In copertina: Statua di cavaliere alato con lancia e scudo, particolare da foto di Xeyal Kerimbeyli: https://www.pexels.com/it-it/foto/bianco-e-nero-uomo-arte-statua-18287195/
Si può immaginare uno sviluppo umano libero dal dominio violento?
di Simone Furzi
L’umanesimo e i suoi figli prediletti – illuminismo, romanticismo e positivismo – hanno in epoca moderna forgiato e promanato il mito del progresso come destino inalienabile dell’umanità, volto a migliorare le sue condizioni materiali e ad allontanarla dalla barbarie del passato. L’idea che il progresso sia stato foriero di pace è però, parafrasando Mark Twain, quantomeno fuorviante. Anzi, a guardar meglio, la guerra del progresso non è stata antitesi, ma vettore propulsivo.
La storia è disseminata di indizi in tal senso, ma il primo coincide con la sua stessa periodizzazione, dove ogni età porta il nome del metallo prevalentemente in uso per la creazione di utensili domestici e soprattutto di armi. Il tenero rame è soppiantato dal più resistente bronzo (c. 3000 a.C.), a sua volta sostituito dall’economico ferro (c. 1100 a.C.), utile per servire eserciti più numerosi e in grado di combattere un maggior numero di battaglie. Questo dice molto del nostro passato e del nostro presente, ma anche del modo in cui viene definito l’evolvere della civiltà: dalla capacità di fare la guerra.
In tutti quei luoghi dove l’uso di tecnologie più avanzate (dalla scrittura all’architettura) ha permesso alle comunità umane di tramandare tracce più profonde del proprio vissuto, dei propri miti, della propria cultura – dalla Mesopotamia al Sinai, dal Mar Mediterraneo a quello del Nord, dal Fiume Azzurro al Gange, dai Caraibi agli altopiani mesoamericani – l’uso e la celebrazione della guerra sono state delle costanti. I vincitori delle varie contese belliche hanno impresso nelle società il proprio genoma culturale, arrivando in pochi millenni a imporsi come modello egemonico globale. Loro, in larga prevalenza, hanno dato forma a quello che siamo adesso. Come scriveva il filosofo Walter Benjamin, che proprio durante la Seconda guerra mondiale si suicidò per sfuggire dalle mani dei nazisti (Sul concetto di storia, Einaudi, 2006):
chiunque abbia riportato sinora vittoria partecipa al corteo trionfale dei dominatori di oggi, che calpesta coloro che oggi giacciono a terra. […] Non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento della barbarie.
Con le parole del collega francese, dalla più fortunata sorte, Paul Ricoeur, eclettico studioso del linguaggio, della società e dall’etica (La questione del potere. L’uomo non-violento e la sua presenza nella storia, Marco, 1992):
la storia dell’uomo sembra allora identificarsi con la storia del potere violento; al limite, non è più l’istituzione a legittimare la violenza, ma la violenza a generare l’istituzione, redistribuendo la potenza fra gli Stati e le classi.
Riprendendo la rassegna dei metalli dominanti, potremmo dire di trovarci ormai nell’età del silicio, dove si sono estesi oltremodo i confini della guerra e accelerati i processi di trasformazione tecnologica. Potere della velocità, “dromocrazia”, secondo la definizione del filosofo e urbanista francese Paul Virilio, che rimpicciolisce lo spazio e illude di estendere il tempo, mentre “la Storia progredisce alla velocità dei suoi sistemi di armamenti” (Velocità e politica: saggio di dromologia, Multhipla, 1981). Sta lì a dimostrarlo la sequela di razzi anticarro, missili balistici, droni esplosivi guidati dall’AI e virus informatici (sul rapporto tra digitale e industria bellica si veda Andrea Coveri, Claudio Cozza, Dario Guarascio, Blurring Boundaries: An Analysis of the Digital Platforms-Military Nexus, in Review of Political Economy, 1–32, 2024, https://doi.org/10.1080/09538259.2024.2395832) impiegati, testati ed esibiti con malcelato orgoglio sui vari fronti d’avanzamento della civiltà.
A usufruire copiosamente del potere della velocità è però anche la punta più avanzata del capitalismo globalizzato, la finanza, che della guerra adotta pratiche e semantica. Non si parla solo della Finanzkrieg tra Stati introdotta da Bismarck e ancora oggi largamente praticata, in particolare dagli Stati Uniti, tra esclusioni dai circuiti bancari ed embarghi (per una precisa ricostruzione sulle normative in uso per la guerra finanziario-commerciale, si veda Alessandro Aresu, Il dominio del XXI secolo. Cina, Stati Uniti e la guerra invisibile sulla tecnologia, Feltrinelli, Milano, 2022). Silvano Cacciari nel suo La finanza è guerra. La moneta è un’arma. Viaggio tra le forme del dominio (La Casa Usher, Firenze, 2023), descrive l’ambiente finanziario come dominato da “dinamiche antropologiche neotribali” dove il vettore principale è quello della “guerra annidata negli scambi e nei servizi in moneta e suoi derivati”, identificando appunto “nell’intreccio tra conflitto sul campo e guerra finanziaria la chiave di lettura delle complessive distruzioni sociali e materiali della parte di secolo in cui viviamo”.
Conquista, accerchiamento, contenimento, attacco, dissanguamento, terra bruciata sono solo alcune delle espressioni belliche usate nel gergo di borsa, a cui si affiancano quelle di nuova fattura come flash crash, flash boom, price discovery, vanguard, robo trader, alludenti contestualmente all’esplorazione e alla predazione di risorse, alla caccia, a cui l’autore fa risalire la fonte generativa della guerra, in una condivisa genealogia simbolica e ritualistica. Le innovazioni del digitale, appunto, in particolare i programmi di calcolo automatici per la compravendita di titoli come l’High-Frequency Trading, divengono un “elemento di radicalizzazione dei comportamenti predatori degli esseri umani”, già fortemente presenti nella finanza, asserisce Cacciari, in una spirale viziosa di accelerazione distruttiva. Una versione 4.0 del rituale dei potlàc, raccontato da Mauss nel Saggio sul dono (uscito in Francia nel 1924; prima edizione italiana nel 1965 per Einaudi), rituale in cui, come nelle dinamiche di accaparramento della ricchezza, il fine esibizionista del potere in sé travalica quello dell’utilità nel disporre di ingenti beni materiali. Questa ipertrofia finanziaria dilaga ormai nel cuore dell’impero mondo (chissà ancora per quanto…), gli USA, dove il mercato dei capitali è pari al 20% del PIL, rispetto al manifatturiero che cuba solo l’11%, genera il 50% dei profitti, e vale l’88% di tutte le transazioni finanziarie mondiali (dati dell’Atlantic Council e del FMI, riportati da Filippo Maronta in “Pagare è comandare” sul numero 3/2024 di Limes). Gli scompensi cardiaci provocati, dalle crescenti disuguaglianze alla debordante conflittualità sociale passando per lo sfibramento dell’economia reale, finiscono per danneggiare gravemente l’organismo da cui la finanza nasce e in cui continua ad abitare.
Tra tribù e civiltà
Abbiamo visto che Cacciari descrive l’ambiente della finanza come neotribale e raccolto intorno al totem della moneta, la savage money, “che non contiene solo i numeri che certificano il suo potere di scambio ma anche quelli sociali dell’immaginazione, dell’onirico, delle competizioni e del conflitto”. Questo neo-tribalismo iper-identitario e iper-competitivo lo possiamo ritrovare, mutatis mutandis, in tutti i milieu, dallo sport alla politica, passando per la cultura. In questa composita forma civilizzata di neo-tribalismi sono però assenti le buone caratteristiche dei Boscimani del Kalahari o degli Arawak dell’Orinoco. Senza ricadere nella macchietta del bon savage, va riconosciuta alle originarie società tribali una forte consapevolezza dell’importanza del limite, sociale e naturale, per garantire il benessere comune. La guerra contro altre tribù, sebbene presente, era un evento episodico e di portata ristretta, legato prevalentemente alla scarsità di risorse e alla impossibilità di migrare per trovarne delle altre. Gli studi di antropologi come David Graeber e Marshall David Sahlins hanno fornito molteplici elementi su come la vita dei cacciatori-raccoglitori fosse caratterizzata da bassa conflittualità, poche ore di lavoro, una buona alimentazione e un alto grado di eguaglianza sociale.
Su questi temi, un vivido spunto di riflessione si può trovare tra le tormentate pagine di uno scrittore, che, come Dickens o Zola, ha abitato il mondo occidentale tra Ottocento e Novecento, proprio in quel momento in cui l’imperialismo capitalista viveva il suo fulgore espansionista, mostrando il suo volto più rodomontano e caliginoso. Si tratta dello statunitense Jack London, il padre di Zanna Bianca, che nell’estate del 1902 mette indosso gli abiti lisi di un marinaio e si immerge per alcuni mesi nei fondali più disagiati della East London edoardiana. Dormendo in baracche e cibandosi alla mensa dei poveri, vive la miseria quotidiana, fatta di fame, di violenza, di ubriachezza, di soprusi e di miasmi, della classe proletaria che abitava l’abisso della società britannica. Al termine del suo viaggio, lo scrittore statunitense produce un reportage narrativo intitolato appunto The People of the Abyss (qui citato nell’edizione italiana Il popolo degli abissi, Ronin Edizioni, 2014), spaccato sociologico crudo e puntuale di un’umanità vasta e negletta, con cui aveva convissuto e tentato di immedesimarsi. In questo abisso, London constata appunto che, pur essendo cittadino del più ricco e potente paese della storia, l’inglese medio viva ben peggio di chi appartenga a comunità tribali come quella degli Inuit dell’Alaska, “una popolazione molto primitiva, che mostra solo qualche vago presentimento di quello straordinario artificio che è la civiltà, ma dove “la fame come condizione permanente di un numero rilevante di persone non esiste”.
Per l’autore è chiaro che “se la civiltà ha aumentato la capacità produttiva dell’uomo” senza migliorare “le sorti dell’uomo medio”
la risposta può essere una sola: cattiva gestione […]. Una volta accettato questo[…] o l’impero rappresenta un guadagno per l’Inghilterra, o è una perdita. Se è una perdita, bisogna sbarazzarsene. Se è un guadagno, deve essere gestito in modo tale che l’uomo medio ne abbia una parte. Se la lotta per la supremazia commerciale è vantaggiosa, proseguiamola. Se non lo è, se danneggia i lavoratori e rende la loro vita peggiore di quella dei selvaggi, allora gettiamo a mare i mercati stranieri e l’impero industriale.
London, a cui vogliamo perdonare l’anglocentrismo, ci ribadisce in sostanza che il progresso tecnologico deriva dal potere bellico e da quello commerciale, e che pur accrescendo la capacità produttiva di una società esso non permette di raccoglierne i frutti a gran parte dei suoi componenti. Li destina, anzi, a vivere in condizioni ben peggiori di quelle esperite nelle comunità tribali che da tale progresso non siano state investite. La sua sentenza è inappellabile: se imperi e commerci connessi non servono a migliorare la vita dell’uomo medio, allora tanto vale dismetterli.
Ma dismetterli, allontanarci dal percorso che ci ha condotti fino a quel che siamo, discindere il progresso, e dunque il nostro processo evolutivo, dal dominio violento che gli è finora stato consustanziale, è davvero possibile?
Secondo lo storico Yuval Harari (Homo deus. Breve storia del futuro, Bompiani, 2018), oggi nessuno sul pianeta terra è davvero disposto a rinunciare alla possibilità di godere, seppur in maniera grandemente diseguale, dei numerosi comfort che questo tipo di progresso ha portato, dall’aumento dell’aspettativa di vita alle variegate opportunità di cibarsi, spostarsi e intrattenersi. Al contrario, l’umanità sarebbe sospinta dall’irrefrenabile desiderio di poter fare e avere di più, fino a trascendere i limiti della corporeità biologica, sconfiggere la morte, colonizzare altri luoghi dell’universo. Transitare, appunto, da homo sapiens a homo deus, nella efficace suggestione del saggista israeliano. Persino al costo di creare società sempre più diseguali e connotate da un profondo malessere psicologico, di distruggere in maniera irreparabile l’ecosistema in cui viviamo e di provocare indicibili sofferenze a tutti gli esseri viventi del pianeta; di vivere insomma in un permanente stato di guerra.
La retrospettiva qui abbozzata e un avvertito sguardo sull’attualità non fanno propendere, eufemisticamente, per una visione ottimista. Partendo da un pessimismo cosmico di leopardiana memoria, più rivolto alla Historia magistra che a Madre natura però, su tali questioni ragiona ampiamente il giornalista e scrittore statunitense Ben Ehrenreich nei suoi Taccuini del deserto. Istruzioni per la fine dei tempi (Edizioni Atlantide, 2021), un viaggio antropologico e letterario fra passato mitologico dei Chemehuevi e presente trumpiano, dalle dune del Mojave alle luci accecanti di Las Vegas, dove tratteggia il destino apocalittico dell’umanità. Per l’autore
il disastro è già avvenuto… È accaduto così tanto tempo fa che ce ne siamo dimenticati, l’abbiamo rimosso, tenuto lontano dalla nostra memoria collettiva. La civilizzazione, come la conosciamo, non è una conquista ma una tragica sconfitta. La maggior parte di quella che consideriamo storia è fondata su una catastrofe che la concrezione degli anni ha solo peggiorato. Ma ciò significa anche che non siamo condannati a questo, che esistono altri modi di vivere, che abbiamo da perdere molto meno di quanto pensassimo, e da imparare ancora un sacco di cose.
Insomma, se c’è ancora una speranza, questa passa per l’apertura verso l’altro da sé e per la capacità di immaginare l’altrove. Se l’homo sapiens è ormai moribondo, all’homo deus, conteso tra hybris e distopia, è preferibile una humanitas ad libitum, “a volontà, a piacere”, che sappia vivere e prosperare nella solidarietà e nella diversità, emarginando la violenza. Per dirlo ancora con Ricoeur far “prevalere, in tutti i rapporti con la natura, il desiderio di conoscenza sul desiderio di dominio”.
Consapevoli che il futuro non incede per forme geometriche euclidee, ma ondeggia fra frattali e piani ricurvi verso imponderabili orizzonti, davanti al quesito se riusciremo mai a disarmare il progresso per donargli una nuova direzione, come fa dire l’esistenzialista francese Gabriel Marcel, maestro di Ricoeur, in una delle sue numerose opere teatrali, L’emissario (L’émissaire, Atto III, Paris, 1949; citato in Paul Ricoeur, Gabriel Marcel, Per un’etica dell’alterità: sei colloqui, Edizioni Lavoro, 1998), al personaggio di Antoine Sorgue:
Sì e no, è la sola risposta, là dove siamo noi stessi ad essere in causa; crediamo e non crediamo, amiamo e non amiamo, siamo e non siamo; ma se è così, è perché siamo in cammino verso una meta che nel suo insieme vediamo e non vediamo.