in foto: street art “Nobody likes me”, in Stanley Park (Vancouver), di Banksy
“Il dilemma rappresenta
L’equilibrio delle forze in campo
Perché l’amore e il litigio sono le forme del nostro tempo.”(G. Gaber, Il dilemma, 1980)
Giorgio Gaber cantava la crisi di coppia come metafora della più grande crisi dell’uomo del tempo, con la propria morale. Erano gli anni ‘80, anni che rispetto al decennio precedente, di grande libertà sentimentale, stavano riprendendo una svolta conservatrice. Non vi era più nessuna repressione e, per alcune coppie, l’infedeltà era una specie di garanzia di modernità e di ritrovato anticonformismo che, tuttavia, non poteva che trovare nel fallimento della relazione stessa la più naturale delle conclusioni. Secondo Gaber si poteva trovare nella fedeltà una risposta diversa alla crisi del tempo. Quella elogiata dal cantautore, però, è la fedeltà verso noi stessi, diversa da quella per le istituzioni o il proprio partner.
Lo stesso tipo di fedeltà in noi è quella che Jeff Orlowski, autore di The social Dilemma, vuole stimolare con il suo documentario, narrando la forma del nostro tempo. Stimato per il suo operato, ha conquistato l’ambito Audience Award nel 2017, un premio istituito dal pubblico, non da una giuria o da un gruppo di critici, in occasione del Sundance Film Festival per il suo “Chasing Coral”. Nel documentario del 2017 analizza, tramite riprese sottomarine, ricerche scientifiche e interviste a luminari del settore, il dramma che si sta verificando negli oceani.
Con lo stesso spirito, J. Orlowski riemerge dalle acque marine per inoltrarsi in un mondo altrettanto sommerso, quello dei social network e dei motori di ricerca, attraverso il suo documentario. Il regista si propone, quindi, di trovare una soluzione al dilemma del nostro tempo e, come Gaber, lo fa sollecitando nel suo pubblico una rinnovata presa di coscienza.
Nel documentario, alle interviste sono affiancate alcune parti “drammatiche”, raffiguranti una tipica famiglia americana, vittima del social dilemma, rappresentata in particolare dai due figli più giovani. L ’adolescente, facilmente manipolabile dalle notizie del suo news feed, e la pre-adolescente, sull’orlo della depressione a causa degli irrealizzabili standard di bellezza a cui si sottopone ogni giorno su Instagram.
Sebbene il docu-drama intenda raccontare il dilemma che affligge la nostra generazione a causa di un uso smisurato dei social, Orlowski ha deciso di farlo su Netflix, la piattaforma di intrattenimento che ha basato il proprio successo sulla sua capacità di “suggerire” ai propri utenti il film giusto da vedere, attraverso la nostra profilazione con dei tag, che mescolano il calcolo matematico ad una catalogazione umana. Eppure, nonostante possa sembrare una scelta incoerente metterci in guardia sui rischi dei social-network utilizzando una piattaforma con similari meccanismi di persuasione, scopriremo che non è esattamente così.
Al centro del documentario c’è la figura di Tristan Harris – la voce narrante – ex capo del Design Etico a Google e ora co-fondatore del Center for Human Technology. T. Harris si fa portavoce dello stesso Orlowski e del suo intento di far sapere come funzionano davvero i social network a tutti, non soltanto agli addetti ai lavori. O meglio, intende raccontare come, perlomeno, abbiano funzionato fino al 2016, stando alle dichiarazioni rilasciate da Facebook.
Facebook infatti, in un documento dal titolo che non lascia spazio a fraintendimenti, “What ‘The Social Dilemma’ Gets Wrong”, afferma che T. Harris abbia parlato della propria azienda considerando un arco temporale che si ferma al 2016 e che, quindi, non abbia tenuto in considerazione i “passi in avanti” compiuti. Facebook descrive come abbia lavorato per migliorare alcuni dei punti più critici che rappresentavano il suo funzionamento, giustificandosi e facendo ammenda di alcuni errori che ammette di aver commesso proprio nel 2016. Vicenda, questa, ben approfondita in un altro documentario presente su Netflix, The Great Hack, sullo scandalo di Cambridge Analytica che portò, tra le altre cose, alla vittoria delle elezioni presidenziali di Donald Trump.
Facebook afferma di essere non più tanto un social network, bensì una piattaforma che vende pubblicità e di essere, inoltre, una piattaforma che consente a piccole realtà imprenditoriali di raggiungere i propri clienti e di competere con i grandi colossi. Ma anche se queste aziende vendono tramite Facebook, Facebook company specifica: “they don’t know who you are“:
“Noi forniamo agli advertiser dei report raffiguranti il tipo di persone che stanno vedendo la loro pubblicità, e con quali perfomance, ma non condividiamo informazioni personali che identificano la persona, se questa non gli dà il permesso.”
Facebook tiene a ribadire, in pratica, che non vende le nostre informazioni a nessuno e ci invita a vedere gli interessi/dati da noi inseriti nelle nostre impostazioni e rimuoverli, se vogliamo.
Stando a queste dichiarazioni, l’azienda di Zuckerberg sembra allontanarsi dalla visione aziendale delle origini e cioè dalla sua funzione originaria di social network, affermando con chiarezza pragmatica i suoi intenti pubblicitari.
Le vera natura di Google, invece, viene svelata da T. Harris, il protagonista di The Social Dilemma che racconta di come, ogni giorno, tornava a casa e lavorava un paio di ore a notte alla presentazione con la quale avrebbe voluto cambiare le cose dall’interno.
In questo lavoro sostanzialmente diceva che “mai nella storia, 50 designer-ragazzi bianchi tra i venti e i trentacinque anni, in California, avevano preso decisioni che avrebbero avuto impatto su due miliardi di persone”. Si riferisce alle notifiche che ci appaiono sullo schermo appena ci svegliamo e di quanto fosse necessario che nella sua azienda, Google, si discutesse anche degli effetti di queste funzionalità sulle persone. T. Harris descrive il suo stato d’animo quando inviò la presentazione e appena ottenne le prime reazioni. Tutti sembravano d’accordo, sentiva di aver dato via ad una Rivoluzione.
Purtroppo, poco dopo, scoprì che Larry Page, il CEO di Google, ne era stato informato in tre riunioni diverse e, nonostante ciò, Google avrebbe dovuto prendere l’istanza sul serio, cosa che non avvenne mai.
Insieme a T. Harris, nel documentario, gravitano anche altre figure chiave della Silicon Valley come Tim Kendall ( ex Capo della monetizzazione di Facebook e ora Ceo di Pinterest) che spiega il suo ruolo iniziale in Facebook come direttore della monetizzazione. Il suo scopo era quello di capire come realizzare i profitti e afferma di essersi ispirato al modello pubblicitario di Google, ritenendolo quello più “elegante” per fare soldi.
Jaron Lanier invece, computer specialist e fondatore della Realtà Virtuale, è l’intervistato avulso dai social media, che ha scritto un libro: “Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social”. Jaron inciterà a cancellarsi dai social network, ponendo luce su quale sia il vero obiettivo di questi social e di quanto sia bella – come dargli torto- la vita “fuori”.
“Il modello imprenditoriale di aziende come fb snapchat, twitter, instagram ecc è tenere incollate le persone allo schermo. La nostra attenzione è il prodotto che viene venduto agli inserzionisti. Quei servizi che ci vengono offerti e che crediamo gratis, in realtà vengono pagati dagli inserzionisti, lo fanno, perché queste ci mostrino la loro pubblicità”.
E infine Shoshanna Zuboff, autrice del libro “Il capitalismo della sorveglianza” e dottoressa emerita alla Harvard University, spiegherà, a più riprese, su cosa si basa il successo di quelle che lei chiama le “grandi aziende di Internet”:
“Per avere successo in questo settore devi solo essere in grado di fare grandi previsioni. [Non serve la sfera di cristallo], le grandi previsioni hanno un imperativo: servono molti dati. Al giorno d’oggi, esistono mercati che letteralmente commerciano “Features sull’essere umano” -ovvero sesso, età, interessi- e questi mercati, hanno prodotto trilliardi di dollari rendendo “le società di Internet”, le società più ricche della storia dell’umanità”.
Secondo S. Zuboff, queste aziende dovrebbero essere bandite come quelle che commerciano organi umani o le droghe illegali. Tuttavia, non sono i nostri dati ad essere venduti, non dobbiamo preoccuparci di questo – cosa che anche il documento di Facebook ribadisce- piuttosto il vero fulcro del problema è: che cosa ci fanno con i nostri dati (a cui noi diamo il consenso)?
Nel documentario ci viene mostrato come vengono costruiti i modelli che, teoricamente, predicono le nostre intenzioni. Lo scopo di queste aziende è avere il modello migliore. Per spiegare semplicisticamente come le “società di internet” utilizzano i nostri dati vengono mostrati tre soggetti – sulla falsariga di Inside Out – che dovrebbero rappresentare il funzionamento dell’algoritmo di Facebook o dei correlati di Youtube. In questo processo siamo visti come degli Avatar o Bambole Voodoo, depositari di tutti i video che abbiamo guardato e di tutti i post a cui abbiamo messo like, con lo scopo di costruire un modello di noi sempre più accurato; il modello, una volta pronto, sarà in grado, teoricamente, di predire quello che faremo.
I tre “funzionari dell’algoritmo” – interpretati dal “Pete” di Madmen- altro non rappresentano che i tre fondamentali obiettivi di queste aziende: l’engagement (che punta ad aumentare il nostro coinvolgimento dell’utilizzo), la crescita (che mira a farti tornare e a portare con te quanti più amici possibile e che loro ne invitino altri) e infine le Revenue (ovvero l’obiettivo della pubblicità che si assicura che mentre si sta facendo tutto questo, si guadagnino più soldi possibile).
“I social media non sono degli strumenti che aspettano di essere usati, hanno degli obiettivi e dei mezzi per perseguirli: usano il tuo modo di pensare contro di te. Si tratta di manipolazione: siamo tutti delle cavie, ma non è una cosa da cui noi traiamo qualche vantaggio, per loro siamo solo degli zombie e loro vogliono solo fare più soldi.”
Spiega T. Harris, ancora:
“I social media scavano sempre di più a fondo nel tronco encefalico e prendono il controllo dell’autostima e dell’identità dei bambini, e non solo. Costruiamo le nostre vite attorno a questa idea di “perfezione percepita” e veniamo compensati attraverso questi segnali a breve termine (cuori, like, pollici all’in su) e li confondiamo con il valore e la verità. […]
I segnali a breve termine che confondiamo con il valore e la verità sono uno dei principali problemi che rischiano di affliggere un’intera generazione e quelle successive alla GenZ (quelli nati dopo il 1996). Loro sono la prima generazione della storia dell’umanità ad aver avuto accesso ai socialnetwork già dalle scuole medie. Probabilmente ci adatteremo e impareremo a convivere con la tecnologia, così come abbiamo imparato a convivere con tutto il resto, però occorre fare i conti con un grafico che viene mostrato nel documentario e che riguarda il potere di processamento del computer dal 1960 ad oggi. Questo è aumentato di un trilione di volte, a differenza dei nostri cervelli che da allora non si sono evoluti affatto. Il rischio che si corre è quello di non riuscire ad essere al passo con la tecnologia anche da “nativi digitali” e di finire per affidarci totalmente ad essa, anche per decisioni che riguardano il riconoscimento di cosa sia vero e cosa no. Ma c’è un piccolo appunto da fare: le intelligenze artificiali di google o facebook non conoscono quale sia la verità.
Jaron Lanier torna a parlare e ci illustra ancora meglio il problema, spiegandoci quanto siano sbagliati i nostri feed dei social media, facendoci pensare a Wikipedia:
“quando vai su una pagina [di Wikipedia], vedi la stessa cosa che vedono anche le altre persone, è una delle poche cose online che abbiamo in comune. Se vai su Google invece, e digiti <<il cambiamento climatico è>>, vedrai risultati diversi a seconda di dove vivi. In alcuni casi ti dirà che <<è una bufala>>, in altri che <<sta causando il cambiamento della natura>>, questo non c’entra niente con il cambiamento climatico, ma da dove stai digitando e da quante cose Google sa di te”.
Provare per credere.
Il nostro feed viene paragonato al mondo di Truman Show e viene ribadito come ogni giorno trascorso su facebook sia un giorno trascorso all’interno di una bolla autocompiacente, fatta di persone che la pensano come noi, in cui si è facilmente manipolabili. Questo concetto che viene ripetuto in modo estenuante per tutto il documentario, spiega anche la nascita di teorie complottiste come i terrappiattisti, il pizzagate, QAnon, attraverso i socialnetwork che, altrimenti, non avrebbero avuto il seguito riscosso.
Spiega Tristan Harris che, secondo uno studio del MIT, le fake news su twitter si diffondono sei volte più velocemente rispetto a quelle vere. “E’ come se inclinassero il piano del comportamento umano e rendessero alcuni comportamenti più difficili e altri più facili”. In parole povere: le notizie false fanno guadagnare di più rispetto a quelle vere che sono “noiose”. Basti pensare alle fake news sul coronavirus:
“Quello che vediamo con il covid, è solo una versione estrema di quello che sta accadendo nel nostro ecosistema di informazioni”. I social media amplificano esponenzialmente pettegolezzi e dicerie al punto che non sappiamo più cosa sia vero, indipendentemente dalla questione.” Tristan Harris
Con toni forse un po’ troppo sensazionalistici nel docu-film, veniamo invitati ad immaginare un mondo in cui nessuno crede più a niente, in cui tutti credono che il governo stia mentendo e tuttosia una teoria cospirazionista. Ed è allora però che la vittoria alle elezioni politiche degli ‘estremisti di centro, cresciuti di popolarità per mezzo di campagne propagandistiche svolte prevalentemente sui social, come quelle di Bolsonaro in Brasile o come l’attuale strategia di Salvini in Italia, assumono un certo – tetro- significato.
“Non è la tecnologia ad essere una minaccia esistenziale, è l’abilità della tecnologia di tirare il peggio dalla società, ed è la parte peggiore della società ad essere la minaccia esistenziale” (Tristan Harris).
La nostra è l’ultima generazione di persone che saprà come era la vita prima che Facebook prendesse piede. Prima, “Internet era un posto strano, bizzarro e sperimentale, pieno di creatività e sicuramente lo è ancora, solo che adesso sembra una specie di enorme centro commerciale”(Bailey Richardson di Instagram).
Il documentario, dopo aver prefigurato possibili guerre civili, affermando che i social network alimentano la polarizzazione dell’opinione pubblica tenendo incollati gli utenti al cellulare per sottoporli alle inserzioni e all’assuefazione tossica ai social, al pari delle droghe illegali, si chiude con un barlume di speranza e con un’esortazione a non farci più trattare come una risorsa estraibile.
Il consiglio che Orlowski è solito dare negli ultimi minuti dei suoi documentari, e lo fa anche qui, è quello di trovare il modo di parlare di questi argomenti, di esprimere la nostra opinione a riguardo e soprattutto di prenderne coscienza. In alcuni casi, infatti, proprio attraverso queste stesse tecnologie – che siano la piattaforma Netflix o la bacheca di Facebook – possiamo iniziare ad invertire la rotta e iniziare almeno a modificare il dialogo.