Il potere come sottomissione

di Francesca Lombardi


Perché vai a teatro?

Questa è la prima domanda che Julian Beck pone al pubblico durante Sette meditazioni sul sadomasochismo politico, spettacolo teatrale del 1973, ideato dal gruppo anarco-pacifista The Living Theatre, che si occupa di indagare i rapporti sociali di potere vittima-carnefice, sottomesso-dominatore.  Un teatro attivo, propulsivo e, come d’altronde lo stesso nome suggerisce, vivo; in grado di scuotere gli animi e attivare nell’individuo la necessità della bella rivoluzione anarchica non violenta.

Il Living Theatre, fondato da Julian Beck e Judith Malina, è uno dei più importanti esempi di teatro di ricerca 900esco. Attivo a New York dalla fine degli anni ’40 in poi, fonda la propria politica teatrale sull’idealismo anarchico non-violento. L’eredità di Caino, ciclo di spettacoli pensati per la strada o per luoghi extra-teatrali, di cui Sette Meditazioni fa parte, nasce dopo il periodo di carcere in Brasile dove il gruppo era stato condannato a seguito di alcune azioni teatrali nate in opposizione alla dittatura militare del tempo.

Ogni relazione umana, secondo Beck e Malina, vive di questa logica: la famiglia, il mercato, la guerra vengono smascherati e analizzati sotto l’ottica del potere, mosso e perpetuato, in ogni rapporto, dai più forti sui più deboli. Il sadomasochismo come organizzazione introiettata dall’individuo e agito in termini di struttura sociale. Attraverso sette dichiarazioni (meditazioni) viene creato un caleidoscopio di comprensione: i rapporti sessuali e la dinamica di sottomissione che ne sta alla base, l’autoritarismo di governo, la proprietà privata, il denaro, la violenza delle forze dell’ordine, il capitalismo e il cambiamento rivoluzionario.

Gli attori, seduti in cerchio, vestiti di rosso e nero (i colori dell’anarchia), dopo varie azioni, avviano un dialogo con il pubblico, che è disposto ad anello intorno a loro, suggerendo nuovi modi, meno gerarchici e autoritari, di concepire la realtà. “Tutti gli interpreti pronunciano le loro dichiarazioni simultaneamente senza abbandonare le loro posizioni. Quando parlano simultaneamente il suono è poco chiaro. Col muoversi tra il pubblico essi cominciano a dirigere le dichiarazioni direttamente verso piccoli gruppi o singoli individui. […] quando un membro del pubblico dà una risposta che può condurre a un dialogo fruttuoso, l’interprete si ferma a parlare con quella persona.” L’interazione attore-spettatore, fondamentale nella poetica del Living, non viene limitata al mezzo teatrale, alla volontà di creare nuove modalità di ricerca artistica, ma si salda indissolubilmente alla necessità di finalizzare il mezzo al cambiamento politico: il pubblico non come entità indifferenziata ma come individualità su cui operare, per il Living il rapporto agire-vedere agire è l’unica via verso la rivoluzione. La domanda sul perché si va a teatro interseca perfettamente questa logica, lasciando al destinatario il compito di pensare, non da solo, ma nella comunità creata dall’incontro, la responsabilità di una possibile risposta. “[…] nel teatro ci saranno sempre un individuo, un gruppo di persone e una massa di spettatori […] Cioè c’è il pubblico, c’è il gruppo e c’è l’individuo.”

Momenti di pacifica ma intensa comunicazione vengono sostituiti da altri in cui la violenza viene rappresentata attraverso immagini esplicite e dirette. Esempio di quanto appena detto è la famosa scena in cui un attore nudo (l’unico di colore del gruppo) viene legato e appeso a testa in giù ad una sbarra metallica, con un elettrodo inserito nell’ano che, controllato da un generatore telefonico, emette scosse elettriche. La scena ovviamente è riprodotta, ma il metodo di tortura è realmente utilizzato nelle prigioni sui carcerati: “La scena mostrava una parte del trattamento al quale erano sottoposti i prigionieri politici, e quello fu il nostro sforzo per portare la loro voce, il loro urlo nelle orecchie di mezzo mondo, per sensibilizzare le coscienze rispetto a quanto accadeva in Brasile e, ovviamente, in tanti altri paesi.” Durante questo momento, un altro interprete leggeva le statistiche di Amnesty International sui metodi di tortura utilizzati in diversi stati, allacciando alla finzione spettacolare un indissolubile collegamento con il reale. Quello a cui assistono gli spettatori negli anni ’70 è simulazione solo nei termini ma non nell’essenza: i rapporti sadomasochisti si reggono sulle logiche mostrate, sulla sodomia e l’umiliazione, che, governati dai principi di piacere e dolore, continuano incessabilmente a perpetrarsi, auto-nutrendosi.

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È riuscito il Living Theatre ad abbattere il capitalismo e compiere la bella rivoluzione anarchica non violenta? No, non c’è riuscito. Significa che questi tipi di ideali e modalità artistiche vadano etichettate come inefficaci e anacronistiche? Non del tutto, le modalità risultano anacronistiche perché non ricollegabili strettamente alla realtà odierna che, abbandonate le ideologie, si trova a fare i conti con una materia politica inorganica e continuamente cangiante. Ciò che però resiste ai cambiamenti del tempo sono le questioni che emergono dalle riflessioni del Living: può esistere un mondo senza violenza? è pensabile trovare nuove forma di convivenza che tengano conto delle necessità di tutti? Il punto focale, come già detto precedentemente, è il potere e le dinamiche ad esso collegate che, resilienti, si adattano torcendosi.

Sette meditazioni sul sadomasochismo politico, così come tutto il repertorio del gruppo americano, esercitano ancora un potente fascino perché, nel buio della nostra incapacità ad orientarsi, forniscono un orizzonte di riferimento tangibile, un’utopia non realizzabile in sé e per sé ma capace di farci andare avanti, compiendo dei passi verso un possibile cambiamento.

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