di Sara Ponzo
“La verità è che sono unico”, ci confida il minotauro di Borges in “La casa di Asterione”. Non pecca di vanità, al contrario, c’è in lui rassegnata tristezza. Asterione vive solo e non esce mai di casa, una casa enorme – grande come il mondo – con le porte sempre aperte giorno e notte, e lunghi corridoi freddi e polverosi. Non ci sono mobili, né lussi, né sfarzi; tutti gli ambienti, come in un gioco di specchi, si ripetono all’infinito. Una situazione ideale per un racconto di Borges, che lo pubblica nel ‘47 sulla rivista Los Anales de Buenos Aires e poi lo nasconde in quel labirinto mitologico che è L’aleph.
La solitudine del minotauro non sembra essere frutto di una libera scelta: quando lo vedono, le persone sembrano spaventate, fuggono, pregano, si prosternano atterrite, si gettano in mare, i bambini piangono. Essere nobile non gli serve a niente: “E la regina dette alla luce un figlio che si chiamò Asterione” è scritto nella Biblioteca, la più grande enciclopedia di mitologia greca dell’antichità (erroneamente attribuita ad Apollodoro). Ne deriva una vita un po’ monotona. Il tempo, nel racconto di Borges, non è definito, i giorni sono lunghi e tutti uguali, Asterione non sa leggere – un po’ se ne dispiace – così inventa altri passatempi: “corro per i corridoi di pietra fino a cadere al suolo in preda alla vertigine”, dice, “gioco a rimpiattino(,) ci sono terrazze da cui mi lascio cadere, finché resto insanguinato”. Gioca da solo fra le fredde mura di pietra. A volte si addormenta e quando riapre gli occhi nota che il colore del giorno è cambiato. Ma siccome ha un disperato bisogno di contatto umano, ha un amico immaginario, un altro Asterione, con cui riesce a chiacchierare e ridere di gusto, e a cui può mostrare la casa, con i suoi infiniti cortili e cisterne e corridoi di pietra grigia, dove tutto si ripete molte volte e solo due cose esistono una volta sola: “in alto, l’intricato sole; in basso, Asterione” (al netto del suo doppio). Nella sua schiacciante soledad, che il lettore percepisce in tutto il racconto, gli fanno compagnia ogni nove anni, e solo per pochi istanti, nove uomini. Che però non sono lì per intrattenerlo, ma per farsi liberare. Il minotauro di Borges, infatti, ha una funzione catartica, espia le nostre colpe (“Ogni nove anni entrano nella casa nove uomini, perché io li liberi da ogni male”), ci libera dal dover vagare nel labirinto – nel mondo – senza mai poter raggiungere l’intrinseco significato dell’esistenza umana. Anche Asterione attende di essere liberato, soprattutto da quando gli viene profetizzata la venuta del suo salvatore. Da quel momento non fa che chiedersi: “Come sarà il mio redentore? Sarà forse un toro con un volto d’uomo? O sarà come me?” Per tutta la prima parte del racconto non ci viene mai detto chi è Asterione, forse è intuibile da qualche dettaglio, ma la verità è che il lettore rimane costantemente nell’incertezza; non ci sono nemmeno coordinate spazio-temporali, come nella maggior parte dei racconti borgesiani dove la vaghezza dell’onirico sembra prendere il sopravvento. Solo alla fine del racconto, con poche parole e un geniale colpo di scena, viene svelato il mistero. Sarà la voce di Teseo a illuminarci: “Il sole della mattina brillò sulla spada di bronzo. Non restava più traccia di sangue. «Lo crederesti, Arianna?» disse Teseo. « Il Minotauro non si è quasi difeso»”. Tutti ricordiamo il mito del minotauro, ma in modo molto diverso: il re Minosse chiese a Poseidone di inviargli un toro da sacrificare in suo onore, ringraziandolo così per avergli concesso il trono dell’isola di Creta. Tuttavia, mancando alla promessa e tenendo con sé l’animale, Minosse attirò l’ira del dio. Questi allora fece sì che la regina Pasifae si invaghisse del toro stesso, al quale si unì, generando il Minotauro, una creatura dal corpo umano e la testa taurina. Il mostro, feroce e bramoso di carne umana, viene rinchiuso in un labirinto costruito dal saggio architetto Dedalo e nutrito ogni nove anni con nove fanciulli e nove fanciulle che la città di Atene doveva offrire in sacrificio per pagare il suo tributo a Creta. Nel racconto di Borges però, il ruolo del minotauro è capovolto. Se nel mito è un mostro sanguinario, qui appare come una creatura sola e addirittura indifesa, condannata dalla sua diversità a svolgere un ruolo che non vorrebbe ricoprire e ad aspettare a sua volta che qualcuno lo liberi dal fardello. Fardello che non viene riconosciuto né tantomeno compreso, come traspare dall’incredulità delle parole che Teseo rivolge ad Arianna alla fine dell’ “eroica” impresa. Qui l’ironia di Borges. Anche Teseo ha dunque un ruolo (“un giorno sarebbe giunto il mio redentore”), ma non sembra rendersene conto. Nel mito è l’eroe che libera le fanciulle e i fanciulli ateniesi dal mostro taurino, mentre nel racconto è il salvatore del minotauro, in sostanza la morte liberatrice. Lo scrittore mostra una certa empatia verso il suo Asterione e, in effetti, in un’intervista del 1981 in cui aveva detto di preferire all’Odissea l’Iliade (dove l’eroe però non è Achille, ma Ettore) afferma: “Sì, ho simpatia per i vinti, i reietti purché intervenga a riscattarli, come nei personaggi di Conrad, l’individualismo e quella categoria dello spirito iberico che è el honor”. Ad influenzarlo sono la letteratura europea e quella nordamericana, ma anche la cultura dell’Oriente, i classici greci e latini e i racconti popolari della sua terra – “altri si vantino dei libri che hanno scritto, io di quelli che ho letto” (Elogio all’ombra). E Borges di libri ne ha scritti tantissimi, racconti, saggi e poesie, mescolando sapientemente vari generi letterari perché come lui stesso afferma: “la prosa convive con il verso; forse per l’immaginazione entrambe sono uguali. Felicemente non apparteniamo ad una sola tradizione; possiamo aspirare a tutte” (Opere Complete). Folklore e mito, realtà e finzione, verso e prosa, tutto si mescola in Borges, come in un sogno. Nell’opera borgesiana ci si interroga spesso sull’incomunicabilità dell’esperienza umana. Asterione ad esempio, non riesce a esprimere quel senso di solitudine opprimente che deriva dall’essere se stesso e dallo svolgere il compito che le imperscrutabili leggi dell’universo hanno scelto per lui: “Non mi interessa ciò che un uomo può trasmettere ad altri uomini; come il filosofo, penso che nulla può essere comunicato attraverso l’arte della scrittura”. Siamo davanti a una contraddizione, data la magistrale scrittura di Borges che riesce, al contrario, a trasmettere con simboli e metafore (“La seconda metafora è la trama di un tappeto, che propone allo sguardo un caos e una vertigine, ma un ordine segreto lo governa”, Metafore delle Mille e una notte), la disarmante bellezza e complessità dell’esistenza umana, con le sue luci e ombre e spiccati contrasti – “…ma già i Greci sapevano che siamo i sogni di un’ombra” (L’altra morte). Il suo Asterione sembra avere i tratti del minotauro dipinto dall’inglese George Frederic Watts, in cui appare un mostro riflessivo e assorto mentre contempla l’orizzonte, affacciandosi da una delle tante terrazze del suo labirinto. Ed è così che lo scrittore ci consegna l’inquietante immagine del mondo come un labirinto da cui non si esce, nonostante non abbia porte o ne abbia infinite. Si rimane confusi e stupiti dalla complessità del mondo stesso dove l’ordine e il caos, la norma e l’assurdo sembrano sfuggire da ogni logica comprensione. Quella del labirinto è un’immagine centrale nella sua poetica e compare altre volte nella raccolta L’Aleph. In “L’immortale”, ad esempio, il narratore è un tribuno romano di epoca imperiale alla ricerca della misteriosa Città degli Immortali che riesce a raggiungere solo dopo aver attraversato un labirinto, definito “un edificio costruito per confondere gli uomini; la sua architettura, ricca di simmetrie, è subordinata a tale fine”. Nonostante ce l’abbia fatta superando un estenuante viaggio tra pericoli e ostacoli, rimane disgustato dall’immortalità perché conosce gli immortali, i “trogloditi”, uomini senza vitalità e privi di parola, giacché, non conoscendo più la morte, non sanno più vivere. Il viaggiatore allora, dopo aver conquistato anche lui l’immortalità, decide di tornare indietro e raggiungere un fiume in grado di donargli nuovamente la mortalità e dunque la vita stessa. Capisce così che è la morte a renderci uomini –“essere immortale è cosa da poco: tranne l’uomo, tutte le creature lo sono, giacché ignorano la morte; la cosa, terribile, divina, incomprensibile, è sapersi mortali”. Nel breve racconto “I due re e i due labirinti”, si contrappongono due labirinti diversissimi tra loro. A Babilonia, il re aveva fatto costruire dai suoi architetti e maghi migliori un labirinto talmente complesso da far desistere i più prudenti dall’entrarvi e far perdere chiunque avesse osato farlo: “quella costruzione era uno scandalo, perché la confusione e la meraviglia sono operazioni proprie di Dio e non degli uomini”. Un giorno, a corte si era recato in visita il re d’Arabia e, per burlarsi dell’ingenuità del suo ospite, il sovrano babilonese lo aveva condotto nel labirinto, dove aveva lasciato che vagasse per ore, umiliato e confuso. Invocato l’aiuto divino, il re d’Arabia era riuscito a uscire, dicendo che nella sua terra, era in possesso di un labirinto migliore. Dopo qualche tempo, l’offeso sovrano era tornato a Babilonia radendo al suolo i suoi palazzi e facendo prigioniero il suo re: “In Babilonia mi volesti perdere in un labirinto di bronzo con molte scale, porte e muri; ora l’Onnipotente ha voluto ch’io ti mostrassi il mio dove non ci sono scale da salire, né porte da forzare, né corridoi da percorrere, né muri che ti vietano il passo.” Il prigioniero fu legato a un cammello e abbandonato nel deserto, dove morì di fame e di sete. In questo caso il labirinto mortale è quello naturale, il deserto. Nell’Introduzione di “Tutte le opere” di Jorge Luis Borges edita da Mondadori, Domenico Porzio scrive: «Borges, all’ipotesi di un universo caoticamente ordinato, sostituisce il cosmos, un disegno ordinato, tuttavia, da impenetrabili leggi. Luogo dove caos e cosmos si riuniscono è il labirinto: luogo contraddittorio perché è una architettura che, insieme, protegge e incarcera chi lo abita. Il labirinto si dilata in metafore molteplici: la biblioteca che è l’universo, con i suoi infiniti e ripetitivi corridoi, è un labirinto. E lo è il deserto, che conduce allo stesso smarrimento e alla morte. Sono labirintici i sogni che approdano all’incubo, all’allucinazione. Tra i simboli del caos e dell’infinito, Borges enumera anche il labirinto formato da una sola “invisibile e incessante” linea retta, i labirinti del tempo e del pensiero, i labirinti dello spirito […]» C’è chi definisce il carattere degli scritti di Borges “fantastico metafisico”, altri dicono che il suo sia “un mondo fantastico governato dalla logica”, altri ancora lo considerano uno dei “grandi distruttori della letteratura”, contraddizione che non può che evidenziarsi quando ci si trova di fronte a uno scrittore che affronta temi universali come il tempo, l’eternità, il destino, la morte, la personalità e il suo sdoppiamento, la sofferenza, il paradosso, la metafora, ma che lo fa con elegante drammaticità e ironia. L’intera opera borgesiana è in un certo senso un’unica opera, in cui ritornano costantemente le stesse tematiche, d’altra parte lui stesso ci avverte: “è mia consuetudine scrivere la stessa pagina due volte, con variazioni minime” (L’altro, lo stesso). Non c’è aspetto dell’esistenza umana che non indaghi senza mai dimenticare che questi temi sono sì universali, ma unici e individuali. “La verità è che sono unico”, afferma infatti Asterione.