Virdimura di Simona Lo Iacono

In copertina: John William Waterhouse, Jason and Medea, 1907

di Greta Russo


Ho letto Virdimura di Simona Lo Iacono dopo Un amore di Dino Buzzati e prima di Leggere pericolosamente di Azir Nafisi, come un cuscinetto tra due grandi libri, una storia di passaggio per allentare la pressione e consolare nel distacco, senza pretendere un grande romanzo o un saggio che mi avrebbe spalancato nuovi orizzonti. Dentro ci ho rivisto bene la città che ho vissuto durante l’università e mi ha riportata un po’ a casa, ci ho trovato la storia leggera che cercavo, ma ci ho trovato anche un interrogativo, che la sua stessa esistenza pone: perché siamo sempre più piene di libri che raccontano questioni profonde in modo superficiale?

Nel 1302 la pace di Caltabellotta ha diviso il Regno di Napoli dal Regno di Sicilia, gli Aragonesi sono i signori dell’isola, Catania è, insieme a Palermo e Messina, una delle capitali del regno e vi si può trovare tutto quello che ci si aspetta da una città siciliana dell’epoca. Nelle strade si arrotola il passo affaccendato di mercanti, naviganti, aromatari, sacerdoti di tutte le religioni, al mercato strillano le voci in siciliano, arabo, catalano, aramaico e ogni lingua che arrivi dal porto, i profumi speziati e caldi, pungenti, agrumati e salmastri, che restituiscono il quadro di un mondo dipinto dalle tinte forti del mare e del cielo azzurrissimi e della lava scarlatta del vulcano. In un sabato piovoso di quell’anno nasce una bambina senza nome e senza madre, figlia di un padre che attende che sia lei stessa a scegliersi il nome. Virdimura sarà chiamata, e la sua storia sarà incredibilmente singolare: sarà la prima donna europea a cui viene riconosciuta la licentia curandi, il diritto a esercitare la professione medica, come recita il documento conservato nell’archivio storico di Palermo e riportato in appendice al romanzo. Certo, questo non significa che da quel momento in poi le donne abbiano potuto esercitare senza fatica o senza problemi, anzi, ma lei è un primo, luminoso esempio e questo romanzo vuole raccontare la sua vita.

In Virdimura (Guanda, 2024) caracolliamo prima al fianco di una bambina vivace, curiosa, sporca e impacciata come una bambina dovrebbe essere, e poi seguiamo a passo svelto la donna che è diventata, vediamo la fatica che ha fatto per diventarlo, muovendoci in una città che ci sembra di rivedere e immaginare a tratti, il cui affresco costituisce forse una delle cose più riuscite del romanzo. Catania è protagonista quasi quanto Virdimura, e a chi conosce la città Lo Iacono dà la sensazione di tornare indietro, in un tempo dorato e odoroso, e poi di camminare sui ciottoli rotondi del mercato del pesce, costeggiare le terme romane, immaginare la Giudecca a ridosso di piazza Dante, giungere fino al Castello Ursino che dominava il mare.

Così, leggendo appaiono davanti ai nostri occhi la città e la casa che “non era simile a nessun’altra”, la figura silenziosa e curiosa del padre, che cura chiunque abbia bisogno, a maggior ragione chi non può permetterselo. Ci appaiono il mare luccicante in cui Virdimura si lava, le erbe che insieme, padre e figlia, mischiano per allontanare la morte e la malattia, la musica che lasciano correre quando la malattia non si può più allontanare e la morte ha bisogno di essere accolta.

È Virdimura stessa a raccontarcelo, ripercorrendo la sua vita davanti agli augusti doctori incaricati di interrogarla, giudicarla, metterla alla prova. La protagonista parla, e lo fa in una sorta di monologo-arringa che vuole avvolgerci con la sua esperienza e farci vedere il mondo con i suoi occhi, come l’ha visto nel corso della sua vita: la complicità è assicurata.

Chi ero? Non un medico, ché nessuna legge di Israele o del mondo aveva mai autorizzato una fimmina a farsi dutturi. Non una levatrice, non una sposa, né una madre, o una figlia. Ero cittadina, ma ero anche straniera. Avevo un nome, ma nessuno voleva pronunciarlo. Ero forse della specie invisibile dei profeti che – come Geremia – urlavano che siamo tutti coperti del sangue del fanciullo? No, ero solo una donna. Razza di scartati, di unicorni, di mostri.”

Il problema è che tra le righe del testo la chiarezza si perde in uno spazio in cui si mescolano dialettismi e dialetto, arcaismi e strutture sintattiche piuttosto contorte. La volontà di far parlare la terra stessa produce una lingua vischiosa, che riesce a evocare atmosfere e sensazioni ma suona irrimediabilmente falsa. A emergere è un mondo che, nel suo voler sbiadire i confini tra realistico e immaginifico, appare ingenuamente artificioso e manca della profondità del reale, quella stessa profondità così corposa nel realismo magico sudamericano, da cui trae espressamente ispirazione. Non per questo, tuttavia, la lettura è faticosa, anzi, l’intento immaginifico è riuscito e le parole ci cullano nel loro suono ritmato e ripetitivo: è come la frutta martorana, zuccherina e colorata, ma di colori troppo accesi e una dolcezza esagerata per essere vera.

Ciò che mi sembra evidente in Virdimura è lo scollamento tra la serietà del tema, una storia profondissima, di una donna che lotta per rompere i confini che la società le ha imposto, e la leggerezza del romanzo, che sembra preoccuparsi più di evocare un’atmosfera che di raccontare davvero una vita singolare. Se il femminismo passa anche – e lo fa, non c’è dubbio in merito – dalla riscoperta delle pioniere sconosciute, delle infinite sorelle di Shakespeare costrette al silenzio, allora a queste donne dobbiamo dare la giusta dignità, la giusta misura umana, riprodurre una figura che produca un’ombra. Questo di Virdimura, però, non è un caso isolato, tanto è vero che negli ultimi anni una folla di eroine sconosciute sta inquieta sugli scaffali delle librerie. Le loro vite, tuttavia, sono spesso narrate con troppa leggerezza, risultato di scelte estetiche, letterarie e, più in profondità, politiche, che mostrano i propri limiti e – sicuramente in qualche caso – anche il proprio intento: cavalcare un femminismo pop che si rivela fragile nei contenuti e ingenuo.

Siamo in questo caso di fronte a una donna incredibilmente affascinante, eppure così avvolta in una fitta nebbia di irrealtà che non riusciamo a vederci attraverso; Virdimura, personaggio storico, è qui evanescente e sembra non essere esistita davvero. Dov’è la persona vera, fatta di carne, fatica, sudore? La intravediamo, ma è sempre sfocata. La stessa Lo Iacono in un’intervista rilasciata a Social Up Magazine nel luglio 2018 dice dei suoi personaggi che “Oppongono alla prepotenza la debolezza. Alla bellezza dell’apparenza la bellezza delle ferite. Al successo del mondo, il successo della scoperta della propria vocazione. I miei personaggi raramente conquistano la felicità che la società apprezza. Spesso restano nella loro condizione, che è una condizione umilissima e defilata. Ma la loro felicità è un’altra. E consiste nel trovare se stessi. Il proprio posto nel mondo.” Cosa vuol dire nella vita reale opporre alla bellezza dell’apparenza la bellezza delle ferite? I suoi personaggi sono e rimangono personaggi, non persone.

Uno degli aspetti più riusciti è il contrasto che emerge con chiarezza tra il centro del romanzo e i margini, la voce “altra” della folla. C’è sempre, infatti, un movimento corale nella scrittura di Lo Iacono: così, come un coro tragico bicipite, sentiamo le voci dei sacerdoti giudei da una parte e dei cristiani dall’altra, rappresentanti di ciò che è “normale”, nel cui riflesso la protagonista si specchia. Ma anche qui si sente la mancanza di qualcosa che dia maggiore ragion d’essere alle motivazioni di questo coro. Per dirla altrimenti: non possiamo essere dalla parte di Virdimura solo perché lei è la protagonista del romanzo e in quanto tale è l’eroina che si scontra con i nemici. Dove sono le motivazioni di questi ultimi? Dove è la complessità umana che crea il tessuto stesso della letteratura, così ben presente nella tradizione tragica greca, di cui questo romanzo è tutto, più o meno consciamente, impregnato? C’è infatti una teatralità nel modo in cui Virdimura racconta la sua storia, evocando il tempo passato e le sue sofferenze, così come c’è l’eco della lingua involuta eschilea, c’è l’idea del destino irrimediabile, la Tyke a cui non si sfugge.

Lo schema è classico di Lo Iacono, che nella sua scrittura è molto coerente. Lo sfondo dei suoi romanzi è sempre la sua terra, spesso raffigurata in momenti di importanza storica particolare per l’isola o per l’Italia tutta; in essi seguiamo sempre i passi di una personalità a suo modo eccentrica, a volte per scelta a volte per caso, che non ha un suo vero posto nel mondo o fatica a incastrarsi in quello che la società si aspetta che occupi. I suoi personaggi e le sue personagge si arrabattano, allora, a costruirsene uno a propria misura, scontrandosi con la collettività. Caratteristica singolare è spesso l’attenzione riservata ai confini legislativi entro cui si muovono, in linea con la professione dell’autrice, magistrata al tribunale di Catania, confini che in qualche modo delimitano sempre le loro azioni e insieme danno a queste la spinta propulsiva per abbatterli. Così, un legame invisibile rende sorelle Virdimura e Anna Maria Ciccone (La tigre di Noto, Neri Pozza, 2021) e Antonno, amico “tutto al contrario” di un Giuseppe Tomasi di Lampedusa bambino, (L’albatro, Neri Pozza, 2019) e Lucia Salvo (Il morso, Neri Pozza, 2017) e poi Tilde e Rosalba e Felice (Le streghe di Lenzavacche, Edizioni E/O, 2016, candidato al Premio Strega) e tutte le altre e gli altri, il cui nome e la cui vita, talvolta, Lo Iacono ha il pregio di recuperare dai racconti di storie vere che aleggiano nei luoghi e nella memoria collettiva senza essere conosciuti davvero.

Il risultato regala a chi legge il barocco di una lingua e una atmosfera opulente nel loro bagno di sole e di suoni, ma purtroppo è anche un risultato superficiale, che non rende giustizia a donne come Anna Maria Ciccone – che con il suo coraggio nel ’44 riuscì a evitare che i tedeschi distruggessero l’Istituto di Fisica a Pisa – e la stessa Virdimura; è godibile e di intrattenimento, ma per goderne bisogna scendere a patti con l’esistenza tra le sue pagine di un divario tra significante e significato e confidare nel fatto che questo divario sia dettato dall’ingenuità e non dal desiderio volontario di tacere dei pezzi.

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