Antigone o Contro Antigone

In copertina: Antigone prova a seppellire Polinice, Jean-Joseph Benjamin-Constant. Olio su tela. 1868

di Sara Ponzo


Capricciosa, egoista, arrogante, l’Antigone descritta da Eva Cantarella nel suo recente libro, Contro Antigone (Einaudi, 2024) sembra essere diversa dalla giovane protagonista della tragedia greca, che nell’immaginario comune tutti associamo all’eroina “modello di ogni comportamento nobile, coraggioso e altruista”.

Ma Contro Antigone è veramente un libro contro Antigone? L’autrice ci tiene a specificare che il titolo non si riferisce al mito moderno, ma proprio al personaggio della celebre opera di Sofocle.

Antigone viene messa in scena per la prima volta ad Atene nel 442 a.C. e nonostante siano passati secoli la sua storia rimane sempre attuale e viva più che mai; un simbolo di lotta contro la tirannide, di determinazione e disobbedienza civile tanto che nel corso del Novecento la sua figura è stata sinonimo di resistenza e dissenso politico e ancora oggi viene affiancata a temi quali il femminismo, la salvaguardia dei diritti umani, la giustizia, la difesa dei più deboli e degli emarginati.

Antigone è la figlia di Giocasta ed Edipo, madre e figlio, coniugi per tragica fatalità. Dopo averlo scoperto, ai due toccherà un’infausta sorte che si abbatterà come una maledizione sull’intera famiglia. Giocasta si ucciderà mentre Edipo, accecandosi per non essere più costretto a vedere gli orrori di cui è artefice, sceglierà l’esilio, accompagnato dalla sua devota figlia Antigone. Alla morte di Edipo, i suoi due figli Eteocle e Polinice, decidono di alternarsi al governo di Tebe. Dopo il primo anno da re però, Eteocle si rifiuta di cedere il trono al fratello, infrangendo così l’accordo; Polinice di conseguenza chiede rinforzi e si allea con Argo, muovendo una guerra contro Tebe, sua madrepatria, difesa da Eteocle. Entrambi però sono destinati a morire, perché su di loro grava la maledizione di Edipo: uccidersi a vicenda per non essersi opposti all’esilio del padre. Il trono di Tebe, rimane così nelle mani dello zio Creonte. Sarà proprio il suo editto, che vieta la sepoltura di Polinice, considerato ormai nemico pubblico, a scatenare la reazione di Antigone. Lo scontro tra i due è il cuore pulsante dell’opera e incarna l’eterno conflitto fra potere politico e legge della famiglia; Sofocle aveva aperto un dibattito destinato a durare nei secoli, ma questa d’altronde era la funzione educativa del teatro: indurre il pubblico a riflettere sui problemi della polis senza portare in scena degli eventi contemporanei, ma farvi riferimento indirettamente collocandoli in un tempo mitico, “per definizione fuori dal tempo”.

Antigone vuole seppellire il corpo del fratello, Creonte si oppone. Nonostante il divieto, Antigone mossa da amore fraterno, compie un gesto simbolico, getta della terra sul corpo di Polinice, rimasto insepolto alle porte di Tebe – “Mi è morto un fratello, non uno schiavo” (verso 517, Einaudi, Trad. di V. Faggi) e a renderla ferma nella sua convinzione sono le leggi divine “non scritte e incrollabili” e soprattutto giuste perché la giustizia è possibile solo nel regno dei morti – “Ade esige che le leggi siano uguali per tutti” (verso 521). Ma l’atto sovversivo mina l’ordine legislativo della polis, rappresentato da Creonte.

Creonte è l’antagonista, il tiranno, la legge (davvero ingiusta? Mette in dubbio Cantarella), l’insensibile, colui che non sa ascoltare il dolore di Antigone di fronte alla sue disgrazie familiari culminate con l’impossibilità di dare una degna sepoltura al caro fratello: “il nemico non diviene amico, neppure quando muore” (verso 522), sono le fredde parole che rivolge ad Antigone. Si presenta come il legittimo sovrano – ed è vero, essendo il parente più prossimo alla famiglia di Edipo: “ecco che a me sono toccati e il trono e il potere, per diritto di parentela coi defunti” (verso 173-174). A questo, scrive Eva Cantarella, “fa seguire alcune specificazioni sulle quali vale la pena soffermarsi: chi detta e fa rispettare le leggi, dice, non deve «considerare più importante della patria una persona cara» e non deve «diventare amico di un nemico della patria»”. Per la storica, il discorso di Creonte, difensore del diritto come insieme di norme condivise dai cittadini, non è autoritario ma didascalico: “vuole dire ai Tebani che a partire dal divieto di seppellire Polinice egli sarà un re giusto”; “la decisione di riservare due trattamenti diversi a chi era morto in difesa della patria e chi contro di essa” sembra essere, sotto questo aspetto, giustificabile.

La storica e giurista, fa poi un’altra considerazione: per i Greci, “oltre a essere un gesto di doverosa pietà verso i defunti, la celebrazione dei riti funebri era un atto con il quale veniva reso loro l’ultimo onore sociale”, in tal modo l’anima del defunto poteva riposare nell’Ade e non vagare smarrita in eterno. Questi riti erano regolati da “consuetudini plurisecolari” ed è a questa “tradizione” che Antigone si appella – “Perché esse (le leggi degli dèi) non sono di oggi o di ieri ma vigono da sempre , e nessuno può dire quando siano apparse” (verso 456-457). Ma coloro che morivano in battaglia, lontano dalla loro patria, molto spesso non venivano seppelliti affatto, diventando pasto per gli animali. Dunque Creonte non sta infrangendo nessuna legge con il suo «bando della discordia», ma anche lui ribadisce solo una “regola non scritta”, una consuetudine appunto, quella di non seppellire i nemici. Lo scontro fra i due è inevitabile.

È chiaro, Eva Cantarella si schiera apertamente con Creonte, tanto che anche la vivisepoltura, scelta come condanna a morte per Antigone (che inizialmente era stata condannata alla lapidazione), è ai suoi occhi del tutto normale e non frutto di un particolare accanimento contro la giovane. L’autrice si era già occupata di questo aspetto anche in un altro suo scritto, “I supplizi capitali in Grecia e a Roma” (Rizzoli, 1991): “la lapidazione è una pena pubblica, collettiva, ha luogo nello spazio aperto della città. L’esecuzione riservata ad Antigone, invece è tale da portarla a morire in un luogo segreto, destinato a rinchiudersi su di lei per sempre, inesorabilmente e definitivamente”. Le donne che commettevano un reato, infatti, venivano generalmente esposte agli sguardi e al giudizio della polis per tutto il tempo del processo, ma poi venivano consegnate ai familiari per essere chiuse in uno spazio domestico, come la cantina, dove morivano di fame e di stenti. La vivisepoltura appariva una pena discreta, silenziosa e molto furba: “la morte inflitta al genere femminile era abitualmente tale da consentire a chi la statuiva di non essere responsabile in maniera diretta”, scrive Cantarella; “E poi lasciatela morire là dentro, abbandonata, sola, sia che le tocchi di morire, sia di restar sepolta viva. Non ci macchiamo, noi, del sangue di questa ragazza, ma lei sarà esclusa dalla convivenza sulla terra” (verso 883-890), afferma Creonte.

La figlia di Edipo è consapevole che rifiutandosi di rispettare l’editto del sovrano andrà incontro alla morte ma, dopo una vita segnata da disgrazie e maledizioni divine non c’è da stupirsi, dice Cantarella, se anch’essa aspiri a questa per riposare finalmente accanto ai suoi cari, sia pure causa involontaria della sua infelicità: “vittima com’è di una disperata follia di annientamento e di distruzione, Antigone non ama nessuno, così come non ama se stessa: il suo solo e vero amore è la morte”. Ma Antigone parla anche di amore – “Non sono nata per condividere l’odio ma l’amore” (verso 523), ed è proprio questo sentimento che la porta a sacrificarsi, ed è lo stesso che porta Emone, suo promesso sposo, a sacrificarsi per lei. Emone è il figlio di Creonte, e quando quest’ultimo decide di condannare la ribelle Antigone, suo figlio cerca di impedirne la morte schierandosi contro suo padre. Emone per Cantarella è un personaggio sottovalutato, “un innamorato che si suicida alla morte della amata, che tra l’altro (,) non aveva mai dato il benché minimo segno di ricambiare il suo sentimento”. Emone esemplifica anche lo scontro tra due generazioni, tra padri e figli, è “un eroe romantico ante litteram (,) un uomo che ama una donna fuori dalle convenzioni sociali, qual è Antigone, e lo fa a tal punto di porsi a sua volta al di fuori di quelle convenzioni”.

L’amore muove anche Ismene, la sorella quasi dimenticata della protagonista, che inizialmente non vuole partecipare all’impresa suicida di sua sorella: “Ma tu ami l’impossibile” (verso 91), le dice. La sua paura di essere punita e di morire è fin troppo umana e razionale (“Non sono nata per combattere il volere della città”, verso 78-79), ma Antigone, al suo rifiuto, proprio non ci sta e ne scaturisce un dialogo che condannerà Ismene ad essere vista come una figura negativa:“ Ismene non avrebbe le idee chiare, si dice, non avrebbe la decisione di Antigone, il coraggio e l’amore che questa ha per il fratello; le mancherebbe la ferrea, incrollabile volontà di perseguire i suoi obiettivi”.

Eppure Ismene si schiera con sua sorella quando questa viene accusata di aver trasgredito le regole, rischiando a sua volta la morte. Ismene è pronta a morire con Antigone ma questa, ferita ancora per il rifiuto iniziale, le risponde con freddezza: “io non amo chi sa amare soltanto a parole” (verso 543). Per Cantarella, Ismene “è un esempio di amore fraterno, di intelligenza e di coerenza: tra le due, è lei, non la celebre e celebrata sorella, il personaggio più bello, più nobile e degno della maggiore ammirazione”.

Cantarella smonta la figura di Antigone, rimarcandone i difetti e allo stesso tempo mettendo in luce i pregi di altri personaggi sottovalutati per secoli. Alla poca considerazione di Antigone per il fidanzato Emone contrappone l’enorme sacrificio che lui compie per lei, alla dolcezza di Ismene oppone la freddezza glaciale di un’ Antigone che ha già deciso di combattere da sola e fiera contro Creonte.

Antigone è una donna che non ha paura di lottare contro un uomo. La condizione femminile in Antigone è un tema centrale e più volte viene sottolineato, ad esempio da Ismene che inizialmente cerca di dissuadere la sorella dalla sua impresa (“noi donne non siamo nate per combattere contro uomini, e poiché siamo soggette a chi è più forte, dobbiamo rispettare i loro ordini, e anche peggiori di questi”, verso 61-64) e dallo stesso Creonte in un feroce dialogo con la nipote (“Finché son vivo, non sarà una donna a comandare”, verso 525). Molte donne si sono occupate di questo aspetto nel corso del tempo trovando in Antigone il modello di lotta contro il patriarcato.

Per Luce Irigary (Speculum, 1974) la forza di Antigone sta nella concretezza dei rapporti di parentela, un fortissimo legame di sangue a cui si contrappone l’astrattezza incarnata da Creonte e quindi dallo Stato. Il sangue di cui parla la filosofa rappresenta infatti il “femminile”, il rapporto ancestrale con la famiglia opposto all’autorità della legge, il “maschile”. Anche Hegel se ne era già occupato nella sua Fenomenologia dello Spirito, quando paragona Antigone alle leggi divine del focolare, un potere femminile destinato però a morte certa in quanto, con il suo gesto sfida le leggi dell’uomo: “Mediante i suoi intrighi l’elemento femminile […] trasforma il fine universale della comunità in un fine privato, trasforma l’attività universale in un’opera di questo individuo determinato, e converte la proprietà universale dello Stato in possesso e orpello della Famiglia”. Il femminile sarebbe quindi incapace di superare l’individualismo e pensare alla collettività in termini universali. Per Françoise Duroux, che nel 1991 aveva pubblicato Antigone ancora. Le donne e la Legge, la provocazione di Antigone sta proprio nel fatto che una donna superi la dimensione del privato a cui una società patriarcale come quella antica l’aveva relegata, esca allo scoperto, abbia il coraggio di mettere in discussione delle leggi scritte (dagli uomini) e parli di affetti e di famiglia, elevandoli a temi che riguardano anche la sfera pubblica della polis. Per Judith Butler, che si occupa di Antigone nel suo saggio del 2003 La rivendicazione di Antigone. La parentela tra la vita e la morte, la protagonista commette un doppio “crimine”. L’eroina, infatti, non ha solo disubbidito a Creonte ma ha rivendicato la maternità dell’atto utilizzando gli stessi toni giuridici: “l’ho fatto, dico, e non lo nego” (verso 443). La sfacciataggine di Antigone sta non solo nel disobbedire apertamente al sovrano infrangendo il suo decreto ma nel metterne in discussione la legittimità; alla domanda di Creonte sul perché avesse trasgredito la legge, lei risponde: “Per me non è stato Zeus a proclamarla, quella legge e nemmeno fu Dike (la Giustizia) che abita con gli dèi di sottoterra ad imporla agli uomini. Non pensavo che i tuoi decreti avessero potere da consentire a un mortale di calpestare le leggi non scritte degli dèi, che sono inviolabili.”

Al di là delle varie interpretazioni, Eva Cantarella sceglie di farne una rilettura insolita, dando più spazio a Creonte, considerato ingiustamente il cattivo per antonomasia. Nelle sue conclusioni evidenzia le difficoltà nel riconoscere nel personaggio di Antigone le qualità che abitualmente le si attribuiscono e afferma: “L’Antigone del mito non è una lettura «diversa», è il travisamento del personaggio di Sofocle, è la sua trasformazione in un personaggio altro, operato in chiave antilluminista dal romanticismo letterario e filosofico”. A partire dal Romanticismo, infatti, la lettura di Antigone era stata stravolta, “si mettevano in luce le caratteristiche che si riteneva dimostrassero la superiorità del «femminile» sui principi del «politico», ovviamente maschile”. Solo anni più tardi, ci si comincerà ad interrogare su chi fosse effettivamente Antigone, come si comportava, quali erano le sue reali caratteristiche e non con poche difficoltà, dato che su di lei sono state dette molte cose e a volte, diametralmente opposte. Per Cantarella, comunque, Antigone è un’individualista, per lei la polis non aveva importanza e per Creonte quindi il suo comportamento rappresentava un pericolo. Ma a creare il suo personaggio era stato Sofocle: “Era stato lui ad attribuirle, accanto agli innegabili meriti un carattere duro, chiuso, privo di interessi e della benché minima apertura verso tutto quello che non riguardava il perseguimento del suo obiettivo”. Perciò se Sofocle sceglie di inserire un personaggio come Antigone nel suo racconto destinato ai cittadini ateniesi lo fa per sottolineare, ribadisce la scrittrice, “la totale, assoluta mancanza di senso civico” della protagonista e mostrare “i rischi insiti nell’anteporre gli obiettivi individuali a quelli della polis”.

Creonte, del resto, questo non lo fa, rimane saldo ai suoi principi e ne paga un prezzo molto alto con la morte di suo figlio Emone. Solo alla fine decide di mettere da parte le sue convinzioni liberando Antigone, ma è troppo tardi, lei si è tolta la vita e Creonte rimane solo con il suo dolore. “A differenza di Antigone, monocorde, sempre uguale a se stessa (,) Creonte è un vero personaggio tragico, che rappresenta la forza della ragione, destinata a essere sconfitta dal disegno divino”. Eva Cantarella vuole rendergli giustizia, oltre che «contro Antigone», dice, il suo libro è anche un po’ «per Creonte».

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