in generazione ormai da secoli.

La cultura popolare è stata la capsula del tempo attraverso cui il fuocarazzo è giunto fino ai nostri giorni. Il rito affonda le sue radici nel mito greco di Prometeo, che rubò il fuoco agli dèi per farne dono agli uomini. L’atto compiuto da Prometeo, che è una forma di ribellione all’autorità divina, segna l’inizio della condizione esistenziale dell’umanità. Il mito si conservò intatto nei secoli e non scomparve neanche con l’avvento del Cristianesimo, ma venne assorbito dalla cultura popolare e le funzioni delle divinità pagane vennero assimilate dalla figura di Sant’Antonio Abate. Diversamente da come vorrebbe il detto, non sono la Befana e i re Magi a chiudere le feste, ma un fuoco che divampa a fine gennaio e trasforma in cenere il vecchiume dell’anno appena trascorso.

Secondo la versione cristiana del mito, un tempo sulla Terra non c’era il fuoco e gli uomini infreddoliti chiesero aiuto a Sant’Antonio, un uomo dalle umili origini che, dopo aver abbandonato il mestiere di porcaio, era andato in eremitaggio nel deserto. Per aiutare gli uomini, Sant’Antonio scese all’inferno insieme a uno dei suoi maialini, che non lo aveva mai abbandonato. L’intento era rubare il fuoco a Lucifero, ma giunto alle porte dell’inferno, i diavoli rifiutarono di farlo entrare, spaventati dalla sua aura di santità. Grazie all’aiuto del suo maialino e di un bastone, Sant’Antonio riuscì comunque a trarli in inganno e a rubare una scintilla da portare sulla terra. Da allora, ogni anno gli uomini accendono un enorme falò in segno di ringraziamento verso il Santo.

Quella dei fuochi di Sant’Antonio è una tradizione diffusa in tutta Italia, sebbene in ogni luogo abbia acquisito forme e peculiarità diverse. Questa versione del racconto, che è la più diffusa, compare nella raccolta delle Fiabe italiane di Calvino, dove è legata al territorio del Logudoro, corrispondente all’area nord-occidentale della Sardegna. Il caso di Napoli, che dista circa 600 km dalle coste sarde, è un esempio eclatante del raggio di diffusione di cui mito e rito sono stati protagonisti. Il falò più grande viene acceso a Novoli (LE), in Salento, dove ogni anno più di 200 mila persone accorrono per assistere alla fiammata di una pira di 25 metri. In Abruzzo, a Fara Filiorum Petri (CH) la sera del 16 gennaio ha luogo la processione delle farchie, fasci di canne trasportati lungo le contrade e dati alle fiamme davanti al sagrato della chiesa di Sant’Antonio. Come nel caso napoletano, anche qui nasce un’accesa competizione tra i partecipanti per stabilire quale sia la farchia migliore. Ad Asola (MT), in Lombardia, alla vigilia del 17 gennaio viene bruciato un albero alto circa 20 metri, che reca sulla cima un pupazzo impagliato con le sembianze di una vecchia. I fuochi di Novoli, Fara e Asola rappresentano bene un universo ricchissimo di festività distribuite lungo il territorio nazionale, sebbene siano ancora molti i casi citabili. Carlo Gelmetti nel suo saggio Il fuoco di Sant’Antonio. Storia, tradizioni, medicina ha raccolto tutte le tradizioni rituali e gastronomiche legate a Sant’Antonio, nonché canti popolari e proverbi che lo riguardano.

Gelmetti spiega che l’elemento più ricorrente nei riti popolari legati a Sant’Antonio è il fuoco, simbolo dal significato ambivalente, poiché rappresenta uno strumento di sussistenza e di difesa, ma può anche essere causa di distruzione. L’importanza che il fuoco ha per la sopravvivenza della specie umana lascia pensare che le feste ad esso legate siano tra quelle di origine più antica. Un po’ ovunque il rito dei fuochi è espressione della necessità di bruciare ciò che è vecchio, per lasciare spazio alla novità. A Napoli l’idea di rinnovamento che i falò portano con sé è espressa nel comune detto “Sant’Antuono, tecchete ‘o viecchio e dacce ‘o nuovo”. Non è casuale che i festeggiamenti di Sant’Antonio cadano dopo il solstizio d’inverno e prima della stagione primaverile, in coincidenza del periodo che nel calendario romano segnava l’inizio del nuovo anno ed era caratterizzato da cerimonie agricole di bonifica dei campi e di benedizione degli animali. Oltre al rito di accensione dei fuochi, la festa si contraddistingue anche per la molteplicità di usanze di arte culinaria. Nonostante ogni paese abbia una propria tradizione gastronomica legata all’occasione, è condivisa l’abitudine di consumare i piatti tipici al chiarore delle scintille del falò. Poiché al Santo è associata la figura del maialino, durante la sua festa, a Napoli – come in tutta Italia – non mancano momenti dedicati alla benedizione del bestiame e alla consumazione di carne di maiale. Inoltre, la figura del maialino potrebbe essere traccia di un’ulteriore sovrapposizione del Santo al dio celtico Lug, figlio della Grande Madre, a cui erano consacrati suini e cinghiali.

Nella figura di Sant’Antonio si sono cristallizzati elementi greci, romani e celtici che hanno dato vita a un culto millenario e multiforme, la cui celebrazione a Napoli da qualche anno sembra essere stata messa in discussione.

Mentre nelle altre città d’Italia il falò è autorizzato e prevede spesso anche la partecipazione – se non persino l’organizzazione – delle autorità locali, a Napoli vigono divieti che interessano alcune zone della città, tra cui il Rione Sanità, il Rione Miracoli, il Rione Torretta, il Casale di Posillipo e i Quartieri Spagnoli. Sul web non ci sono informazioni riguardo il fattore scatenante delle proibizioni, ma non è difficile immaginare che, date le dimensioni dei fuochi, negli ultimi anni si siano create situazioni di disordine pubblico. Leggendo gli articoli delle testate locali sembra che un aumento di disordini si sia verificato quando le autorità hanno iniziato ad impedire il regolare svolgimento del rito. L’anno scorso, i bambini, pronti ad accendere il cippo, hanno trovato le piazze piantonate dalle forze dell’ordine. In alcuni casi l’interdizione è sfociata in gravi atti di protesta e vandalismo contro gli ufficiali di polizia. Alcuni giovani hanno provato ad accendere il fuoco in piazzette più appartate, rischiando così di danneggiare edifici di interesse storico-culturale.

Sono due le narrazioni dominanti scaturite dai recenti avvenimenti: alcune voci difendono i bambini, mentre altre ne condannano le azioni. I giornali locali, che si sono schierati contro la celebrazione del rito, lo hanno definito un uso tribale e un atto vandalico, senza tenere in considerazione il valore storico e culturale che il fuocarazzo porta con sé. “A Napoli le baby gang si preparano al cippo” oppure “Napoli, allarme fuocarazzi di Sant’Antonio”, o ancora “Fuocarazzi: una scuola per la vita criminale” sono solo alcuni dei titoli e delle frasi che affollano la stampa locale. Su alcune testate è stata persino negata la collocazione dei fuochi all’interno di una tradizione millenaria. Così, mentre in altri centri abitati della Campania si discute di candidare la festività a Patrimonio dell’Unesco, a Napoli il regolare svolgimento viene ostacolato, perché interpretato solo come un possibile mezzo di rafforzamento dell’identità di quelle che vengono definite baby gang. In effetti il fenomeno di aggregazione criminale giovanile è molto diffuso nel napoletano e spesso si esprime attraverso la piromania. Forse la somiglianza del rito del fuocarazzo a questi atti di delinquenza gratuita può aver generato nella mente delle persone un’associazione arbitraria tra i due fenomeni; ciò ha avuto come conseguenza un atteggiamento di totale rinnegamento verso un rito celebrato da millenni. Per denunciare l’ingiustizia insita nella proibizione e nelle dure parole di condanna della stampa, il 17 gennaio 2023 Sergio Alimberti e Maria Laura Desiderati hanno pubblicato su youtube il loro corto documentaristico Fuocarazzo. Lo scopo del cortometraggio è di portare all’attenzione delle autorità lo spirito con cui il momento dei fuochi è vissuto, per sollecitare chi di dovere a garantirne lo svolgimento in sicurezza. Protagoniste delle prime inquadrature sono due statue della Madonna e un’edicola votiva di strada, che sottolineano il legame – ma anche il contrasto – della tradizione documentata con forme più canoniche di religiosità cristiana. L’operazione di accostamento del fuocarazzo a simboli sacri sembra proprio voler rispondere alle immotivate accuse di tribalismo e di mancato legame ad una vera tradizione culturale. Nelle scene successive i registi seguono i bambini in tutte le fasi di preparazione e di accensione del cippo, evidenziando nelle loro azioni la centralità della dimensione del gioco e della sfida tra gruppi. Non mancano però inquadrature che permettono di comprendere la preoccupazione e lo scetticismo dei residenti nei confronti dell’accensione dei fuochi. Le dimensioni assunte dai fuocarazzi rendono necessaria la presenza di figure deputate al controllo della sicurezza, come del resto avviene in tutte le altre celebrazioni della penisola.

Antropologicamente parlando, ogni rituale comunitario può essere considerato come un atto performativo con specifiche funzioni sociali e territoriali. Guardando al pensiero di Van Gennep, il fuocarazzo potrebbe essere definito un rito di passaggio, dal momento che segna un confine temporale stagionale e riveste una funzione simbolica, trasformando in cenere il passato e originando la scintilla del futuro. Il ruolo più importante è assegnato agli scugnizzi, giovani di età compresa tra dieci e diciotto anni, responsabili di garantire la perpetuazione del rito e di consegnarlo alle generazioni future. Attraverso il rito metaforicamente si affida loro anche il compito della rigenerazione sociale. Le piazze, centri della vita comunitaria, sono i luoghi che fanno da teatro al fuocarazzo. Per gli scugnizzi vedersi proibire l’accesso alla piazza significa sperimentare un senso di esclusione che potrebbe provocare una chiusura nei confronti della comunità e portare a un ripiego verso forme di aggregazione alternative. Ogni atto rituale ha una teatralità intrinseca, in quanto mezzo di espressione di una collettività sociale. Il significato che il rito porta con sé è continuamente soggetto a mutamenti e riadattamenti necessari alla sua sopravvivenza. In tal senso il fuocarazzo può essere considerato come uno spazio in cui agiscono forme di condizionamento sociale ed usato, in quanto tale, come veicolo di trasmissione di valori – positivi o negativi – ai membri della comunità.

Esistono allora le condizioni per credere che la piromania e il rafforzamento identitario di piccole bande criminali siano rischi reali? Il mito di Prometeo racconta di una forma di ribellione nei confronti dell’istituzione divina e non è da sottovalutare la possibilità che gli scugnizzi, recuperando inconsapevolmente l’essenza originaria del mito, si trasformino in piccoli Prometei. Attualmente festeggiano Sant’Antonio nonostante gli venga vietato e probabilmente continuerebbero a farlo anche se, negli anni a venire, qualcuno provasse ancora ad impedirglielo. Del resto, hanno acceso i fuochi anche in periodo di restrizioni anti-Covid19. La possibilità che il fuocarazzo si saldi a un fenomeno baby gang potrebbe presentarsi come rischio concreto qualora le istituzioni e le associazioni di volontariato presenti sul territorio non fossero in grado di rispondere a un vuoto di valori, contrastando con misure efficaci l’emarginazione sociale. Sottrarre una tradizione millenaria alle giovani generazioni non è una soluzione, anzi è una scelta che gioca a favore dell’impoverimento identitario e alimenta problemi di delinquenza.

Il fuocarazzo è una tradizione in bilico tra identità e vandalismo. La linea che divide i due possibili scenari è estremamente sottile. Tutto dipende da come si decide di gestire gli eventi del 17 gennaio. Se una dura proibizione non serve ad evitare falò non autorizzati e degenerazioni delinquenziali, rimane un’unica strada percorribile: per evitare che la tradizione venga assorbita dalla sfera dell’illegalità, le istituzioni locali dovrebbero abbracciarne la celebrazione e regolamentarla, fornendo gli spazi adatti ed effettuando i controlli necessari ad evitare tristi epiloghi. Solo così si permette al rito di alimentare una forma di identità comunitaria sana, piuttosto che lasciare che si trasformi in un elemento di rafforzamento identitario di possibili gruppi criminali. In quest’ottica il fuocarazzo potrebbe persino funzionare come strumento per combattere l’emarginazione sociale nei quartieri popolari, uno dei più grandi problemi che le istituzioni locali e le associazioni di volontariato si trovano a fronteggiare. Il fuocarazzo potrebbe tornare ad essere un momento socialmente condiviso, un evento in cui le giovani generazioni di Napoli possano sentirsi riconosciute come protagoniste.

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