Le ombre della follia

di Francesca Lombardi


La scena si presenta come uno spazio totalmente bianco (dalle pareti al pavimento fino agli abiti e al volto dell’attore), sterile e freddo, che riesce a ricordare la sala di un manicomio e insieme le camere di una pensione per anziani; un luogo fisico ma soprattutto mentale, segnato e vissuto da pensieri e memorie, in bilico tra sanità e follia: basta la camminata stessa dell’attore, innaturale ed estenuante, mai portata ad un vero e proprio compimento per rovinarne il candore.

Danio Manfredini, attore-autore, si esibisce in scena accompagnato da un manichino, suo doppio, di craighiana e kantoriana memoria. Gli unici oggetti presenti sono una sedia doppia con ruote, un comodino con radio, una sedia attaccata a una parete semovente che ricorda, nell’uso e nell’aspetto, gli screens di Edward Gordon Craig.

La vera protagonista scenografica però è l’ombra, che, proiettata sui muri coperti da teloni bianchi, contribuisce ad ampliare il rapporto di senso tra attore e manichino, creando una scena parallela a quella fisica di uguale, se non superiore, efficacia. Danio Manfredini abita questo luogo indefinito, dandogli fisicità attraverso l’uso del corpo: si serve dei movimenti scattanti e irrequieti, propri dei malati mentali, per esprimere l’angoscia e l’incapacità di dare ordine alla sua mente. Il manichino è il vero centro dello spettacolo: con lui Manfredini si confronta toccandolo, parlandoci, facendo percepire al pubblico l’eterno contrasto tra coscienza e incoscienza, tra esteriorità dell’individuo e mente che agisce segretamente all’interno, tra equilibrio e follia, come recita la canzone di Vasco Sally, che accompagna un momento dello spettacolo: « è tutto un equilibrio sopra la follia »; la musica pop viene utilizzata a più riprese in maniera straniante come elemento di rottura tra la tragicità della scena e la banalità con cui pensieri e paure fluttuano nella mente, creando una zona grigia di significazione che, invece di ridicolizzare il momento, lo carica di forza.

L’uso dei coefficienti scenografici non si limita a quanto fino ad ora descritto ma si amplia nella proiezione prima di disegni, appartenenti al periodo in cui Manfredini insegnava pittura negli ospedali psichiatrici di Milano, fino a fotografie che, nel finale, sostituiscono i disegni, creando nello spettatore un ponte tra narrazione e consapevolezza, dando volto ai personaggi che l’attore interpretava, poco importa se corrispondenti o meno al racconto presentato. La fisicità di Manfredini si innesta in una narrazione elettrica e intimamente coinvolgente, che entra in sintonia profonda con lo spettatore anche grazie all’uso scenografico che l’attore fa del proscenio praticamente inesistente, segnato e diviso dal pubblico da fari che illuminano la scena di luce fino quasi ad accecare, luce che nel finale straborda, inondando di bianco i volti assorti degli spettatori: tramite l’illuminazione la scena allargandosi arriva a contenere tutti, pubblico e attore, in un’unica grande dimensione mentale vuota in cui ognuno non può far a meno di riversare paure e speranze.

Definito da Manfredini stesso come uno spettacolo incompleto, Al Presente si delinea come esito di teatro contemporaneo che, dalla tradizione degli autori-attori come Carmelo Bene e Dario Fo (per quanto riguarda i riferimenti italiani) e il teatro del corpo dell’attore di Iben Nagel Rasmussen (attrice tra le prime ad aderire all’Odin Teatret di Eugenio Barba, con cui l’attore milanese si forma), spinge la ricerca spettacolare verso modalità sceniche differenti: l’incompiutezza dello spettacolo danza con l’incompiutezza propria dell’esistenza umana.

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