Illustrations for Fourteen Poems from C.P. Cavafy, David Hockney, 1966
È il 1897, un giovane aspirante poeta è di passaggio a Parigi con il fratello prima di tornare a casa, ad Alessandria d’Egitto, dove lo aspetta «la Cicciona», madre oppressiva tanto amata quanto odiata. In quegli anni l’azienda di famiglia è in bancarotta e a Parigi imperversa il caso Dreyfus, mentre i due fratelli passeggiano per la città, frequentano aristocratici, feste e il circolo letterario intorno a Jean Moreàs, affermato poeta greco naturalizzato a Parigi.
Il giovane poeta è Kostantinos Kavafis, che la scrittrice greca Ersi Sotiropoulos ha voluto raccontare in Cosa resta della notte, tradotto in Italia per nottetempo. Per Kavafis scoprirsi omosessuale a fine Ottocento, in un ambiente borghese come quello della sua famiglia, ha significato vivere la sua sessualità costantemente accompagnata alla vergogna e al ripudio di sé, eppure nelle sue poesie è forse la delicatezza a emergere di più:
Si sentirono, si cercarono i nostri corpi;
pelle e sangue compresero.
Ma ci nascondemmo, tutti e due sconvolti.
«Un desiderio che, anche se represso, si fa forza creatice ci accomuna nella scrittura», così mi dice la scrittrice di Cosa resta della notte che sono riuscito a incontrare a una presentazione a Bologna del suo libro per farle alcune domande. Sotiroupolos vive ad Atene, ma per molti anni è stata a Roma, lavorando all’ambasciata greca, così parliamo in italiano.
«Tantissimi anni fa» mi racconta «nel 1984, quando lavoravo in ambasciata, avevo organizzato un’esposizione dedicata a Kavafis. E lì, mentre preparavo il catalogo e consultavo i suoi archivi, mi sono imbattuta in questo viaggio che aveva fatto con il fratello. Parigi era l’ultima tappa di un lungo tour che li aveva portati dal Congo, a Marsiglia, fino a Londra. Ma c’erano pochissime informazioni.» Così Sotiropoulos sente l’esigenza di colmare il vuoto di questo evento quasi senza tracce, «pochissimi appunti personali, l’albergo in cui avevano pernottato, un programma della Comédie Frainçaise e niente più».
Se Parigi era un luogo totalmente estraneo per il giovane Kavafis ed era anche «il luogo prima del ritorno a casa, per questo Alessandria si sente così vicina nel libro», la narrazione si coagula in tre giorni perché, aggiunge, «credo che la cosa che mi interessi di più sul piano narrativo sia il tempo condensato. Mi interessa iscrivere la vita di qualcuno nell’arco di un tempo minimo. E poi questo viaggio apparteneva a un Kavafis “non ancora” Kavafis. Era un giovane aspirante poeta, in qualche modo ancora mediocre. Con le sue insicurezze, i suoi dubbi, le continue domande». Quando nel libro i due fratelli incontrano il greco Nikos Mardaras, fanno presto a scoprire che fa parte della cerchia di Moreàs, a cui Kavafis ha mandato alcune sue poesie, Muri e I cavalli di Achille, senza aver ricevuto risposta.
Kavafis maturò con lentezza, raggiunse il successo in tarda età, grazie anche a un lungo articolo del 1919 di E. M. Forster che girò nei circoli letterari di Londra. Nel romanzo lo si vede passeggiare per una Parigi caotica e chiassosa costantemente preso dal pensiero per le sue poesie:
Gli vennero in mente i versi di una poesia su cui stava lavorando da tempo. Ogni tanto la riprendeva, la ritoccava, la lasciava. Ultimamente l’aveva riguardata e ne era rimasto soddisfatto. Molto soddisfatto. Cosa che non gli capitava spesso.
Ersi Sotiropoulos ha scritto questo romanzo impiegando molti anni di studio negli archivi Kavafis, leggendo le varie redazioni delle poesie e riportando con chiarezza quasi filologica i possibili cambiamenti, le riscritture e le variazioni. Quando le domando a riguardo, mi risponde che «ciò che le ha preso più tempo è stato però trovare la voce. Non è una cosa che può essere fatta in maniera cerebrale. Invece, dato che qui si trattava di una persona effettivamente vissuta, ho dovuto documentarmi tanto. Non solo studiare negli archivi Kavafis, ma anche altri tipi di documenti, tra cui testimonianze di persone che l’hanno conosciuto, lettere d’epoca, la storia dell’Egitto e della Grecia, i romanzi scritti nella Parigi dell’Ottocento… finché non mi sono resa conto che tutta questa documentazione era una scusa per non cominciare a scrivere». Le chiedo quando è riuscita a trovarla. «Dopo tre anni, penso. Ero bloccata: viaggiavo da un posto all’altro con 58 chili di libri in una valigia, ancora lo ricordo. Un mio carissimo amico, Paul Vangelisti, un poeta americano, mi suggerì di scrivere una sorta di proemio, del perché avessi questa ossessione. Poi magari lo butti, disse, ma forse sarà l’inizio del romanzo. Infatti è diventato il mio incipit».
La terra sembrava ancora piatta allora, e la notte cadeva all’improvviso fino alla fine del mondo, là dove qualcuno, chino alla luce della lampada, avrebbe potuto vedere, secoli dopo, il sole rosso spegnersi sulle rovine.
C’è nella parola ossessione qualcosa di fondamentale rispetto alla scrittura e all’erotismo che nel giovane Kavafis sono strettamente legate. Nella Parigi del libro il poeta vive una sorta di battesimo erotico, innamorandosi di un giovane attore di una compagnia russa che pernotta nel suo stesso albergo. «La questione centrale del libro, e per questo mi interessava Kavafis giovane con le sue angosce e la sua insicurezza, è da dove nasca l’arte, non tanto cosa sia, ma da dove viene. Può scaturire da un dettaglio insignificante, da una cosa da niente, da un pelo.» Come si legge nel libro:
Se un tentacolo di capelli ha ispirato Callimaco, pensò ancora. Se un pelo può provare un tale turbamento, tante associazioni e immagini, al punto da indurlo a baciare la porta di uno sconosciuto. Un solo pelo, unico, che spunta sul morbido testicolo di un giovane danzatore russo […] si trasforma in un soffio creativo.
Il desiderio represso e combattuto di Kostantinos Kavafis sembra essere così un approdo, uno spazio letterario contraddittorio che attira lo sguardo di altri scrittori. Anche Guido Ceronetti fu impressionato dalla poesia di Kavafis tanto da scegliere alcuni componimenti e tradurli nella raccolta Un’ombra fuggitiva di piacere. Ceronetti raccontava gli ultimi anni di vita del poeta alessandrino così: «Da molti anni è arrivata, nel quartiere, la luce elettrica. Ma là, al secondo piano del n.10, c’è qualcuno che si ostina nel rifiutarla, eppure lo aiuterebbe nella lettura, nello scrivere quando è buio». Rimaneggiava una poesia di Kafavis stesso, che traduceva, in un punto, così:
Mi basta una candela, il suo lume gracile
meglio propizia, con più pietà, l’incontro
di fantasmi, che tornano, d’amore.
Le candele, contro l’elettricità del modernismo, rappresentano bene l’animo di un uomo che ha vissuto un tempo tutto suo, fatto di divinità greche, rovine e miti sepolti. E lo aiutano a richiamare nella notte il ricordo degli amanti, uomini e ragazzi il cui desiderio era tanto dolce quanto amara era l’abnegazione. È facile immaginare Ersi Sotiropoulos compiere un rituale del tutto simile a quello della poesia di Kavafis per scrivere Cosa resta della notte: una stanza buia e delle candele, in una qualche forma di seduta spiritica in cui il poeta e la scrittrice si incontrano.