Sguardi tattili

Immagine in copertina: Jason Anderson, Golden, olio su lino, 2019

di Lucrezia Cirri


Da qualche anno, un giovane pittore inglese di nome Jason Anderson ha iniziato a far parlare di sé come del “moderno Monet”, presentandosi sulla scena artistica contemporanea con un esperimento originale, che affonda le sue radici nella tradizione. Nuovo interprete di dogmi lontani, Anderson è autore di paesaggi urbani astratti, caratterizzati da riflessi e giochi di luce, ottenuti stendendo colori a olio su supporti di lino, con rapide spatolate.

I suoi caleidoscopici lavori hanno colpito anche la cantante Billie Eilish, che per la copertina di everything i wanted, uscito lo scorso novembre, ha commissionato all’artista una veduta del Golden Gate Bridge, da cui racconta di aver sognato di gettarsi, tentando il suicidio fra la più totale indifferenza dei passanti.

Nel dipinto, il ponte è costruito con pixel di vari toni di giallo, rosso e blu incastrati in linee diagonali ben definite, ma che fanno appena emergere la figura dallo sfondo sfumato, su cui colonne arancioni e grigie lasciano immaginare la presenza di grattacieli. L’atmosfera onirica e innaturale non permette di localizzare con certezza l’oggetto davanti ai nostri occhi e ci lascia spaesati, ma è perfettamente coerente con il testo del singolo e con l’incubo della giovane, in cui ci si muove senza essere visti davvero e si grida senza che esca voce, senza che nessuno ci senta.

Come artista contemporaneo, Anderson mostra di aver compreso l’enorme impatto che la tecnologia e l’era dei social hanno avuto sull’arte – ne parla in un’intervista per D Emptyspace –, soprattutto per quanto riguarda la promozione delle opere. Se usati correttamente, infatti, i social possono rappresentare un’ottima vetrina personale, dove vendere e vendersi immediatamente, senza bisogno di mediatori e senza doversi attenere alle tempistiche delle gallerie espositive. Consapevole di questo meccanismo, online l’autore parla molto di sé e dei suoi lavori – la maggior parte delle informazioni su di lui è ricavabile soprattutto dai suoi profili ufficiali – e da qualche anno è riuscito a ottenere un buon seguito.

Proprio sulla sua pagina Facebook, Anderson sottolinea quanto il passato da restauratore di vetrate e gli studi di design abbiano influenzato la sua produzione pittorica, permettendogli di sviluppare una particolare sensibilità nei confronti degli effetti cromatici della luce sugli oggetti.
Originario di Dorset, una cittadina sulla costa inglese, Jason lascia la scuola a 16 anni e si iscrive a un corso di illustrazione tecnica. Partecipa al restauro di importanti cattedrali gotiche e lavora poi al fianco di Roy Coomber, noto artista nel campo del vetro. Progetterà lui stesso murales, e la soddisfazione di vedere i suoi acquerelli prendere forma concreta trasformerà un’iniziale “scelta comoda” – il laboratorio si trovava vicino a casa sua – in passione per il mestiere.

Ho iniziato la mia carriera artistica lavorando a progetti di restauro per le cattedrali di York Minster, Gloucester e Wells, nell’ambito di un apprendistato sulle vetrate. Passai
rapidamente al lavoro di progettazione che mi ha insegnato a comporre e stilizzare la materia attorno a un “puzzle” di vetro dipinto – un approccio che guida ancora oggi il mio lavoro. Sono affascinato dal colore e lavoro con una tavolozza forte per creare profondi effetti di impasto con il coltello. […] Questo approccio crea un dipinto che, come il paesaggio, è in continua evoluzione. Quindi quando ti muovi nella stanza e le creste di vernice catturano la luce, c’è sempre qualcosa di nuovo da vedere.

In Abstract, la serie che meglio esprime il suo stile, sono nitidamente rilevabili sia questo approccio che l’influenza dell’impressionismo francese, con cui sono possibili molti parallelismi: entrambe pitture en plein air; entrambe pitture che privilegiano il colore al disegno, lasciando che sia questo a definire contorni e forme. Si tratta di una somiglianza estetica che si manifesta al colpo d’occhio. Per notarla basta pensare al celebre Impression, soleil levant (1872) di Monet e confrontarlo con i dipinti della serie: ci sono il sole e il mare, sempre centrali, e a fare da vero protagonista c’è il risultato del loro incontro, che si articola nel contrasto fra toni pastello e punte accese, nei riflessi della superfice dell’acqua. I “pittori della luce”, infatti, prestavano grande attenzione alle modulazioni cromatiche e ai chiaro-scuri, ed erano ossessionati dai dettagli. Il loro obiettivo era quello di rappresentare l’esatta sensazione – l’impressione, appunto – che avevano provato nell’istante in cui avevano osservato il soggetto che avevano scelto di dipingere. Il movimento rapido del pennello sulla tela, che rende la loro pittura materica e palpabile, tattile all’occhio, mostra proprio quest’urgenza di cogliere l’attimo, questa ossessione di studiare i cambiamenti provocati dalla luce sul paesaggio e sugli oggetti. “Sono costretto a continue trasformazioni perché la natura rinverdisce continuamente”, spiegava Monet.

Anderson prende nota magistralmente e, sempre nell’intervista rilasciata per D Emptyspace, afferma:

Come gli impressionisti ho scoperto che se i colori e il tono sono corretti, la forma non è così importante. Il tuo cervello riempie semplicemente le lacune. Questo crea due esperienze visive: da lontano è una scena, ma da vicino si tratta di forme e colori.

La composizione dei suoi dipinti inizia con uno schizzo in bianco nero, realizzato a penna, che gli permette di soffermarsi solo sulle strutture portanti e di capire se la composizione avrà abbastanza forza. Disegna poi un fondale liscio, su cui aggiunge progressivamente i colori senza aver deciso in precedenza quali usare – privilegia comunque i toni pastello – e continua, pennellata dopo pennellata, fino a che il dipinto non gli sembra “pieno”. La macchia portante, da cui poi si sviluppa l’intero dipinto, spesso è gialla e rappresenta il sole – soprattutto durante un’alba o un tramonto, per le sfumature più suggestive. Spatole e coltelli gli permettono di creare linee rette con cui ottenere effetti prospettici, attraverso quella tecnica della “percettibilità” di cui parlava Samuel van Hoogstraten, allievo di Rembrandt, quando studiava le illusioni della prospettiva.

Quello di Anderson è quindi un processo creativo che si fonda sul tenere in equilibrio la dialettica antitetica fra forte percezione materica del colore e sua rarefazione. Si tratta di una tendenza familiare al neoimpressionismo che, con pennellate sempre più piccole e rapide, scompone le fondamentali unità cromatiche delle figure, che si ricomporranno poi integre sulla retina solo a una certa distanza. Allo stesso modo, soltanto se osservati da lontano gli Abstract rivelano le loro scene, con paesaggi che affiorano appena, delicati come le tinte usate, quasi velati da un alone di fumo.

Questa sua estetica strutturata, in cui l’opera si fa da sola, potrebbe rendere Anderson uno dei tanti figli di Frenhofer, il pittore protagonista del Capolavoro sconosciuto di Balzac, ossessionato dalla ricerca dell’opera perfetta. Il vecchio maestro continuava ad aggiungere vernice, a modificare linee e contorni nel tentativo di rappresentare con estrema precisione l’immagine che aveva in mente, aspettando il giorno in cui la donna che stava dipingendo sarebbe emersa dalla tela come cosa viva, da sola. Quando tornò ad avere uno sguardo razionale, si accorse che solo un dettaglio era riuscito a sfuggire alla sua follia e a resistere all’entropia cromatica che aveva creato: un piede. Di tanti anni di continuo lavoro, solo un candido piedino.
Frenhofer si chiuse in casa e bruciò tutto. Non una parola.
Sul suo personaggio i critici hanno versato molto inchiostro, incerti se fosse davvero possibile considerarlo un pioniere di impressionismo e astrattismo o meno. Pare che lo stesso Cezanne si identificasse spesso con lui, e lo ritenesse il personaggio letterario a sé più vicino.

Fortunatamente, ipotetiche intuizioni profetiche di Balzac a parte, a differenza di Frenhofer, Anderson a un certo punto posa gli attrezzi del mestiere e si ferma. Fra lui e il vecchio maestro, però, sono passati tanti anni e l’innovazione artistica ci ha abituato a nuovi punti di vista e a nuovi gusti, rendendo anche il non strettamente realistico meno fastidioso ai nostri occhi di spettatori. Nonostante le tante similitudini con l’impressionismo, infatti, i quadri di Anderson non sono semplice imitazione del modello: ne sono piuttosto una rivisitazione, fatta attraverso una nuova sensibilità contemporanea, con diversi soggetti e diverse ossessioni, proprie di chi ha appreso la lezione di molte altre correnti.

Presente al suo tempo, Anderson si mostra un artista particolarmente attento alla questione ambientale. Nei suoi dipinti non manca mai di inserire almeno un elemento umano (una strada, un ponte, un’imbarcazione…), non solo per richiamare lo spettatore a un maggiore coinvolgimento, ma anche per ricordargli che siamo solo “semplici inquilini di questo bellissimo pianeta”, attraverso il contrasto di quegli elementi con la natura. Consapevole è anche la scelta dei materiali: lino e colori a olio naturali a base di acqua, perché più ecologici.

Sfogliando il suo catalogo online, si nota come la sua pittura, prima di approdare all’attuale “impressionismo astratto”, abbia attraversato un iniziale periodo realistico: un esordio che trova il suo perché nelle commissioni di quanti gli chiedevano paesaggi che assomigliassero a fotografie. Solo successivamente, crescendo come artista e raggiungendo una maggiore visibilità grazie ai social, ha deciso di cambiare politica di committenza e aderire completamente alla propria attitudine. La scelta, come mostra il caso della Eilish, si è rivelata foriera di ingaggi importanti.

Prendo solo commissioni astratte (nel mio stile), tuttavia sono aperto a usare una scena o
uno skyline preferito come ispirazione. È utile sapere quali dei miei quadri ti piacciono,
perché questo mi dà l’idea del tipo di tavolozza e stile che preferisci.

In un mondo che corre e rincorre sempre la novità assoluta e in cui tutto diventa subito obsoleto, è necessario riflettere sull’importanza di esperimenti artistici come quello di Anderson, che non rinnega, ma cita e fa suo, un passato che ancora può farsi sentire molto vicino.
L’intero Novecento è stato un inno all’innovazione da parte dell’arte contemporanea: Jason Anderson è la prova che fermarsi e usare quel che già si ha, a volte, funziona lo stesso.

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