In copertina: Foto di Anthony PIdgeon/Redferns
Storia orale di Strokes, LCD, Interpol e amici: quando a NY ci si drogava e si scopava ancora
«Nella scena musicale di New York c’era un senso di vertigine. Percepivamo che c’era qualcosa di nuovo nell’aria, qualcosa di importante, anche se era impensabile che potesse interessare a chiunque oltre che a noi. Gli Strokes e i loro più vicini compagni erano la colonna sonora di quella fragile era».
Così scrive Lizzy Goodman, giornalista musicale, di moda e di cultura pop, in apertura del suo Meet Me in the Bathroom: una ricostruzione panoramica di quella eccitante, incasinata e spontanea esplosione di band sbucate fuori come funghi dal sudicio sottosuolo newyorkese nel decennio 2001-2011. Uscito nel 2017 in USA, il libro diventa un caso letterario tanto da ispirare l’omonimo film-documentario del 2022; esce in traduzione italiana nel 2023 per Odoya. A leggerlo si ha la sensazione di una corsa forsennata tra un bar e l’altro a sbronzarsi con i protagonisti della storia, effetto che riesce grazie alla forma scelta: un’oral history assemblata con un minuzioso lavoro di taglia e cuci su centinaia di interviste, montate a stralci giustapposti come fossero dialoghi corali attorno a situazioni, eventi, dischi, band. Aneddoti, dettagli episodici, puro gossip, una rete di giudizi concordanti e discordanti, racconti apparentemente sconnessi ma che via via formano una rete impressionistica, nevrotica e in fibrillazione. C’è un precedente in Please Kill Me di Gillian McCain e Legs McNeil (1997) che usa la stessa formula per comporre un mosaico del punk a New York dalle voci di Iggy Pop, Patty Smith, Richard Hell, i Ramones. Ma il modello è anche quello ormai ampiamente adottato dal formato documentaristico televisivo.
Il piano valutativo della critica lascia il posto all’esperienza personale degli interpellati: musicisti, discografici, giornalisti, fan. Strokes, Interpol, LCD Soundsystem, Yeah Yeah Yeahs, White Stripes, The Rapture, Moldy Peaches, The Killers, Kings Of Leon, Vampire Weekend e altri ricordano come hanno vissuto la loro parabola di successo, dai locali grezzi allo show biz globale. Il risultato è una descrizione di quell’insieme di contingenze più o meno fortuite che hanno fatto parlare di “rinascita del rock ’n’ roll”. Coincidenze, disavventure e speranze che si sono addensate al volgere del millennio nel triangolo tra l’East Village e Brooklyn, in un fremito a cui si è aggrappata una generazione. Tutte vicende svoltesi su uno sfondo, che a guardarlo bene è in realtà quello che sta in primo piano: la città di New York.
New York Cares (got to be some more change in my life)
Il posto giusto al momento giusto, si dice. Peccato che a fine anni ‘90 New York fosse sì il posto giusto, ma al momento sbagliato, per chi si ostinava a far musica con le chitarre. La scena era in decadenza, sostituita dall’avanguardia di Seattle e Londra, di Cobain e del Cool Britannia. Trasferirsi a New York era una mossa da sfigati, se avevi una band. Il mainstream era Britney Spears, e il fenomeno hip hop, esaltante e appena nato, fagocitava le attenzioni discografiche. Public Enemy, Biggie e Jay-Z avevano sfondato, il che era esaltante, ma distante dalla cultura dei magazine e delle radio universitarie: i ragazzini bianchi erano tipo: “Bene, noi questo decennio lo saltiamo”, dice il giornalista John Heilemann. A meno che non si convertissero ai pantaloni baggy e le canotte del nu-metal. L’immaginario rock relativo alla città era la carcassa della New York anni ’70, della Factory e del CBGB, l’era ribelle che generò il punk, che tuttavia era considerata ormai lontana, al massimo rivissuta da alcuni atteggiandosi come non fosse finita. Eppure, Meet Me in the Bathroom fa risaltare come un manipolo di ragazzini ha scelto comunque New York. Chi nativo, chi trasferitosi lì, rapito dalla mitologia del luogo in cui tutto può succedere. Un luogo al centro ma ai margini, in cui si va per liberarsi dalle catene della provincia, perché sei quello strano, che rimarrebbe indigesto al resto del paese.
In NYC degli Interpol, Paul Banks canta “New York Cares”, riferendosi al nome della più grande organizzazione di volontariato della città, famosa per aver fornito migliaia di coperte e giacche ai senza fissa dimora; poi il controcanto: “got to be some change in my life”. Cambiare vita e diventare famosi, questo era il motivo per cui si stava a New York, seguendo i passi di generazioni di artisti: Charlie Parker, Dylan, Hendrix, Madonna, e la lista va avanti all’infinito. In quella giungla il pericolo era anche la più grande occasione: essere completamente esposti agli altri. Allora quel coacervo di fervente umanità, ancora una volta, accoglieva freaks di ogni genere tra i suoi vicoli con gli affitti stracciati, per fargli trovare conforto. Un po’ come quello concesso ai clochard dalla New York Cares.
Tutti si trovavano lì per fare qualcosa di nuovo. Ma anche il mondo attorno stava per diventare un’altra cosa.
The Modern Age
All’inizio degli anni Duemila Laura Young, poco più che una ragazzina, apre un blog. Si chiama The Modern Age – nome ispirato alla canzone degli Strokes. Laura è ossessionata da Strokes e White Stripes, li segue ad ogni show. Il blog inizia con l’intenzione ingenua di condividere con gli amici l’eccitazione per la musica, in forma di foto e flussi di coscienza dopo i concerti, postati alle quattro del mattino. Non c’erano statistiche che tenessero traccia del traffico internet, perciò credeva nessuno leggesse, fin quando NME la contatta per pubblicare i suoi resoconti. Sulla carta stampata. Una blogger. Altri blog simili proliferano, e viene lanciato anche Pitchfork. Il mondo dell’editoria mainstream diffidava di Internet e non accettava che potesse durare, che fosse pari al loro modello editoriale, anzi lo insidiasse. Lo stesso valeva sul fronte discografico: l’industria musicale non vedeva arrivare la rivoluzione dello streaming. Eppure centinaia di tracce scaricate illegalmente col servizio di file sharing Napster, attivo dal 1999, cominciavano a circolare su PC, cellulari e il neonato iPod. Di lì a poco MySpace avrebbe abbattuto ulteriori paradigmi. Lizzy Goodman racconta come quella generazione di band sia stata l’ultima a fare le cose alla vecchia maniera, vendendo CD e vinili, consegnando di mano in mano volantini dei concerti fuori dai club, senza ancora Facebook e Twitter, proprio mentre il web si avviava ad azzerare distanze geografiche e culturali, in uno sciamare di condivisioni istantanee.
In generale, si ha il presentimento di un’era sul punto di andarsene senza nemmeno farsi notare, sommessa e timida come un adolescente con le cuffiette, scivolando via sotto le forze della storia e della tecnologia, per lasciare il posto a nessuno sa bene cosa. Un presentimento ben riassunto nello stridere febbrile della chitarra di Nick Valensi, o nelle trame nere di basso di cui è intessuto Turn On The Bright Lights. Oppure ancora, nei ritmi dell’elettronica disco-punk di Rapture e LCD Soundsystem, suoni acidi che paiono pensati per ballare in mezzo alle macerie, mentre la terra crolla sotto ai piedi.
Is This It, debutto degli Strokes, usciva in America il 9 ottobre 2001. Ma l’uscita era stata posticipata, la data per cui era programmata era un’altra: 11 settembre 2001. Dopo gli attentati al World Trade Center inoltre, New York City Cops, canzone presente nella versione europea, venne eliminata da quella americana e sostituita da When It Started, perché offensiva verso il dipartimento di polizia in lutto per le perdite subite tra i suoi agenti. I componenti delle varie band protagoniste della scena si trovavano tutti a New York al momento del crollo. Chi lo ha visto dalla finestra, svegliandosi incredulo con le telefonate, dopo una sbornia, e chi si è precipitato ad aiutare con la croce rossa. Gli Americani sperimentavano per la prima volta una sensazione assoluta che culturalmente gli era perlopiù estranea: quella di essere totalmente indifesi, vulnerabili e soli. Il libro suggerisce che nessuno sapesse come elaborare l’accaduto; c’era l’idea diffusa che fosse qualcosa di molto vicino alla fine del tempi. Ma terrore e shock post-traumatico hanno avuto l’effetto paradossale di liberare un desiderio smodato di agire, di prendere in mano la penna e scrivere: in tanti ricordano di feste più folli e promiscue di prima, dove tutti danno di matto.
L’energia era quella di chi si aspetta di morire in ogni caso, prendendo la metro, magari. Quindi, a questo punto… perché morire sobri?
Date With The Night
Abitavano, uscivano e suonavano ad “Alphabet City”. Dell’alfabeto c’erano solo le prime quattro lettere, ABCD, che contrassegnavano le strade principali di quel quartiere a est della Bowery. Ma per chi viveva di notte, ABCD era anche un acronimo: “Alcohol, Blow, Crack, Death”. Se volevi ubriacarti andavi in Avenue A; se volevi la coca, Avenue B; il crack nella C e nella D eroina e pugnalate.
New York era sporca e cattiva. Era fondamentale che fosse un affare sporco. Questo libro è una mappa dei club e dei locali in ombra, tossici, pericolosi, dalle cui dissolutezze sotterranee è potuta germogliare, pur nelle differenze tra le varie band, una comune attitudine, che pescava di nuovo radici della cultura rock: coolness, mentalità da no-fucks-given, ventre e viscere. Ogni gruppo si pensava come una gang e come tale usciva insieme sette sere a settimana. Il tutto nonostante la “tolleranza zero” di Rudy Giuliani.
Quando diventò sindaco, Giuliani sfruttò delle leggi esistenti a New York dal 1926, ma mai applicate nei fatti. Le chiamavano “cabaret laws”: per ospitare concerti o DJ e far ballare gli avventori serviva una licenza da cabaret, concessa con difficoltà. Nei club comparvero cartelli con su scritto: “Non ballate, grazie”, di cui le band si prendevano gioco sistematicamente. Per le strade circolava una task force della vita notturna che controllava i locali puntando le torce in faccia, e sopra ai quartieri ronzavano elicotteri per stanare vagabondi e prostitute.
Giuliani faceva pulizia per l’arrivo delle agenzie immobiliari che avrebbero maggiorato gli affitti, su misura per i nuovi ricchi. L’angolo della coca diventava uno Starbucks; il piano era cacciare fuori tutto ciò che era bizzarro, emarginato, estremo, bohémien, per aprire boutique e presentare la versione commercializzata del reale. Le vite dei musicisti sono raccontate come una resistenza strenua alla “disneyficazione” di New York. Il patchwork delle loro testimonianze lascia in bocca l’amaro nel constatare che la direzione voluta dal sindaco è quella che alla fine ha prevalso, e che una scena caotica ma vitale come quella forse oggi è difficile immaginarla. In un’epoca con la nevrosi ossessiva della pianificazione, della sicurezza, della standardizzazione, in cui ogni città è investita dal restyling che la ammanta di una patina luminosa ma artificiale. Il filtro Instagram buono per venderla.
New York, I Love You But You’re Bringing Me Down
Tutto ciò accadeva in luoghi dove c’erano le tracce di cose avvenute molto tempo prima. Gli Strokes vivevano a un isolato di distanza dalla chiesa di St. Mark, dove era stato fondato il Patti Smith Group, scelta perché lì Kerouac faceva le sue letture. Nell’East Village abitava tutta la cricca di Warhol e i Velvet Underground suonavano al St. Mark’s Place. Il collegamento non è in linea retta, non si va dalle nenie decadenti dei Velvet a quelle degli Strokes, dal carisma da palcoscenico di Patti a quello di Karen O. Somiglia più a una strada accidentata che unisce punti a caso da un lato all’altro della città, ma c’è qualcosa di costante che rimane nel sound, l’anima delle strade dove quelle band avevano le loro radici.
Il libro serve anche a smentire chi, spesso nato prima del 1975 o giù di lì, invece di vedere nella scena dei primi 2000 una mappa di riferimenti e citazioni, ci vede copie sbiadite. Ragion per cui l’etichetta critica “garage rock revival” e “post punk revival” per alcuni hanno preso un’accezione negativa. E allora gli Interpol sembrano proprio i Joy Division e i Rapture uguali uguali ai Gang Of Four – come se la storia del rock non si muovesse per influenze su influenze: gli Stones non rubavano a piene mani dal blues nero? Meet Me in the Bathroom disintegra questo approccio mostrando il valore della musica nel significato che ha assunto per una generazione.
Era un periodo di calma prima delle tempeste del nuovo millennio che stavano per piombarci addosso. New York era il centro del mondo, quindi questa tensione era amplificata. È come se questa sensazione dell’essere in procinto di… fosse filtrata nella scena musicale. Anche se quello che viene dopo il “di” è un grande “boh”. E fa una paura fottuta. Strokes e compagni erano la “colonna sonora di quella fragile era”, e da chi li seguiva erano vissuti, oltre che come gruppi, come complici alla ricerca di “gioventù e abbandono”. Loro e i coetanei inseguivano New York: un senso di possibilità e promesse che faceva tutt’uno con ribellione e caos. Di questo parlavano la voce compressa e distorta di Julian Casablancas, quella ululata e selvaggia di Karen O, oppure la comica ma intima disperazione in quella di James Murphy.
Ma sintomo dei tempi era anche la “stronzata post-moderna”, come la definisce Karen O, di non prendere sul serio la propria esperienza collettiva. Di fronte a un momento creativo che non si vedeva a New York dalla fine dei ‘70s comunque “tutti sono sempre sospettosi, tutti continuavano a mettere in discussione tutto, come se non fosse reale. O è solo l’hype a farlo sembrare reale? Ma era reale!”. Il libro è un documento – carta canta, si dice – per tenere a mente che sì, è successo tutto davvero. Anche se non siamo più capaci di crederci fino in fondo.