Narrare la metropoli

di Marco Inguscio


Gli abitanti delle città vivono un lungo inganno. Dal Caino biblico in poi, peccaminose, hanno continuato ad attrarci nelle grandi macchie di tessuto architettonico e industrialismo: promesse di emancipazione e benessere per alcuni, palcoscenico per le rimostranze di altri. Un magnetismo sincretico che sembra aprire lo spazio immaginativo e puntualmente lo appiattisce sulle sue esigenze funzionali. Quest’anima, al tempo lusinghiera e feroce, ne ha stabilito il ruolo di arena prediletta per storie di fantapolitica e finzione letteraria.

A trarre vantaggio dall’uso letterario della città è ancora la fantascienza – tendenza mai affievolita – dal New Weird alla Space Opera, dalla narrativa distopica futurista a una forma di scrittura che l’autore pechinese Ning Ken ha cercato di canonizzare negli ultimi anni come Chaohuan: l’ultra-irreale o super-magico. Genere ibrido, metà via tra fantascienza e un realismo magico fortemente calato nella contemporaneità, nell’assurdo plausibile delle notizie false, delle maxi corruzioni, dell’alterazione digitale del reale. 

Negli ultimi anni la rappresentazione della metropoli ha rinunciato agli elementi di imprevedibilità fantastica e futurista: anziché ricercare lo stupore del lettore attraverso descrizioni urbane votate all’improbabile e l’eccentrico, ha guardato a una sostanziale fedeltà verso il presente, alle metropoli e i suoi abitanti oggi, in grado di testimoniare, nelle sue variegate manifestazioni, la vita oltre, o nonostante, il neoliberalismo.

Sono forza bruta, grandi dati statistici, organismi semi sintetici in continua fagocitosi; il loro status di metropoli genera valore in modo continuativo e non ragionato, come valanghe in caduta libera. Ora più che mai, la città tardoliberale è l’incarnazione della contraddizione del reale: da un lato contenitore progressista di sottoculture e avanguardie, dall’altro edificazione ultima del capitalismo, della finanza, della mercificazione, della performatività continua.

Mark Fisher descriveva l’attuale sistema economico politico come una gabbia abbattutasi sulla realtà globale, un’amnesia collettiva così pervasiva da rendere inconcepibile l’idea stessa di un’alternativa. Proprio come con le città privatizzate, recintate, accastellate, che ne sono la sua espressione fisica più evidente, ci troviamo di fronte a una claustrofobica contingenza del paradigma capitalista liberale e delle sue dirette conseguenze, le quali assorbono ogni aspetto del reale in maniera tremendamente efficace. La grande città, imbuto della contemporaneità, è troppo vera, sfugge alla compiutezza dell’analisi, ne siamo soggiogati, tutto in questo luogo è deciso dalla legge di mercato, dalle sue dinamiche esclusive, dalla sua tensione agonistica. Esalta le contraddizioni di chi vi abita, addomestica e allo stesso tempo inferocisce le pulsioni trasgressive, pone i suoi inquilini dinanzi a soluzioni ambigue, che oscillano da un lato all’altro dello spettro sociale, economico, politico. L’unico modo per negarla è rinarrarla, pervertirne gli scopi, appropriarsi di quel suo bagliore ed esaltarne il perturbante anziché gli aspetti narcotizzanti, la vacua assuefazione a un equilibrio basculante ma mai davvero minaccioso.

Proprio per questo, la narrazione realista risulta, a un numero crescente di autori,  più “falsa”, perché la vita non è quella roba lì, o non dovrebbe esserlo. La nostra ricerca di autenticità è vana, il mondo è divenuto inautentico e i valori risultano dunque ribaltati: non possiamo raccontare il reale con il realismo perché il reale è scomparso. O meglio, quel senso di assurdo nel quale siamo immersi non rifonda il reale, ma termina con delinearne il perimetro, lubrificarne i contorni, nella riaffermazione del paradigma vigente. Come scrive Carlo Mazza Galanti, «riuscire a immaginare un fuori o suggerire altre realtà possibili non conformi al modello unico – che si tratti di epistemologie stranianti, entità aliene o involate misticheggianti, che superino l’inadeguatezza della semplice cronaca – diviene allora un gesto intrinsecamente politico». In un altro suo libro, con titolo The Weird and the Eerie, Fisher si interroga proprio sulle vie di fuga dall’appiattimento capitalista, e scrive che lo strano si manifesta attuando un cambio di prospettiva nello sguardo, invitandoci a osservare «il dentro dalla prospettiva del fuori», al di là delle percezioni standardizzate.

Guardare al mondo con occhio strano e inquietato. Fantascienza, New Weird e Chaohuan sono tra le risposte possibili di fronte a un reale inaffidabile ancor prima che deludente. La scrittura del fantastico o dell’ultra irreale non elude mai lo scontro con il modello capitalista, affronta la quotidiana brutalità delle cose, fruga tra le macerie del reale per tentare una forma di sopravvivenza, una via di ingaggio alternativa rispetto all’arrendevole fruizione per la quale sembriamo essere programmati.

In un articolo/manifesto pubblicato su «Literary Hub», lo scrittore Ning Ken spiega la nascita del termine chaohuan. La particella “chao” significa “super”, e la traduzione di chaohuan sarebbe quindi “superare l’irreale” o “superare l’immaginabile”; letteralmente la realtà che supera l’immaginazione.

Da cento anni circa l’economia cinese è cresciuta in maniera inarrestabile. In questo stato di esaltazione generale e di rimozione, spesso anche brutale, del passato, si sono consumati una serie di avvenimenti che, per inventiva e sensazionalità, hanno superato narrativa e cinematografia. I tropi letterari tradizionali si sono sforzati nel descrivere la cronaca quotidiana, la corruzione dilagante, la rapidità della modernizzazione, la sciatteria della gentrificazione, gli orrori dell’oppressione politica e il controllo sociale. Poliziesco, satira e horror: nessuno di questi generi “classici” è sembrato sufficientemente esaustivo, o verosimile, nel sobbarcarsi l’essenza scandalosa di un paese come la Cina, che è il più popoloso e allo stesso tempo il più segreto e controllato del mondo. C’è voluto di più, c’è voluto l’ultra-irreale per stare al passo con l’accelerazione cinese. Come sostiene lo scrittore Yu Hua, in una intervista al «Los Angeles Review of Books»:

Il problema più grande oggi della letteratura cinese, è sul come affrontare gli aspetti del reale. La realtà risulta più inafferrabile, più irragionevole della finzione. ? un compito arduo trasferire l’assurdità del reale in un romanzo […] Mi sento fortunato per il fatto di vivere in Cina di questi tempi, perché ci sono così tante storie da raccontare. Ma l’angolazione dalla quale si narra quelle storie è molto importante, perché ciò che si sperimenta come reale, nella società cinese contemporanea, è più fantastico della finzione, e i requisiti necessari agli scrittori impegnati nella narrazione, sono più alti che mai.

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“Folding Beijing” – copertina originale

Hao Jinfang è la prima autrice cinese a portarsi a casa l’Hugo Award con il suo “Folding Beijing” (2012), un racconto che narra della riorganizzazione urbana di una Pechino futuristica (ma non troppo), della generalizzata diseguaglianza sociale e dell’enorme disparità di ricchezza. Nel suo racconto, tre classi sociali separate tra loro vivono in altri tre paesaggi urbani, ripiegati l’uno sull’altro. Jinfang crede che questo scenario sociale opaco e grottesco, di febbrile compresenza e allo stesso tempo incomunicabilità classista, sia di fatto già compiuto. Rievocando la visione ispiratrice dell’opera racconta:

Una mattina, facevo acquisti in un mercato di strada del tutto simile a quello descritto all’inizio della storia: affollato, caotico, sporco, pieno di vita, colmo di merci a basso costo ammucchiate ovunque. Tutti sembravano devoti all’atto della contrattazione. Fu allora che pensai a Pechino come di una città divisa in una molteplicità di gruppi che non arrivano mai a interagire nella loro quotidianità.

Allo stesso modo, è da Londra che lo scrittore China Miéville trae ispirazione. Tra le penne più note del New Weird, Miéville nasce a Norwich nel 1972, e si trasferisce a Londra, con la madre e la sorella, dopo il divorzio dei genitori. La creatura di asfalto ed escrescenze cementizie che Miéville imparò a conoscere e studiare da allora, è presenza continua all’interno delle sue opere:

Il fiume curva e serpeggia per fronteggiare la città. Che si profila all’improvviso, massiccia, impressa sullo sfondo. La sua luce prorompe contro la zona circostante, ferendo le colline di roccia con livide chiazze di sangue. Le luride torri splendono. Sono avvilito. Sono costretto a venerare questa straordinaria presenza creata dal limo alla congiunzione di due fiumi. ? un’immensa inquinatrice, è fetore, è risuonare di clacson. Grassi camini vomitano sozzura nel cielo, perfino in questo momento, in piena notte. Non è la corrente a spingerci ma la città stessa che ci trascina, risucchiandoci con il suo peso. Deboli grida, qui e là richiami di animali, l’osceno frastuono e il martellare delle fabbriche in cui si accoppiano immensi macchinari. Simile a un intrico di vene protruse la ferrovia disegna l’anatomia urbana. Mattoni rossi e mura scure, chiese acquattate come arnesi trogloditici, logore tende svolazzanti, dedali acciottolati nella città vecchia, strade senza uscita, fogne che crivellano il terreno come sepolcri profani, un nuovo paesaggio di cumuli di rifiuti, pietra frantumata, biblioteche piene di volumi dimenticati, antichi ospedali, palazzi a molti piani, navi e artigli metallici che sollevano carichi dall’acqua. Come abbiamo potuto non vedere cosa si stava approssimando? Che scherzo della topografia è mai questo, che consente al mostro scompostamente disteso di nascondersi dietro gli angoli per poi manifestarsi davanti al viaggiatore? È troppo tardi per fuggire.

Copertina di “Embassytown”

Libri che parlano di coesistenze aliene, paradossi temporali e linguistici, non possono prescindere dal ruolo della metropoli – finanche nei titoli: “Perdido Street Station” (2000), “The City & the City” (2009), “Embassytown” (2011). Giungle urbane sconfinate, dove le derive architettoniche della capitale inglese sono spinte alle estreme conseguenze. I suoi personaggi si confrontano con città fuori controllo, rabberciate e mortali, attraversano spazi enormi e malconci accomunati solo dalle attiguità geografiche, dalle esalazioni che vi scorrono, dove ferve instancabile una caotica convivenza. Miéville è un attivista e teorico socialista, fondatore della rivista politica radicale Salvage, le sue riflessioni su lotte sociali, diritti civili e moti rivoluzionari sono mosse dall’urgenza di un discorso anticapitalista. Senza quella madre crudele e impietosa che è stata la città di Londra, senza il rapporto tra il centro e le sue periferie, probabilmente la scrittura di Miéville non avrebbe beneficiato della stessa potenza.

Non è difficile sentirsi come alcuni dei personaggi di queste storie, smarriti dinanzi alla straordinaria presenza metropolitana, nel mezzo di un future shock, angosciati dalla rapidità del cambio sociale e tecnologico, piombati in spazi urbani eterotopici, con livelli di significato stratificati, come i mondi del mangaka Tsutomu Nihei, in perpetua espansione, fitti di verticalismi esasperati, rovine postindustriali, voragini buie e senza fondo di china e catrame, tubature e canali, spazi cablati che rappresentano metaforicamente la trappola nella quale siamo caduti.

Il paradosso delle città, la sua contraddizione manifesta, sta proprio qui: correre quando invece tutto dice di arrestare la locomotiva, o quantomeno cambiare direzione. Stiamo puntando alla fine del tempo, ma nelle megalopoli che abitiamo, mascheriamo questa marcia con la retorica del lavoro, della tenacia, con una meritocrazia falsata, con i video motivazionali di Youtube. Il nostro desiderio di appaesamento, di ritorno alle origini, il patetismo con il quale guardiamo alla dimensione bucolica, sono frustrati dai tempi e dai modi imposti dalla fruizione commerciale dei luoghi, dalla meccanica pianificazione negli spostamenti, dalla costosissima parcellizzazione abitativa. Le città, i loro quartieri ripuliti, i loro negozi specchiati, i loro servizi a basso costo, hanno portato a confondere un godimento estetico a buon mercato con una sorta di illusorio benessere, svilito il desiderio nella sua schizofrenica riproposizione sotto forma di prodotto, mentre gli spazi sociali e comunitari si restringevano e l’ecosistema collassava.

Per i generi del fantastico quali Chaohuan e New Weird, assimilare questa contraddizione vuol dire essere in grado di riconfigurare la realtà capitalista delle metropoli tardoliberali in un’orgia di potenzialità narrative anti-sistema. Vuol dire riappropriarsi dei luoghi funzionali e anonimi, dei porti mercantili dimentichi e vaghi, degli enormi spazi commerciali non transitabili, non abitabili, aprirli a nuovi sogni di collettività, di critica sociale. Vuol dire liberare dagli scantinati le subculture dei non allineati, cavalcarne idealmente le sommosse e renderle qualcosa di più che temporanee aree di resistenza, utilizzare il prisma del reale come moltiplicatore di esistenze e possibilità, anziché come banale vetrina della standardizzazione neoliberale.

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